Attualità

In memoria di David Rockefeller, unicorno

Morto a 101 anni il capitalista per eccellenza, di cui si è molto parlato, sempre per opinione o per sentito dire, come del Signore del Denaro e delle Tenebre.

di Gianluigi Ricuperati

Ogni volta che penso a David Rockefeller, morto ieri a 101 anni nella sua mansion, penso all’unicorno bianco. La Caccia all’Unicorno, l’arazzo più importante della Storia, realizzato tra il 1495 e il 1505, sette pannelli meravigliosi e imponenti nei quali un gruppo di cavalieri e nobili catturano l’incantevole unicorno immacolato (allegoria del Cristo ucciso e risorto), campeggiava infatti nella residenza di W54st, a Manhattan, e fin da piccolo invadeva la psiche e gli occhi del più piccolo dei fratelli Rockefeller, nipoti di un nonno “robber baron” per eccellenza, incarnazione e ostia vivente del Capitalismo Moderno (notate quanto appare fragile la tessitura della cute nelle sue foto da anziano, mentre gioca a golf incappucciato da una specie di berretto da aviatore). Eppure la maggior parte delle persone viventi e alfabetizzate associano David Rockefeller e la sua famiglia a ben altri animali: serpenti, alieni, rettili di varia natura fantastica e tassonomica, patti ultracosmici tra generazioni di illuminati ed esecutori di ordini.

Ma la simbologia dell’unicorno è molto varia e ampia: nel capitalismo tecnologico di oggi, ben distante dalle avventure petrolifere del primo Rockefeller, John Davison (che, vale la pena di ricordarlo, era partito come commesso a 5 dollari alla settimana), “fondare un unicorno” (build a unicorn) significa compiere imprese eccezionali per impatto, durata e consistenza. Roger Caillois, invece, uno degli scrittori più curiosi e interessanti del Novecento, autore del Mito del Liocorno, cita il trattato di Ambroise Paré, chirurgo personale di Enrico II, scritto nel 1579, secondo il quale il liocorno «abita nelle contrade sconosciute, luoghi inaccessibili. Il che dimostra che quelle genti non sanno nulla di certo, e non ne parlano che per opinione o per sentito dire».

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Anche di David Rockefeller si è parlato per opinione o per sentito dire per tutta la seconda metà del Ventesimo secolo, il periodo durante il quale si è espressa in modo più intenso la sua attività di headhunter spirituale del capitalismo postbellico; un misto di geopolitica, finanza e mitopoiesi, non a caso comparsa quando nella cronologia storica si è manifestato il solo tentativo concreto di eliminare la proprietà privata dalla faccia della vita sul pianeta.

David Rockefeller ha rappresentato il meglio e il peggio della vulgata sul capitalismo: misteri, complotti, ma anche uno schietto tentativo di controllo equilibrato del complicato cosmo dei viventi, con una altrettanto schietta visione del mondo, in cui i migliori, i più ricchi, i più distanti dai bisogni materiali, devono prendersi carico degli oneri e degli onori di una guida dall’alto. In questo senso si può leggere la parabola pubblica di David Rockefeller come un tentativo (abbastanza riuscito) di influenzare gli eventi, le forze in campo, le entità legislative, in una direzione che non ha nulla di ipocrita: guardando in tale direzione, le sole energie positive in grado di sprigionare equilibrio appartengono alle democrazie liberali e capitaliste: Europa dell’ovest, Nord America, Giappone. Per questo motivo è stata creata la tanto vituperata commissione Trilaterale, alla quale ha anche partecipato Mario Vargas Llosa, di cui vorrei tanto leggere un ritratto da vicino di Rockefeller.

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Come tutti i segreti mistici e astratti, incarnati in un corpo che ha smesso di battere la bandiera del sangue meno di ventiquattrore fa, la vita di DR (com’era chiamato nei documenti più intimi delle diplomazie occidentali e non), vista all’alba del nuovo millennio, ha almeno tre verità. La prima è che l’equilibrio della “dottrina Rockefeller” per qualche decennio ha tenuto, anche perché insufflato da una generosa politica di prestiti agli Stati nazionali, orchestrata dalla Chase Manhattan Bank di cui è stato presidente per gli anni cruciali della Guerra Fredda. La seconda è che l’internazionalismo e la globalizzazione, sulla carta, sono modelli assai più razionali di qualsiasi altro, anche se oggi andrebbero corretti in una chiave più ridistributiva e inclusiva.

Ma è la terza verità, come in ogni buon thriller metafisico, a mettere alle corde la mitopoiesi di Rockefeller Signore Eterno del Denaro e delle Tenebre: in pochi lustri il pianeta ha accelerato, ha cambiato velocità, e un gruppo di ex-ragazzini che nel Novecento non sarebbero nemmeno giunti al cospetto della tenuta di Pocantico o al segretario del segretario di David sono ora responsabili di capitali e dati che surclassano qualsiasi schema di governo del mondo in senso classico. Nel frattempo, il patto che regolava la vita del giardino occidentale si è incrinato, e sarà una durissima lotta tenerlo vivo senza ricorrere a vecchi trucchi e vecchie idee rivoluzionarie che hanno già fallito. Insomma, David è nato come uovo da un granchio d’oro ed è morto come dinosauro di un sistema che non funziona più, un sistema che ha tuttavia contribuito a creare.

Su un piano squisitamente letterario, si tratta di una delle poche teste fondanti del capitalismo che ha lasciato una testimonianza scritta di un qualche interesse, La mia vita, pubblicato nel 2002: dentro ci sono le «ferite generazionali» dei suoi figli, una buona parte dei quali ha abbracciato il radicalismo politico degli anni Settanta, ma anche gioielli assoluti come la trascrizione del colloquio con Kruscev a Mosca, nel 1964, fedelmente registrato dalla figlia Neva. Alcuni dei discendenti di David, Laurance, Nelson, Winthrop e John – i cinque fratelli – sono diventati professori universitari, medici, anche intensamente impegnati contro le stesse strutture ideologiche per cui il patriarca ha speso anni soldi e reputazione. Grazie a uno di loro, tanti anni fa, a Manhattan, ho avuto il povero privilegio di trovarmi in una stanza molto affollata, e dall’altra parte rispetto a me c’era lui, Paperon de Paperoni, ma anche Rockerduck, e il Principe del Gruppo Bilderberg, oltre che uno dei più rilevanti filantropi, per vocazione personale ed ereditaria. Mi sono avvicinato, desiderando di impressionarlo con qualcosa di estremamente puntuale: consapevole che i complotti ci sono ma sono sempre meno potenti di come si vorrebbe far credere; certo del fatto che il Corpo del Capitale possedeva un’aura insieme terribile e allucinatoria; sicuro che ogni forma di potere tenta di perpetrare se stessa e i privilegi che la caratterizzano, sapevo tuttavia che la persona  anziana seduta a qualche metro da me era anche un essere umano, con il tipico odore dei novantenni, la coltre della pelle più translucida delle macchie che la costellavano, e una corte di persone intorno troppo vicina e consanguinea.

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I soldi devono restare in famiglia, recitava il titolo di un libro Bompiani di qualche anno fa. La specie umana procede così, di figli in nipoti, di nipote in cugino, come nelle saghe di Walt Disney: non c’entravo nulla, non ero parte del circolo genetico, non avevo alcuna vera ragione per stare lì. Così mi allontanai senza far nulla, senza provare a far nulla. Gli estremamente ricchi sono eccezioni alla specie: per loro essere e avere sono due variazioni della stessa voce verbale. Per incidere nella vita di un Rockefeller c’erano solo due modi: sposarlo, o ucciderlo. Così sono uscito, mi sono infilato in un taxi, e mi sono fermato da Tower Records a comprare un disco di Ornette Coleman, The Skies of America. È meglio credere agli unicorni che vederne uno.

 

Immagini Courtesy Rockefeller Archive Center.