Attualità

Posso andare su Facebook?

Qual è l'età giusta per usare Internet in autonomia? Per le social media company i ragazzini sono da tempo l'ago della bilancia dei profitti, intanto se ne discute al Parlamento europeo.

di Davide Piacenza

Ieri a Strasburgo il Parlamento europeo ha approvato le regole del nuovo General Data Protection Regulation, il nome ufficiale dato dagli organi comunitari a una proposta di legge che definisce regole e modalità della protezione dei dati personali digitali in Europa. L’iniziativa legislativa, in discussione dalla scorsa estate, in questi giorni ha fatto parlare di sé anche e soprattutto a causa di un emendamento dell’ultimo minuto inserito nel testo poi convalidato dai rappresentanti di Parlamento, Commissione e Stati membri: «Il trattamento dei dati personali di un adolescente di età inferiore ai 16 anni sarà considerato legale solo nel limite in cui consenso è dato o autorizzato dal possessore della responsabilità genitoriale nei confronti dell’adolescente».

Ieri la BBC titolava, con una certa enfasi, «l’Europa sta cercando di limitare l’uso di Facebook agli adolescenti?». Fino ad ora, come spiega sul suo blog John Carr, membro del UK Council on Child Internet Safety e senior adviser su questi temi all’Onu, la scelta del limite minimo d’età per il trattamento dei dati è ricaduto sul singolo Stato, ma le grandi social media company americane – Facebook, Twitter, Snapchat – si sono affidate a ciò che gli addetti ai lavori del settore conoscono come «Rule of 13». Sostanzialmente, questa norma prescrive che il limite anagrafico minimo perché i dati sensibili di una persona possano essere raccolti online è 13 anni. Parte di una legge americana in vigore dal 2000, la Rule of 13 concede una certa rilassatezza operativa alle corporation della Silicon Valley; è vero, la limitazione esiste, ma la legge statunitense rende semplice aggirarla, dato che non prevede la verifica forzata dell’età. Uno studio citato da Carr ha trovato che in sette Paesi dell’Ue una media del 39% dei bambini di età compresa tra 9 e 12 anni ha un proprio account Facebook, con una punta del 66% in Romania.

Questo non significa che a Menlo Park vogliano scavalcare l’impianto legislativo per lucrare sui propri utenti. Particolare importante, però, è che gli interi sistemi che permettono ai social network di prosperare economicamente sono basati sulla Rule of 13, ovvero sull’accesso semplice e disintermediato dei teenager alle loro piattaforme. Un membro di un importante gruppo digital con base a San Francisco ha riferito al Financial Times che «questo divieto obbligherà milioni di ragazzini e adolescenti a ottenere il permesso dei loro genitori per usare servizi su Internet. Il che include account email, social media e il download di applicazioni». Non per altro, come riporta lo stesso quotidiano del Regno Unito, «le aziende tech americane si sono adoperate per far rigettare la proposta con un frenetico sforzo di lobbying». Ma il tentativo è caduto nel vuoto, a quanto pare, così come a poco è servita una petizione online diretta ai politici europei.

Daily Life At A Secondary School

Al di là delle vicende delle normative europee, il tema dell’importanza economica (di più: strategica) dei ragazzini nei business plan dei grandi nomi dell’Internet di questi anni è quanto mai d’attualità. Ricordate quando nell’aprile del 2012 Mark Zuckerberg si è assicurato i 30 milioni di utenti di Instagram, comprando il social network delle foto per la cifra eloquente di un miliardo di dollari? L’obiettivo, evidente se non dichiarato, era riconquistare il fascino dei primordi, soprattutto agli occhi della sterminata fascia più giovane di una potenziale utenza. Come aveva scritto il New York Times, «dal momento che in molti hanno iniziato colpendo un gigante tech più anziano, Facebook sa di poter essere ucciso, o almeno gravemente ferito, da ciò che sta in agguato negli uffici in affitto della Silicon Valley – una compagnia tech anche più giovane e cool». E nello stesso quadro va inserito l’assalto del social di Menlo Park a Snapchat, app di messaggistica istantanea il cui fondatore 25enne, Evan Spiegel, nel 2013 ha rifiutato tre miliardi di dollari gentilmente offerti da Zuckerberg per acquisire la sua società. E i 19 miliardi spesi per inglobare WhatsApp? Non a caso quasi in contemporanea col gran rifiuto di Snapchat il direttore finanziario di Facebook, David Ebersam, aveva diramato una nota per commentare i ricavi del terzo trimestre dell’anno precedente esprimendo una preoccupazione imbarazzata: c’era stato «un calo tra i teenager più giovani», per usare le parole del documento.

Perché i teenager sono così vitali per la sopravvivenza di un “Internet giant”? Un articolo del magazine newyorkese Inc. delinea le motivazioni dietro la corsa al teenager messa in atto dalle principali web company, un conflitto sommerso di cui il dibattito sulla regolamentazione europea è solo l’ultima apparizione in superficie. Essendo la prima vera generazione nata in un’ecosistema digitale social, gli adolescenti di oggi scelgono e ridefiniscono direttamente i propri trend. Se venti, o in misura diversa anche dieci anni fa lo stile di vita di un teenager veniva influenzato da programmi tv, riviste o etichette discografiche, oggi ciò che è cool fra i quattordicenni nasce, cresce e spesso muore online, nelle notifiche dell’ultima app uscita in commercio. E secondo Mary Leigh Bliss, impiegata della società specializzata in ricerche di mercato YPulse, «oggi gli adolescent trasmettono l’uso di certa tecnologia ai loro genitori, non l’opposto».

A chi vendere un prodotto se non a qualcuno che è già capace di usarlo, fin dalla nascita?

Sapendo utilizzare le piattaforme mobile e digital dalla nascita, i più giovani sono naturali obiettivi dell’attenzione delle divisioni marketing della Silicon Valley. A chi vendere un prodotto se non a qualcuno che è già capace di usarlo? Il nodo gordiano del discorso, però, è che convincere queste persone è controintuitivamente molto difficile, nota Inc.. Come mai? Innanzitutto perché nella loro forma mentis non esiste il concetto di fedeltà a un marchio: si usa il servizio più forte del momento, quello che offre maggiore intimità, quello che risponde alle esigenze dei coetanei o del proprio gruppo. Citando ancora Bliss: «[I teen] Sono cresciuti in un’epoca in cui appena qualche mese dopo aver comprato l’ultimo, più grande ritrovato, dietro l’angolo spunta la successiva cosa del momento. Tendono a essere leali al primo della classe, più che al brand di per sé».

Senza contare che i liceali di oggi spendono meno (ma sarebbe più corretto dire: in modo più oculato) dei loro omologhi di venti o trent’anni fa: sono cresciuti in anni di recessione economica e, soprattutto – spiega il magazine – sono intrinsecamente abituati agli strumenti che gli permettono di verificare se una determinata offerta fa per loro, un range di mezzi che va dalle ricerche su Google alle recensioni su forum e store. Curiosamente, ciò che riesce a conquistarli il più delle volte non era stato originariamente pensato per loro, né era stato reclamizzato in tal senso. Inc. cita i due casi fortunati di Pheed, un’app simile a Twitter per lo streaming e la condivisione, e We Heart It, un Facebook dove il trolling è bandito. Conoscerete l’abusato aforisma dello storico volto yippie Abbie Hoffman, «eravamo giovani, eravamo avventati, arroganti, stupidi, testardi. E avevamo ragione». La conclusione continua a valere anche, per non dire soprattutto, nel campo del marketing online.

Immagini tratte dal portfolio di Peter Macdiarmid Daily Life At A Secondary School (Getty Images).