Attualità

Arrivano i grandi

Diario dall’Australian Open, parte III – Ultimi vagiti dei "pesci piccoli", e le prime eliminazioni eccellenti. Si entra nel vivo del torneo.

di Fabio Severo

Il torneo giunge al weekend di mezzo, quando le folle accorrono e la morìa di giocatori nei tabelloni di singolare viene compensata dall’inizio degli eventi minori. Arrivano i junior, ad esempio: in giro per i campi ne trovi diversi che cominciano a imprecare sin dalla prima volée sbagliata durante il riscaldamento, oppure altri che imitano i gesti consumati dei pro, come quel modo distratto di puntare il dito verso l’alto per chiedere all’avversario qualche palla per provare gli smash, oppure i cenni bruschi rivolti ai raccattapalle per farsi portare l’asciugamano.

Mazen Osama, 18 anni, egiziano. Come si diventa in Egitto un junior che riesce a andare a giocare agli Australian Open? Quale livello di benessere familiare lì equivale all’upper class europea o americana mediamente necessaria a coltivare il talento tennistico? Le informazioni su di lui sono molto vaghe, il libretto ufficiale non riporta neanche il luogo di nascita, l’altezza o i nomi dei genitori, come invece fa per la maggior parte dei giocatori.

Osama (mancino) ha un dritto insensato: prepara il colpo portando la racchetta dietro al corpo con entrambe le mani, ma non è una manovra propriamente bimane, la destra è solo poggiata sul manico, e lascia la presa all’impatto con la palla, mentre il colpo si svolge con la rotazione stretta della testa della racchetta tipica del colpo a due mani. In sostanza così rinuncia ai vantaggi della vera presa bimane (maggiore spinta, miglior gestione del rimbalzo alto), per tenersi i difetti (contrazione del movimento e limitazione nella creazione di angoli). Tre game e Osama ha fatto punti solo con prime di servizio o errori gratuiti dell’avversario: perderà 6-1, 6-2. Chi ha permesso che la sua memoria muscolare venisse marchiata con questo colpo deviante? Osama tenta un recupero su una palla fuori non chiamata dal giudice di sedia, per un attimo guarda la riga nel punto in cui è rimbalzata. Poi passa oltre, anche se non sembra farlo per pazienza o saggezza, dà solo l’impressione di avere fin troppe cose per la testa per aggiungerci una disputa arbitrale.

I tabelloni junior offrono combinazioni infinite di nazionalità, nomi e tratti somatici, in un affascinante melting pot delle migrazioni familiari. Ad esempio Hugo Di Feo e Carol Zhao sono canadesi, Thai-Son Kwiatkowski americano ; i nomi degli australiani sono comunque in testa per varietà di provenienze geografiche: Akira Santillan, Thanasi Kokkinakis, Jay Andrijic, Harry Bourchier, Omar Jasika e così via.

Gioca anche Gianluigi Quinzi, promessa del tennis italiano. 17 anni a febbraio, numero 2 del ranking junior mondiale, Quinzi si allena a Bradenton in Florida, da Nick Bollettieri, dove vanno quelli seri. Qui sta vincendo facile, accanto a me c’è un gruppetto che sembra essere il suo angolo, lo incitano con una serie di “bravo Gian, bravo”: tutto un corredo di occhialoni da sole, basette, pizzetti, abbigliamento sportivo con bandierine tricolori e scritte Italia, con quel fare sornione e un po’ snob che hanno gli addetti ai lavori del tennis italiano. Uno di loro, un ragazzo abbronzato, capelli biondi molto corti e occhi azzurri, aria svagata da Saint Tropez, a un cambio campo di Quinzi sentenzia: «Vado a cambiare l’acqua ai fiori».

Si allenano Fabio Fognini e Simone Bolelli, rispettivamente n. 47 e 80 del mondo, usciti al primo turno nel singolare ma ancora in gara insieme in doppio: mattina soleggiata ma non troppo calda, al loro campo c’è un’aria da partitella estiva, solo con scambi a velocità ben superiore. Fognini sorride mentre palleggia col compagno, sembra felice di chi è, dov’è e cosa fa. Qualche vaffanculo bonario dopo un errore, mentre Bolelli fa l’amico introverso, lui che forse da qualche parte non riesce a dimenticare che del suo talento potrebbe, o avrebbe potuto fare di più. Me lo ricordo in sala stampa a inizio torneo, qualche ora dopo aver perso secco in tre set, conversare amabilmente con un giornalista italiano della nuova linea di abiti sportivi che sta usando, un marchio piccolo, «fatto da ragazzi giovani, bravi».

Prendo posto per la prima volta in un court pieno, Richard Gasquet contro Ivan Dodig. Seduto dietro la linea di fondocampo mi sento come il proprietario del torneo, in tribuna d’onore con le ali di folla lì solo per abbellire l’evento a cui sto assistendo. Due accanto a me parlano per un quarto d’ora di fila mangiando patatine, poi lui fa «Oh, Gasquet is in trouble», quando il francese si trova sotto di un set e un break contro il croato Dodig e le sta prendendo dall’inizio. Guardano la partita in totale oblìo del punteggio, lo sguardo rilassato, come si guarda un paesaggio.

Lascio il campo 2 e entro nell’Hisense Arena, avvolto da un silenzio commovente, la tribuna all’ombra con il campo sagomato da un sole accecante, un’eleganza generale violata solo a tratti da folate di fish & chips provenienti dai sotterranei. Giocano Juan Martin Del Potro (n. 7) e Jeremy Chardy (n. 36): l’incontro è di caratura decisamente nobile, colpi di qualità più alta alle partite a cui ho dato un’occhiata finora, una sensazione di classe superiore data sia dal gioco espresso che dalla cornice.

Del Potro, argentino alto due metri, viene sempre riassunto in tre concetti: ha vinto l’Us Open nel 2009, è stato fermo tutto il 2010 per un’operazione al polso destro, va capito se è lo stesso di prima o se non è più lo stesso di prima. Qui sbatte contro uno Chardy in trance tecnico-agonistica, e perde in cinque set. Finora è l’unica vittima eccellente assieme a Petra Kvitova, vincitrice di Wimbledon nel 2011; tutti gli altri che dovevano vincere hanno vinto, chi doveva perdere ha perso, con le uniche varianti offerte da quali comprimari sono andati più avanti di altri.

Il tabellone si assottiglia, la gente guarda gli schermi lungo i viali per decidere dove andare, e con i campi secondari invasi da doppi misti e partite tra sedicenni non sa che pesci prendere. Come scegliere quale incontro andare a vedere, in base al suono dei cognomi dei giocatori? Mano a mano che il torneo avanza e si avvicinano le fasi finali, i ground passano dall’essere troppo piccoli a troppo grandi, ormai sede di partite prive di appeal per il fan della domenica, mentre i campi principali da fin troppo capienti, come nel primo o secondo giorno, diventano ormai inaccessibili ai più. Gli eventi in programma diventano faccende di classe, il prezzo dei biglietti corre inarrestabile, quasi il doppio ogni giorno che passa: il tennis comincia a mostrare il suo crudele volto aristocratico.

I miei servigi televisivi non sono più richiesti, mi resta un badge e un corollario di privilegi: posto assicurato nei settori stampa (sempre mezzi vuoti) di quasi tutti i campi, mezzi pubblici gratis, 17$ da spendere ogni giorno alla mensa dei giornalisti (dove la birra costa due-tre dollari in meno che ai chioschi assaltati dal pubblico pagante), volumi patinati pieni di statistiche e fotografie in omaggio, lo staff che distribuisce cioccolatini nelle ore tarde, transfer in auto di notte quando finiscono i treni, accesso illimitato a bottigliette d’acqua, caffé, tè e soft drinks. Quando qualche superstar si allena e le folle accorrono e si calpestano per sbirciare due colpi sotto all’osceno sole australiano, io me ne sto a bordo campo dall’altro lato, all’ombra, a cercare di capire da come struscia i piedi se il campione di turno sia infastidito o meno da qualcosa.

Ma una scura nube aleggia su questa situazione a prima vista patrizia: l’accesso alla Rod Laver Arena. Lì a un certo punto si decideranno le sorti di tutta la faccenda, e io dovrò trovare il modo di esserci. I segnali per ora non sono incoraggianti, il mio accredito è quello che dà meno diritti di ingresso al settore stampa dello stadio: sul badge ho il simboletto di una televisione, che sta a dire che per noi videogiornalisti non conta poi tanto osservare dal vivo le partite, come invece serve a quelli della carta stampata, che hanno una seggiolina disegnata sull’accredito. Fino a adesso tutti i tentativi di accaparrarmi biglietti in esubero sono falliti, le poche volte che ce n’erano sono spariti in un attimo.

La sala stampa è sotto il campo della Rod Laver, e durante match combattuti a tratti ci arriva il debole, lontanissimo boato della folla, come fosse il rumore attutito di centinaia di litri d’acqua straripati qualche piano sopra. Dopo qualche giorno un collega mi svela con quale tragitto quel suono arrivi a noi, portandomi in un corridoio subito fuori dalla media room. Venti metri più avanti, passate un paio di porte, un usciere su sgabello ogni sera presidia un varco dal quale scendono alcuni scalini, dopo i quali c’è un altro usciere a presidiare un altro varco che dà proprio sul campo di gioco. Inquadra perfettamente una delle due linee di fondo, su cui in quel momento l’americano Ryan Harrison sta cercando di sopravvivere qualche minuto in più contro la troppa superiorità di Novak Djokovic. È una vista magnifica, un gigantesco buco della serratura da cui si possono spiare tutte le leggi della fisica all’opera in un giocatore, il rumore dei passi, gli scarti e gli allunghi, il suono del respiro mentre colpisce. Rimango ipnotizzato da questa visione solipsistica del gioco, dove non conta più la traiettoria della palla ma solo i movimenti necessari a crearla.

Adesso sono più tranquillo, anche se l’accesso al castello mi verrà negato so che avrò comunque un angolo per nascondermi, e rubare il frutto proibito.

 

Le puntate precedenti:
1- La strada per l’Open
2- Le velleità