Attualità

Vita e letteratura

Libri che parlano di libri, che parlano di esistenza. Può la letteratura salvare la vita? Ne parlano due autori, dall'Italia all'America.

di Cristiano de Majo

Da circa un mese, è uscito negli Stati Uniti per Knopf How literature saved my life, il nuovo libro di David Shields, autore conosciuto soprattutto per aver scritto il molto discusso, specie nella comunità letteraria americana e anglosassone, Fame di realtà, pubblicato nel 2011 in Italia da Fazi.

Il molto discusso Fame di realtà consiste in un ramificato collage di citazioni, proprie e altrui, tutte indirizzate a sostenere l’incombente inefficacia rispetto ai tempi della finzione pura (i racconti, i romanzi), valutando per contro come vera incarnazione dello spirito della nostra epoca la literary non fiction e, in particolare, quelle forme dove elementi autobiografici, o di presa diretta della realtà tipo il reportage, si uniscono al saggio utilizzando tecniche della narrativa (memoir, personal o lyric essay, etc). Oltre a essere un illuminante breviario di sociologia e critica della letteratura contemporanea, Fame di realtà è anche una dichiarazione di poetica, l’atto di fondazione della nuova estetica di Shields, in cui la letteratura della realtà si esprime attraverso il collage e il campionamento, con una tecnica dichiaratamente mutuata dal rap e dall’arte contemporanea.

Come Carrère, Shields è di fatto un romanziere convertito alla realtà. Come Carrère, Shields ha scritto un bel po’ di romanzi prima di capire che non avrebbe più scritto un romanzo. E per una ragione molto semplice: la crescente difficoltà di sospendere la propria incredulità leggendo romanzi. E quindi, dal punto di vista della scrittura, la perdita della fede necessaria per dare vita a una storia di finzione.

D’altra parte, a differenza del francese, che ci tiene spesso a dichiarare nei suoi libri l’aderenza ai fatti, Shields si guarda dal definire la non fiction come un oggetto obbligatoriamente privo di elementi di fiction. In proposito, proprio in questo ultimo libro, prende a esempio l’ambiguità di statuto (fiction o non fiction?) di un libro dell’amico Fred Moody sulla sua esperienza di seminarista presso un’istituzione religiosa finita sotto accusa per trascorsi abusi sessuali. E racconta che quando la moglie di questo Fred Moody chiese al marito che genere di libro avesse scritto, se un memoir o un romanzo, lui le rispose che ci stava ancora pensando. Nello stesso paragrafo, Shields cita la lettera che mandò a Lorrie More, editor della New York Review of Books, in risposta a una recensione di Fame di realtà: «Fame di realtà», si legge, «cerca di sganciarsi dalla potenziale banalità della non fiction (il significato alla lettera di ‘fatti’, ‘verità’, ‘realtà’) per mettere in piedi un palcoscenico dove investigare le più importanti questioni epistemologiche ed esistenziali: Che cos’è il ‘vero’?’ Che cos’è la conoscenza? Che cos’è un ‘fatto’? Che cos’è la memoria? Che cos’è l’io? Che cos’è l’altro?». Una lettera che inquadra con una consapevolezza ammirevole il suo lavoro e che al tempo stesso può essere considerata un utilissimo contributo classificatorio per tutta la letteratura di non finzione.

«Non credo più nel Grande Uomo Solitario in una Stanza che scrive il Capolavoro».

Come si vede da questo passo, l’auto-analisi critico-letteraria continua a essere presente, tanto da farne quasi un seguito di Fame di Realtà, in How literature saved my life, libro bello e indefinibile, nuovo nella costruzione e convincente nell’ideologia di fondo. Ma non è il solo e unico aspetto. Composto da sette capitoli tematici, Hlsml è un viaggio che ripercorre la vita e la personalità del suo autore attraverso i prodotti culturali che l’hanno attraversata. Quindi i libri soprattutto, ma anche i film, la musica, le opere d’arte. Ogni capitolo mette a fuoco una grande questione esistenziale (l’amore, la morte, il rapporto tra arte e vita, il suicidio), ed è a sua volta composto da paragrafi che danno forma a un collage, appunto, di aneddoti, biografie, critica letteraria, filosofia. Tutto è indirizzato verso la grande questione contenuta nel titolo, se cioè la letteratura possa salvare la vita. Questione che Shields letteralmente accerchia, affrontandola da tutti i lati e fornendo soluzioni diverse e contraddittorie. Perché se da una parte l’autore trova nei libri e, più in generale, nell’arte una risposta alle sue sofferenze, dall’altra il suo atteggiamento verso la scrittura è spesso scettico e anti-romantico, e viene continuamente dimostrato da frasi come: Non credo più nel Grande Uomo Solitario in una Stanza che scrive il Capolavoro, oppure: Amo ancora l’arte, o solo la vita abbellita artisticamente?

Così, alla fine è difficile attribuire ad How literature saved my life un significato ultimo, una risposta definitiva in tema di utilità marginale della letteratura. E probabilmente la sua bellezza sta proprio in questa onesta indecisione, in questo scontro tra l’amore viscerale per la scrittura e la tentazione di ridimensionare la sua idealizzazione romantica.

Mascheroni trasforma ogni copertina in una raffigurazione sacra, si concentra sull’oggetto (l’edizione, le macchie di caffè, le spiegazzature) e lo interpreta come un simulacro sentimentale.

Curiosa coincidenza che proprio in queste settimane sia uscito in Italia un altro libro che parla di libri e in cui la memoria dei libri si mescola all’autobiografia. S’intitola Non avere paura dei libri ed è stato scritto da Christian Mascheroni e pubblicato da Hacca Edizioni. È un libro che ha alcuni difetti, riconducibili soprattutto al fatto di consistere, troppo visibilmente, nel travaso dei contenuti di un blog, ma è un libro pieno di vita, a tratti commovente, e che non ti lascia distrarre. Parla di un figlio, di un padre e, soprattutto, di una madre e di come i libri punteggino la vita, di come la memoria possa trasformarli in altrettante pietre miliari, in segnalibri per orientarsi nel passato. Altra curiosa coincidenza è cha sia Shields sia Mascheroni, anche se il secondo in un modo decisamente più drammatico, condividono l’esperienza di essere stati figli di un genitore depresso. Ma le analogie finiscono qui. Perché il ruolo che i libri interpretano nel memoir di Mascheroni si trova all’estremo opposto della dimensione demitizzata con cui figurano in How literature saved my life. E provando a spiegare la differenza con un’immagine: Shields prende i volumi, li disseziona, strappa un foglio e ritaglia una frase; Mascheroni trasforma ogni copertina in una raffigurazione sacra, si concentra sull’oggetto (l’edizione, le macchie di caffè, le spiegazzature) e lo interpreta come un simulacro sentimentale.

Da queste due prospettive opposte, si può però ricavare un tentativo di risposta alla Grande Domanda: se dico che libri non salvano la vita, non significa che ogni esperienza estetica non sia in senso lato una forma di ricerca di salvezza. Il capitolo 4 del libro di Shields, che forse è anche il più criptico di tutto il libro – Our ground time here will be brief – ha il seguente sottotitolo: Parziale risposta alla domanda formulata nel capitolo precedente: siamo l’unico animale che sa di dover morire.