Attualità
Venezia, il punto
In concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica ci sono 5 documentari e diverse chicche da non perdersi. E Birdman e The Humbling ci dicono che questa è la Biennale del cinema "meta".
Venezia 71 comincia deserta. “Sono tutti a Toronto”, dicono. “Ormai si sono fatti fregare il palcoscenico”. Strano, perché in realtà—mentre le sale del Palazzo del Cinema si riempiono durante il fine settimana—quest’anno il programma della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica è piuttosto gonfio. Forse non più vetrina per fare tantissimi quattrini ma più si spulcia, più spuntano piccole chicche da non mancare, almeno sulla carta.
L’apertura con Birdman di Iñàrritu lancia subito il “tema” del festival, di cui diremo un po’ più avanti. Subito a seguire il primo giorno ci piazzano Oppenheimer, terza opera dopo lo sconvolgente The Act of Killing. A rinforzare il crescente amore del festival per il documentario (ricordiamo: premio alla carriera a Frederik Wiseman e 5 documentari nelle sezioni più importanti), The Look of Silence è simile al precedente per ambientazione e uso del re-enactment come strategia rappresentativa ma si presenta anche come film molto diverso, che si sofferma più sull’intimità delle vittime che sull’orrore dei loro carnefici. Per il momento, ci dicono, il favorito. Nominiamo per dover di cronaca anche se non ancora visti il nuovo di Mohsen Makhmalbaf (The President), Tales di Bani-Etemad e il terzo lavoro di Francesco Munzi, accolto piuttosto bene. Anime Nere è un thriller ‘ndranghetano ambientato in Aspromonte che finisce col botto ma procede al rallentatore e consegna immagini da meridione cupo e sofferto, con sguardi eloquentissimi da lessico familiare (però, muto). Difficile non dirlo: a fare una mafia d’azione e verosimiglianza ci ha pensato, per ora, solo Gomorra di Sollima. Guardando avanti nel concorso un paio di altre due visioni italiane destano curiosità. Mario Martone torna al costume con un biopic su Leopardi (chi, se non Elio Germano?). Anche Saverio Costanzo partecipa in competizione e chiude la cricca italiana lanciando il testimone ad Abel Ferrara che, reduce dalla Cannes un po’ fallimentare di Welcome to New York (Depardieu: Strauss Kahn), ci riprova con un Pasolini interpretato da William Dafoe, come PPP con una faccia solcata da rughe di vita violenta.
The Look of Silence si presenta anche come film molto diverso, che si sofferma più sull’intimità delle vittime che sull’orrore dei loro carnefici. Per il momento, ci dicono, il favorito.
Altri attesissimi a litigarsi i leoni saranno un nuovo Fatih Akin (con Tahar Ramin del Profeta, che ci mancava da tempo) e, a parità di aspettative positive, lo svedese Roy Andersson. I francesi presenti forse per una specie di taciuta (e non condivisa) par condicio sono Beauvois, Delaporte, Oelhoffen e Jacquot. Quest’ultimo, con 3 Coeurs, prende un film sentimentale e lo trasforma in una specie di “thriller di provincia”: protagonista è un terzetto della tenerezza composto da Charlotte Gainsbourg, Chiara Mastroianni e mamma Deneuve. Sabato pomeriggio David Gordon Greene ci ha lasciati fuori sala ma ha portato a Venezia Al Pacino, uomo di riferimento per due film un po’ “culto della personalità”—Mangelhorn di Green appunto, e The Humbling di Levinson—quasi voglia scansare James Franco dalla sua onnipresenza lidense (non temete, c’è anche lui, in veste di regista con un trattamento dal romanzo di Faulkner, The sound and the fury). Altro regista americano di lavoro parecchio riuscito è stato, possiamo già dirlo, Ramin Baharani (autore, tra l’altro, del magnifico corto Plastic bag, narrato da Werner Herzog). Su 99 Homes ci sarebbe molto da dire, ma per proporlo come invitante basti dire che è (forse il primo) film “d’intreccio” sulla crisi degli immobili e mutui statunitensi. Michael Shannon è una specie di squalo delle acquisizione di case pignorate nonché truffatore ingegnoso ma consapevole, tanto che a un certo punto quasi ci sembra magnanimo. Ci sbagliamo, anche perché fuma le sigarette elettroniche. Mentre Andrew Garfield (sorpresa, è bravo!) si impegna per riprendersi la casa toltagli dalle “banche” proprio lavorando per chi lo aveva sfrattato (Shannon, appunto), vengono piazzati un paio di monologhi che spiegano in modo esemplare come il mercato immobiliare e la Finanza siano tra i fenomeni più astratti quanto umani del contemporaneo. Tra le frasi emblematiche: «America doesn’t bail out losers. America was built by bailing out winners». I difetti ci sono, ma io ho pianto (tanto) senza sentire il peso di moralismi posticci. Da vedere e pensarci su, insomma.
Avremo dimenticato senz’altro qualcuno, ma lo spazio è poco e le altre sezioni sono abbastanza ricche (e varie) di nomi. Il risultato è un programma votato ad una “medietà” che non è per forza sinonimo di noia o adagio sugli allori. Anzi.
Su 99 Homes ci sarebbe molto da dire, ma per proporlo come invitante basti dire che è (forse il primo) film “d’intreccio” sulla crisi degli immobili e mutui statunitensi.
Intanto, un po’ alla rinfusa: negli Orizzonti troviamo un ritorno fischiato di Renato de Maria con La vita oscena (da Aldo Nove), poi appaiono anche un Cymbeline shakesperiano rifatto, ça va sans dire, da Michel Almereyda e, tra gli altri, anche Maresco con documentario sull’idolatria sicula per Berlusconi. Visti e apprezzati (molto) sono stati i fratelli Safdie, con Heaven knows what, su un gruppo di tossici giovanissimi a New York. Invece di proporre una variazione su Christiane F., mantengono il claustrofobico canonico dei film sugli emarginati ma lo dichiarano con un’invadente colonna sonora e soprattutto lo rinnovano con una struttura narrativa che rispecchia la ciclicità della vita di strada. Gli interpreti poco più che adolescenti sono quasi troppo bravi e sorge il dubbio che nel cast siano stati impiegati anche dei veri bum di città. Ottimo lavoro. Prodotto dalla casa di produzione Ulrich Seidl è stato un horror austriaco un po’ così—Ich seh ich seh—mentre Seidl stesso, in Fuori Concorso, regala il suo consueto capolavoro. Im Keller racconta il rapporto, diciamo bizzarro—per usare un eufemismo—del popolo austriaco con le proprie cantine. Eludendo quasi del tutto il tema “incesto e rapimento nel sottoscala”, propone tutta una serie di ritratti umani dove arredamento e attività condotte sottoterra sono davvero specchio dell’anima (il primo personaggio, amabile vecchietto appassionato di armi, si chiama Fritz Lang). Tra gli altri fuori concorso ricordiamo una Sabina Guzzanti, il sempre presente Amos Gitai, la serie Hbo di Lisa Cholodenko tratta dal Pulitzer Olive Kitteridge con Frances McDormand e infine un Joe Dante gettato nella mischia con disinvoltura. Settimana della Critica e Giornate degli Autori chiudono la carrellata con Larry Clark, de la Iglesia con un documentario su Messi e un altro (ennesimo) documentario sui Magazzini Allo Statuto di Roma, Filippo Timi (sic) presenta.
A tirare le fila di questi primi giorni di festival c’è un tema ben preciso che ci permette di collegare quattro film che si sono divertiti a trastullarsi, diciamo così, con il meta. L’hanno fatto con risultati molto vari, dimostrando la vivacità di questo stratagemma narrativo—la rappresentazione del conflitto tra realtà e finzione; il mise en abyme—anche se molti spettatori si sentiranno forse un po’ tediati. In effetti, il discorso del film-dentro-al-film come la metafora del teatro che fagocita la realtà non sono affatto invenzioni recenti. Eppure al festival hanno offerto spunti interessanti.
Birdman è il primo di questa serie ed è davvero quello che si può definire un ottimo film. All’inizio la storia sembra reggersi in gran parte sulla fluidità e lunghezza dei piani sequenza che inseguono Michael Keaton per i meandri di un teatro di Broadway. In preparazione c’è un adattamento difficoltoso di Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore di Raymond Carver. Lungi dall’essere un attore intellettuale, lo scopo di Riggan Thomson è diventarlo; o meglio, togliersi di dosso la patina hollywodiana di ex Birdman, supereroe alato, e acquistare rinnovata notorietà nell’astro delle celebrità raffinate (che sembrano durare più a lungo di un Iron Man alla Robert Downey Jr, per dire). Però c’è una grossa differenza tra l’essere una celebrità e un attore, lo avverte a metà film la perfida critica teatrale del Times. Il personaggio di Keaton è un uomo complicato, suscita empatia ma è mostruoso, narcisista, autoreferenziale in ogni rapporto con gli altri, nevrotico e soprattutto leggermente pazzo, perseguitato com’è dalla voce del suo alter ego piumato (Birdman, per l’appunto). Costruire lo spettacolo diventa il suo modo, seppur inconsapevole, di mettere in crisi il mondo che si è costruito intorno. Una figlia provocatrice ma voce della verità (Emma Stone), una ex-moglie comprensiva ma anche lei portavoce di verità (Amy Ryan), un attore megalomane ma talentuosissimo (Edward Norton) e la sua compagna di vita e palcoscenico (Naomi Watts), un produttore e amico paziente ma spesso sull’orlo di una crisi di nervi (Zach Galifianakis) completano il quadro. Il concetto di “mettere in crisi” viene attivato su tutti i livelli, quelli dell’intreccio, con divertenti sovrapposizioni tra veritiero e immaginato, dati concreti e sceneggiato teatrale; quelli del mezzo cinematografico, con citazionismi fittizi e riferimenti mondani. Come il protagonista, lo spettatore viene messo alla prova da una specie di “auto analisi” che sarebbe portata all’estremo, se Birdman non facesse anche e soprattutto molto ridere. Il ruolo della “Critica”, in tutto questo, ne esce mortificato ma anche vincente e si fa forte di partecipare allo svolgimento della trama. Questo sì, è un film da vedere.
Similissimo per trattamento visivo dell’attore problematico a Broadway (e siamo a due) è The Humbling di Barry Levinson, il cui montaggio “di scena” per gli spezzoni teatrali ricordano molto Birdman. Ma non solo: anche qui, un paio di svolte diegetiche ma soprattutto giochi di sovrapposizioni “meta” rimandano al lavoro di Iñàrritu. Anche se in sala i commenti negativi sono stati non pochi, Al Pacino è abilissimo nel condurre conversazioni frizzantine con se stesso e gli altri (tutti matti entrati di recente nella sua vita solitaria) e lo fa un po’ con parole sue, un po’ con quelle degli altri (di Shakespeare, insomma). A complicare le cose c’è il fatto che The Humbling è tratto da L’umiliazione di Philip Roth e la psicologia rappresenta ulteriore strumento per creare livelli “meta”. Belle le scene di apertura e chiusura, con il pubblico della finzione che prima volge le spalle a quello in sala e alla fine ci si rispecchia. L’umorismo domina poi la sceneggiatura in modi un po’ ambigui, senza farci capire quanto dobbiamo prenderlo sul serio. Infine, Greta Gerwig nel ruolo della lesbica riconvertita per amore di Al è proprio un’attrice da guardare con piacere ogni volta che c’è.
Se in Richard Kelly venivamo tramortiti per la prima volta, qui il climax di onirismo è direttamente proporzionale a qualcosa che assomiglia al ridicolo.
Reality di Dupieux gioca un po’ sulla stessa lunghezza d’onda, ma molto peggio. Un cameraman con velleità registiche riesce finalmente a farsi produrre il suo progetto di fantascienza (che, per un brutto gioco di parole, si chiama proprio Waves: “televisori che ammazzano la gente”). Mentre è alla ricerca del gemito perfetto per il suo film, il suo produttore sta lavorando ad un documentario “tutto speciale”. Il regista di quest’ultimo è un ex genio poi diventato barbone poi salvato dalla strada che spreca un sacco di pellicola perché decide di riprendere tutto, rigorosamente, con i tempi della vita reale. Questo documentario in progress lo vediamo anche noi e comincia con un cinghiale che mangia un VHS (il cui contenuto è, ovviamente, l’unico motore di suspense). Fin qui si potrebbe ridere e in effetti un paio di momenti che fanno sghignazzare ci sono, ma si ha il sospetto che non siano proprio voluti. Piuttosto, si ha l’impressione di vedere una cosa come Donnie Darko, che suggerisce un gigantesco mistero da svelare e si risolve però a suon di pernacchie. Ma se in Richard Kelly venivamo tramortiti per la prima volta, qui il climax di onirismo è direttamente proporzionale a qualcosa che assomiglia al ridicolo.
Per chiudere, il film ad oggi più positivamente recepito: ecco She’s funny that way. Ritornato dopo lunga assenza, Peter Bogdanovich ci rallegra per un’ora e mezza con una commedia giusta, quasi natalizia per la bontà non fasulla che diffonde. Quando Imogen Potts non azzecca l’accento di Brooklyn, Owen Wilson porta la sua presenza rassicurante a fare da collante in un film che «potrebbe aver fatto anche Woody Allen se non fosse completamente rincitrullito». Questo è un commento in parte appropriato, in parte ingiusto, perché She’s funny that way è costruito senza la pesantezza dell’autorialità, con materiale di trama tutto originale. Ciononostante, She’s funny that way è un lavoro molto pensato. L’escort aspirante attrice “Glo Stick” (Potts) viene ingaggiata da Wilson che, trovandosi bene, le propina una storiella già usata molte altre volte con altre donne, prime fra tutte, sua moglie. Il vizio di Wilson è filantropico e farebbe davvero al caso di molte: se sei bella, brava e simpatica e hai un progetto professionale/esistenziale che non riesci a realizzare per carenze di fondi, Wilson ti dà una mano con un’iniziale spintarella economica (di circa trenta mila dollari). Come se non bastasse, Glo Stick viene ingaggiata per un nuovo spettacolo che Wilson sta preparando a Broadway. Il problema è che la ragazza è davvero brava: pur non volendolo, però, complicherà la vita un po’ a tutti e farà emergere infausti scheletri da tutte le parti. Tra gli altri, abbiamo un Rhys Ifans in forma smagliante, una fondamentale citazione-tributo che ribadisce l’eredità di Lubitsch (è la frase “nuts to the squirrels!, da Cluny Brown) e un paio di cameo di qualità che fanno ridere assai e ci ricordano che il cinema “che si parla addosso”, se è commedia, è spesso una delle cose migliori di cui è capace quest’arte in movimento. Bravo!