Attualità
Il capitale Urbano
Cairo è il nuovo dominus di Rcs. Siamo stati nel paesino piemontese in cui è nato, per sapere chi era prima di diventare la nemesi del capitalismo italiano.
Cosa dice “conquista” più di una torre? In epoca medievale le fortificazioni sviluppate verticalmente erano segni della potenza di un comune, imponenti attestazioni nobiliari, luoghi da difendere con la forza o da ottenere per dare un simbolo imperituro al proprio status. Nel centro storico di Masio, un paesino da 1500 abitanti sulle colline che dividono la provincia di Alessandria da quella di Asti, dal XIII secolo sorge un torrione alto una trentina di metri, dalla cui cima nelle giornate di cielo terso si può guardare tutta la valle del Tanaro.
Le persone di qui aderiscono piacevolmente allo stereotipo dell’introversa cortesia piemontese, parlano quanto basta, badano al lavoro, forse alle cose semplici, di sicuro a quelle pratiche. Le stradine sono una serie ininterrotta di piccole aziende, cascine, luoghi di ritrovo con nomi d’altri tempi (la Casa del popolo, ad esempio), villette, giardini più o meno curati, trattorie, cortili. Mi trovo qui per un’altra torre, meno medievale ma non meno sinonimo di conquista: quella della sede di Rcs Mediagroup, disegnata da Stefano Boeri in via Angelo Rizzoli a Crescenzago. In questi giorni l’offerta pubblica di scambio di Cairo Communication per il gruppo del Corriere della Sera ha battuto la concorrenza di UnipolSai, Mediobanca e Pirelli, storici e blasonati soci dello storico e blasonato colosso editoriale milanese. E Urbano Cairo, il fautore dell’impensabile detronizzazione dell’ancien régime Rcs, è nato ad Abbazia, una frazione di Masio, cinquantanove anni fa.
Non è dato sapere se la torre medievale della sua terra natia abbia ispirato l’Edmond Dantès dell’editoria italiana, ma «Urbano», come l’ho sentito chiamare da alcuni suoi compaesani con cui ho parlato, ha sempre saputo a cosa mirare; il suo è un binario costruito in sordina, ma la tratta ferroviaria era stabilita da tempo. Ad Abbazia di Masio, in realtà, l’uomo-nemesi della crème del capitalismo italiano è soltanto nato, vivendo poi nella casa di famiglia dei Cairo, una palazzina di viale Fulvio Testi a Milano, e tornando da queste parti a passare le estati. Ma molti tratti del suo carattere sono rimasti indelebilmente legati a queste colline: «È ancora una persona semplice», racconta a Studio un suo conoscente, un piccolo imprenditore della zona, «da giovani eravamo amici e poi, dopo anni in cui ci eravamo allontanati, una sera di qualche anno fa ho pensato di portargli una vecchia foto». Racconta di essere stato accolto in casa sua con grande affetto e affabilità, «come se non ci fossimo mai persi di vista: quella volta ha mostrato la fotografia a tutti i suoi ospiti, ero senza parole».
La casa dei Cairo è ancora lì, mattoni rossi, persiane verdi e un cancello lato strada come gli altri. Ci vivono le sorelle di Urbano, e spesso si scorge anche la sua Audi parcheggiata («guida quasi sempre lui», assicura la nostra fonte). Qualche anno fa alcuni tifosi del Torino hanno organizzato una spedizione punitiva per protestare contro la sua gestione della società, ma hanno lasciato scritte ingiuriose su muri a qualche chilometro di distanza dal loro presumibile obiettivo (il presidente non ha commentato).
In un paesino l’unica cosa più veloce del passare del tempo è il rincorrersi delle voci: per alcuni compaesani i Cairo erano i borghesi di città, quelli che badavano eccessivamente al denaro, i protagonisti di schermaglie tra famiglie benestanti della zona. A Masio, mi si dice, si sentivano piccole storie di invidie, ripicche, di terreni e proprietà acquistati forse per sgarbo, di inimicizie di provincia elevate a ragioni d’insofferenza. Ma «Urbano», beh, oggi per i masiesi è un’altra cosa: «Al di là della pubblicità che ha fatto al paese, la gente guarda a lui come a qualcuno che è riuscito ad arrivare dov’è arrivato facendo tutto da solo», spiega un’altra persona, un pensionato che ha avuto modo di conoscere il proprietario di La7 quand’era un bambino. Apprendo anche che molto recentemente, in una festa di paese organizzata alla Casa del popolo, Cairo ha gentilmente rifiutato di essere fatto passare davanti agli altri ospiti, per evitare una celebrazione che sarebbe stata comprensibile, ma anche imperdonabilmente poco in linea col suo basso profilo.
Studi bocconiani, un master americano «con un figlio di De Benedetti» (se è Marco, allora l’istituto è la Wharton Business School di Philadelphia, fidandoci di Wikipedia), tre matrimoni e quattro figli, la carriera di Cairo inizia nei primissimi anni Ottanta con una telefonata a Segrate: «Signora buongiorno, sono uno studente della Bocconi, vorrei parlare col dottor Berlusconi», ha riferito di aver detto Urbano alla segretaria di Silvio; al Cavaliere, sostiene la mia fonte, a 24 anni il ragazzo aveva già scritto diverse lettere «zeppe di idee per migliorare la gestione delle sue aziende». Il team Fininvest comunque non richiama subito, allora è lui a dover rialzare la cornetta: «Ho due idee eccezionali che vorrei spiegare al dottor Berlusconi. Se non mi permette di parlare con lui, rischia davvero di fargli un danno», dice il giovane Cairo. La «signora», finalmente convinta dell’urgenza della questione, gli fissa un appuntamento prima con Marcello Dell’Utri e poi con Berlusconi stesso, e la conseguenza è il primo atto di un noto idillio professionale.
La natura della collaborazione tra Cairo e Berlusconi è una mitologia a sé stante: era un semplice portaborse, come si dice da più parti? Era da subito entrato nel novero dei prediletti del Cavaliere? Si era distinto per la sua caparbietà, il poco più che ventenne Cairo? Certo è che la sua scalata negli uffici Fininvest di via Rovani è fulminante: dotato di un fiuto imprenditoriale raro, Urbano diventa nel giro di pochi anni dirigente di Publitalia ’80 e Mondadori Pubblicità. Lo stakanovista piemontese è goal-oriented, si direbbe, e sembra aver fatto tesoro della morigeratezza economica imparata in casa dal padre Giuseppe, rappresentante di mobili, e la madre Maria Giulia Castelli, insegnante nata a Milano (alla cui memoria è intitolato un trofeo di calcio giovanile che si gioca nelle vicinanze; «lei tifava Inter, però, anche se la versione ufficiale la vuole granata», riferisce sorridendo uno dei nostri informatori).
Per parlare del carisma dello schivo Cairo è sufficiente ricorrere agli aneddoti, come quella volta che, a metà anni Ottanta, impegnato nella raccolta pubblicitaria per conto di Fininvest, appare a una fiera di settore e si attira le simpatie di un magnate snob, noto per non concedere udienza a nessuno, il quale dopo una breve chiacchierata stabilisce profeticamente che «di lui sentiremo parlare». Non si sbagliava: dopo quindici anni con Berlusconi, Cairo litiga con Dell’Utri nella scia di dissidi lasciati da Mani pulite e si allontana poco cordialmente – una volta tanto – dal Cavaliere ormai sceso in campo, per mettersi in proprio. Fonda la Cairo Communication, la concessionaria con cui inizia a lavorare proprio per Rcs, posa le prime pietre dell’impero che oggi annette Rizzoli. Questi per l’Edmond Dantès alessandrino sono gli anni dell’epifania: «Mi sono sentito un po’ come il conte di Montecristo: un uomo che ha fatto il miracolo passando dall’ingiustizia della condanna al grande rilancio, dimostrando capacità di risalire la china», ha detto in proposito.
Da ragazzo, in macchina da e verso Milano, Urbano Cairo «parlava sempre di politica internazionale, attualità, faceva quasi solo discorsi seri», si dice a Studio, (torna in mente Gianni Rivera quando dichiara, ricordando la sua giovinezza, «non sono mai stato giovane»), aveva sempre idee precise, era analitico e precocemente intelligente. Non c’è cosa più antropologicamente lontana da un sobrio e riservato piemontese che rifugge la pubblicità («in paese ha fatto delle cose, ma non se ne è mai attribuito i meriti», riferisce la stessa persona) di un istrione mago degli eccessi come Berlusconi. Eppure l’epopea berlusconiana ha segnato Cairo in maniera indelebile: l’editoria nazionalpopolare, la presidenza del club di Serie A, la televisione e ora la grande stampa nazionale sembrano riflessi del bildungsroman imprenditoriale di Arcore. Chissà che direbbe il ventiquattrenne Urbano del quasi sessantenne Urbano. In ogni caso, a chi lo accusa di essere o esser stato succube di Berlusconi può sempre ricordare un dono particolare al divo Silvio nel giorno delle nozze con Veronica Lario: un ritratto, il suo (di Cairo, si intende), opera della pittrice Lila De Nobili.
Il Grande Risanatore di Alessandria, quello che dopo aver rilevato La7, in perdita di cento milioni l’anno, aveva detto al Foglio «mentre studiavo i bilanci sono stato folgorato da un pensiero. Mi stavo lavando le mani in bagno, ho guardato l’orologio e ho pensato: è passato un minuto. Ecco, ho perso mille euro», ora porterà la sua austerità garbata («non ho mai licenziato nessuno») a Crescenzago. La sfida è la più difficile che abbia mai incontrato, vista la situazione economica da May day di Rcs Mediagroup, ma il piano c’è: basta seguire il binario, no? «Sarò in prima linea. Sicuramente ciò che voglio è avere tutte le deleghe e capire quando esce un euro, perché esce, e come», ha fatto sapere l’artefice della vittoriosa scalata.
«È la fine di un cammino e probabilmente l’inizio di un nuovo cammino», assicura con aria consapevole il vecchio amico dei Cairo, espirando fumo di sigaretta nel suo salotto. In queste case di campagna fa più fresco, penso distrattamente prima di uscire. Poi, in macchina sulla via del ritorno, la mente vira su queste insolite figure italiane di caparbi maniaci del successo, persone capaci di dedicare l’intera vita alla realizzazione totale del loro intuito, della loro preveggenza, della loro volontà; persone in grado di non far altro che vincere o preparare una vittoria considerata certa. Un piano dell’imponente fortificazione di Masio, da qualche tempo resa un museo visitabile, è incentrato su un tema che a questo punto non so se legare agli studi medievali o al suo figlio più celebre: si intitola “Come si difende una torre”.