Attualità

La serie di Netflix che parla di Netflix

Unbreakable Kimmy Schmidt racconta il ritorno alla vita di una ragazza che per 15 anni è rimasta chiusa in un bunker. E cambia come guardiamo la Tv.

di Jacopo Cirillo

Unbreakable Kimmy Schmidt (da adesso in poi UKS) è una serie comedy prodotta da Tina Fey e Robert Carlock, quelli di 30 Rock, per capirci. La prima stagione – la seconda è già stata confermata – è composta da 13 puntate ed è uscita nella sua interezza il 6 marzo scorso su Netflix.

Ora, la serie è molto bella e davvero strana, ma non siamo qui per parlare di questo quanto, piuttosto, per provare a capire come funziona e perché (e che cosa c’entra Michael Jordan nel discorso). Intanto la storia. Kimmy Schmidt è una ragazza dell’Indiana che, insieme ad altre tre sprovvedute, ha vissuto confinata in un bunker per quindici anni, convinta da un predicatore che annunciava la fine del mondo. Insomma, queste quattro mole women credevano che la Terra fosse un lago di fuoco e se ne restavano rintanate là sotto aspettando non si sa bene che cosa, probabilmente la morte per inedia. La narrazione inizia nel momento in cui le ragazze vengono liberate e rimesse, letteralmente, al mondo, quel mondo che ormai non riconoscono più. Kimmy, al contrario delle altre, decide di rifarsi una vita e trasferirsi a New York, scoprendo che, effettivamente, le cose sono abbastanza cambiate negli ultimi tre lustri.

Da qui partono gli intrecci, i personaggi, le gag e tutto il resto e noi spettatori riscopriamo la nostra contemporaneità per differenza, proprio a partire da ciò che Kimmy non sa. La serie fa ridere, fa pensare, intrattiene e ci sono un sacco di guest star. Bene, basta. Io penso che UKS non sia una serie raccontabile in quanto concatenamento di eventi o dinamiche tra personaggi, è così bella proprio per questa sua impossibilità, ti costringe a guardarla per capire davvero di che cosa stiamo parlando. Ma si possono dire molte altre cose, soprattutto a partire dal rapporto tra Netflix, gli spettatori e Kimmy stessa, interpretata dalla bravissima e graziosissima Ellie Kamper. La prendiamo un po’ da lontano, per iniziare.

 

Michael Jordan e il respiro del mondo

È il 2004. L’orrendo rumore dei modem a 56k che si connettevano a Internet tenendoti il telefono di casa occupato per tutta la sera è già un ricordo sufficientemente lontano. Io ho 22 anni e sono all’università, vivo con tre coinquilini e mi faccio finalmente i cazzi miei. Un giorno un tipo mi fa: sai che proprio ieri sera è iniziata questa nuova serie, Lost. Dicono che non sia male. A quel tempo io avevo una serie-monolito moltoold school che era Six Feet Under; per me c’era solo quella e le altre lasciavano un po’ il tempo che trovavano. Però, poi, sai come vanno queste cose, il vino rosso è finito, nessuno ha voglia di andare dal paki a prenderne un’altra boccia, proviamo a guardarci questo Lost.

Ecco, si può facilmente immaginare quello che è successo dopo. Manco fosse il calcetto del martedì sera con gli amici, da lì ai sei anni successivi ho avuto un appuntamento fisso ogni settimana a cui non avrei rinunciato per nulla al mondo. Solo che non ero l’unico a pensarla così. Oltre quindici milioni di spettatori negli Stati Uniti la stavano guardando insieme a me. Aggiungine almeno altrettanti nel resto del pianeta ed eravamo già un bel gruppone. Non voglio dare giudizi di valore su Lost ma una cosa è innegabile: la creatura di JJ Abrams e compagnia ha, per la prima volta, spostato il paradigma legato alla visione televisiva e seriale che, da spettacolo, è diventata pratica, nel doppio senso di consuetudine/usanza/costume rituale e di relazione tra esseri umani senzienti.

Lost è come Michael Jordan: non ha migliorato il proprio contesto di riferimento, ha proprio spostato l’asticella.

Ogni settimana, milioni di persone aspettavano contemporaneamente l’uscita del nuovo episodio e così per tutte le settimane di programmazione, per sei anni. Il concetto di serialità come pratica rituale collettiva è nato proprio lì, anche se non ce ne rendevamo ancora bene conto. Perché, secondo me, la grandezza di Lost, ciò che la renderà per sempre LA serie Tv, risiede proprio nel respiro del mondo, quasi come se, mentre attendevi quegli interminabili sette giorni (con la consapevolezza che la reiterazione di questa frustrazione era essa stessa il piacere), tu sentissi distintamente l’attesa di tutte le altre persone sparse per il globo. Come se milioni di esseri umani respirassero, sospirassero, ridessero, piangessero e si strippassero il cervello tutti nello stesso momento e tutti insieme a te. E il rumore era quasi assordante e si incanalava nei forum, nei blog, nelle aule universitarie, agli aperitivi e, in un certo senso, anche nell’aria. Lost è stata la prima opera culturale che, legata indissolubilmente all’avanzamento tecnologico, ci ha permesso di percepire la presenza quasi fisica dell’altro da noi, all’interno di una pratica che era sempre stata considerata, erroneamente, passiva. Lost è come Michael Jordan: certo, LeBron James all in all è più forte di lui però, caso strano, porta il 23 sulla schiena. Lost, insieme a MJ, non ha migliorato il proprio contesto di riferimento, ha proprio spostato l’asticella, ne ha cambiato il paradigma. Bene, adesso la cosa si fa divertente perché il paradigma sta cambiando di nuovo e penso che UKS sia il modo migliore per capirlo fino in fondo. Ecco perché.

Binge watching

Le maratone televisive sono un’idea abbastanza vecchia: a partire dagli anni ’80, alcuni canali Tv mandavano in onda molti rerun della stessa serie, di modo che i fan potessero incontrarsi tutti insieme e fare, appunto, la maratona. Alla fine degli anni ’90 inizia a circolare sui forum l’espressione “binge watching” o “binge viewing”, grazie all’avvento e la diffusione dei cofanetti di DVD: i nerd di quei tempi si compravano tutta la prima stagione di Battlestar Galactica su Amazon e facevano a gara a chi smetteva per ultimo di rovinarsi gli occhi. Ma è stato solo con la nascita di servizi come Hulu, Amazon Prime e Netflix che il termine binge watching ha travalicato i confini della fandom diventando patrimonio linguistico globale.

Il binge watching ci sta anche negando piacere di aspettare tutti insieme.

Il cambio di paradigma di cui parlavo prima è davvero sotto gli occhi di tutti: l’idea di serialità come respiro del mondo, come cerchio multiculturale di fan che si tengono la mano abbattendo ogni barriera viene spazzato via dal ritorno della differita. Se Netflix mi caccia fuori in un solo giorno tutte le puntate contemporaneamente, io spettatore posso gestirne la visione secondo le mie necessità: prima non andavo al bar il giovedì sera altrimenti mi perdevo Fringe e il giorno dopo i miei amici su Facebook o su Serialmente me la sputtanavano; adesso magari esco a bere con serenità e mi tengo libera la domenica pomeriggio votandola al binge watching.

La condivisione diventa differita, le dinamiche social cambiano totalmente (gli spoiler, per esempio, hanno tutto un diverso statuto e il ragionamento sulla loro expiration date diventa centrale, ma questo è un altro discorso, magari la prossima volta). Non è una cosa da poco, perché sta cambiando la quotidianità di molte persone, ci sta liberando dalla schiavitù dell’attesa ma, allo stesso momento, ci sta anche negando piacere di aspettare tutti insieme.

Unbreakable Kimmy Schmidt? Adesso arriva.

Binge learning

Secondo me, UKS è il modo in cui Netflix sta ragionando su se stessa (penso che Netflix sia femminile, o comunque suona meglio) e sulla serialità in generale. Kimmy è rimasta isolata dal mondo durante gli anni d’oro delle serie Tv e dello sviluppo tecnologico — di cui è conseguenza ma anche causa — e si è persa TUTTO. Di roba ne è successa, da LostMad Man, da How I Met Your MotherBreaking Bad passando per Game of Thrones e via discorrendo, e poi Twitter, gli smartphone, i selfie, il twerking e tutto il cucuzzaro. Kimmy era fuori da quel respiro del mondo di cui si parlava prima, era addirittura convinta che il mondo fosse finito e che, letteralmente, non respirasse più nessuno.

Rientrata nella società, non a caso a New York (per i newyorchesi è il centro culturale e artistico del pianeta, magari è pure vero), è costretta a un binge learning a cui nessuno di noi sarebbe nemmeno lontanamente preparato. Deve imparare un sacco di cose nel minor tempo possibile, pena la sua mancata integrazione sociale. Solo che non si trova ad assorbire un’evoluzione, un upgrade, dinamica facilmente commensurabile dal cervello umano; si deve misurare piuttosto con una rivoluzione, uno spostamento del paradigma, e qui la curva di apprendimento si allunga. Le serve un bignami, qualcosa o qualcuno che le riassuma quello che si è persa e che, allo stesso tempo, le illustri tutto il pippone del cambio di paradigma con cui ci siamo già annoiati abbastanza. Ed è proprio UKS la serie a farlo, su due livelli.

Binge teaching

La diegesi, in poche parole, è lo srotolamento narrativo di una storia a partire da un’istanza teorica, il narratore, che emana fuori da sé un insieme di categorie spazio-temporali che permettono al fruitore di riconoscere pattern narrativi, dare un senso all’enunciato e capire più o meno quello che sta succedendo.

Si parla di intradiegesi quando la “voce” di questo narratore è interna al testo. Dunque, le cose che accadono a Kimmy a livello intradiegetico comprendono le sue quest per adattarsi alle novità all’interno del suo universo, quello in cui quattro ragazze dell’Indiana sono rimaste in un bunker per 15 anni. Il suo nuovo coinquilino le spiega come usare Twitter, la sua nuova datrice di lavoro si fa un selfie con lei, una ragazzina petulante le dimostra come sono diventati i teenager di oggi e così via.

UKS diventa un manuale di serialità old school (quella di Lost) e lo fa attraverso la serialità new school, quella di Netflix

L’extradiegesi, invece, è quando la voce del narratore è esterna al testo (duh!) e, soprattutto, fuori dal suo universo narrativo, tipo Manzoni nei Promessi Sposi. E qui iniziamo a divertirci, perché UKS diventa un manuale intradiegetico ed extradiegetico di serialità old school (quella di Lost, per intenderci) che spiega a Kimmy tutto quello che si è persa, e lo fa attraverso la serialità new school, quella di Netflix, che continua imperterrita ad autorappresentarsi. Un binge teaching in due mosse.

Universi paralleli

Kimmy ha imparato il concetto di viralità e di UGC a partire dalla sigla del suo stesso show. Io ho perso circa 50 minuti della mia vita per mettere l’opening theme di UKS come suoneria del cellulare e, visto che è davvero da babbi avere una canzone di una serie Tv che non conosce nessuno come suoneria dell’iPhone, qualche parola in più mi sento di spenderla.

Intanto la canzone è super catchy, e qui ci siamo. Ma la figata è un’altra. Immaginiamo due universi paralleli: il nostro e quello di Kimmy. L’unica differenza rilevante tra i due universi è che nel nostro Kimmy non esiste e nel suo non esistiamo noi. L’opening theme di UKS è un remix YouTube – nel solco del famosoSongify the News che andava un casino l’anno scorso in entrambi gli universi paralleli – di questa intervistafatta a Walter Baskton, il local che ha assistito al salvataggio delle quattro ragazze nel bunker. Quindi la sigla di UKS e soprattutto la sua genesi esistono sia nel nostro universo che in quello di Kimmy. A me comincia già a scricchiolare il cervello: Kimmy impara come funziona la viralità su internet diventando essa stessa virale, co-protagonista di un video remixato su YouTube nel punto in cui convergono i due universi.

Le guest star

In UKS ci sono tantissime guest star, probabilmente perché Tina Fey è la numero uno e ha un sacco di amici con cui divertirsi insieme. Tuttavia, le sue capacità di PR non ci interessano. Ci interessa piuttosto capire chi, come e perché. Questo l’elenco delle più conosciute con spiegazioncina a lato:

– Jon Hamm e Kiernan Shipka, rispettivamente Don e Sally Draper di Mad Men;
– Dean Norris, meglio conosciuto come Hank Schrader in Breaking Bad;
– Jerry Minor, una delle colonne del Saturday Night Live e presente anche in Community;
– Tina Fey, a cui vogliamo molto bene anche come Liz Lemon in 30 Rock;
– Mat Lauer as himself, il conduttore del Today Show;
– Gil Birmingham ovvero Billy Black di Twilight;
– Richard Kind, diventato famoso con Mad about you (Innamorati pazzi) e col capolavoro Spin City;
In più, una delle protagoniste si chiama Xanthippe Lannister Vorhees, e il riferimento a Game of Thrones mi sembra molto chiaro, così come quello a Venerdì 13, ma va be’.

L’elenco sarebbe più lungo, ma le altre sono soprattutto celebrities americane che da noi non sono molto conosciute. Comunque il senso è chiaro: stiamo parlando dei protagonisti – o, meglio, dei rappresentanti – delle serie Tv, dei film e dei talk show principali degli ultimi anni. È come se UKS riassumesse, per Kimmy, tutte le cose migliori che si è persa nel suo isolamento nel bunker attraverso le guest star scelte per interpretare i personaggi che popolano il mondo di Kimmy stessa. Kimmy è circondata continuamente dalle serie Tv che non ha visto.

Tiriamo le fila

Va bene, ci provo. La caricatura, per Wittgenstein, funzionava così: tu prendi un aspetto o un dettaglio di qualcuno o qualcosa e lo gonfi, lo fai esplodere, di modo da abolire tutto il resto. La caricatura, allora, non è solo una esagerazione ma anche, se non soprattutto, una riflessione sulla rilevanza. UKS è una caricatura di Netflix perché esaspera il cambio di paradigma che sta operando nella cultura televisiva e lo fa applicando il concetto di binging alle tre istanze la cui relazione fa proliferare il senso della narrazione stessa: binge watching per gli spettatori, binge learning per Kimmy e binge teaching per UKS. E lo fa attraverso la struttura stessa di UKS , frattale del network che la trasmette e universo parallelo e convergente a quello dello spettatore, unendo in maniera inedita ed euristica i tre responsabili della costruzione del senso: chi lo produce, chi lo permette e chi lo recepisce.