Attualità

Un’app salverà l’editoria?

Spesso definita «l’iTunes delle news», Blendle è stata acquistata dalla New York Times Company e sta pensando di espandersi in Europa. C'è chi dice che salverà l'editoria, ma anche chi è scettico.

di Davide Piacenza

Pubblichiamo il primo contenuto estratto dal nostro numero speciale dedicato a Studio in Triennale, il festival che Studio organizza a Milano il prossimo weekend, dal 21 al 23 novembre, che trovate anche su iPad. Di Blendle e possibili soluzioni alla crisi del giornalismo parleremo domenica 23 novembre alle 14.30 con Thomas Smolders, strategist di Blendle, Luca Sofri, Beniamino Pagliaro e Daniele Bellasio.

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Avete presente quel mantra mesto ma difficile da confutare: “si legge meno di un tempo”? Ce li avete in mente, i titoli che ci ricordano che «un italiano su due non legge neppure un libro all’anno» (Il Sole 24 ore, 20 marzo 2013)? E sicuramente avrete già trovato analisi in ogni salsa della Grande Crisi del Giornalismo, piaga internazionale che funesta un intero settore e non smette di generare dibattiti e riflessioni. Ecco, ora che avete annuito davanti a questi quesiti retorici potete dimenticare buona parte di ciò che implicano, grazie alla startup di un gruppo di giovani (e giovanissimi) ragazzi olandesi.

Blendle, l’edicola digitale, ha conquistato i titoli dei media di mezzo mondo, dal Guardian al Wall Street Journal, come «l’iTunes delle news». Il modello proposto è effettivamente molto simile a quello del portale di Apple: gli iscritti al servizio in Olanda pagano per leggere gli articoli dei principali giornali nazionali (all’inizio, sei mesi fa, erano quindici), tramite un’applicazione pay-per-read che li riunisce in una sola schermata. Non a caso in un post scritto su Medium il 6 marzo scorso Alexander Klöpping, 27enne olandese con trascorsi da giornalista tech e un presente da star della Tv, introduceva la sua idea con queste parole: «Il giornalismo ha bisogno di un iTunes. […] Che cosa succede se tutti i principali gruppi editoriali di un paese uniscono le proprie forze, riunendo tutti gli articoli scritti nella nazione e assicurandosi che siano prontamente disponibili in una singola app e acquistabili con un singolo portafoglio virtuale?». Beh, capita che le cose funzionano e gli utenti apprezzano, almeno in questo caso: Blendle, dal suo lancio in versione beta del 28 aprile di quest’anno, ha toccato quota centomila iscrizioni in appena quattro mesi (e in un paese con meno abitanti della somma di quelli di Piemonte, Lombardia e Veneto, è bene ricordarlo), si è quotata in borsa, ha attirato l’interesse dei più grandi nomi dell’industria mediatica mondiale. Oggi conta più di 130 mila utenti iscritti, e dai dati in possesso di Klöpping e sodali i due terzi di chi si è registrato tramite Facebook ha meno di 35 anni d’età.

«Che cosa succede se tutti i principali gruppi editoriali di un paese uniscono le proprie forze?»

L’«iTunes dei libri» lavora con uno schema semplice e innovativo – due parole che si potrebbero usare anche per descrivere l’interfaccia grafica pulita, dalla forte connotazione social e leggibile senza tedi su smartphone e tablet. I publisher decidono il prezzo dell’articolo singolo (in media in Olanda si aggira sui 20 centesimi di euro) che il lettore dovrà pagare, e dividono il ricavo con la società: il 70% degli introiti finisce a loro, e il 30% viene corrisposto a Blendle. L’utente vede in tempo reale ciò che è più condiviso e acquistato dai propri contatti e da una serie di influencer più o meno vip, e se non è soddisfatto del contenuto, stando alle policy di “fair use” del sito, ha diritto a essere rimborsato. A tutto questo va aggiunta la comodità di trovare in un singolo spazio digitale tutte le pubblicazioni nazionali divise per il giorno d’uscita, poterle salvare, archiviare, taggare, ricercare e condividere.

È difficile non vedere la startup olandese come, se non proprio una via d’uscita, almeno una scorciatoia per ricalibrare l’annoso dibattito sui modelli di ricavo alternativi alla cara vecchia raccolta pubblicitaria. Non per altro Blendle ha attirato l’interesse e i capitali di alcuni dei nomi più importanti del panorama mediatico, si diceva: alla fine del mese scorso, The New York Times Company e Axel Springer Digital Ventures (la branca d’investimento dell’editore che pubblica, tra le altre cose, il tabloid tedesco Bild) hanno annunciato di aver investito 3 milioni di euro nell’azienda fondata da Klöpping e il suo coetaneo Marten Blankesteijn – un ex giornalista anch’egli – in un finanziamento che nella neolingua parlata in Silicon Valley è detto “Series A”, quello iniziale in cui la startup del caso cede proprie quote a investitori danarosi e in grado di scommettere.

«Da editori, vogliamo convincere gli utenti a pagare per leggere il grande giornalismo, anche nell’era digitale. […] Blendle ha il potenziale per attirare i lettori giovani, che sanno usare Internet», ha commentato Mathias Dopfner, chief executive di Axel Springer. L’investimento del Times affianca Blendle ad alcune delle startup più promettenti dello scenario digitale di questi anni: la piattaforma di “fact discovery” Enigma, il marketplace di video Vidible, la versione opensource del popolare sito di blogging WordPress sono tutti sotto l’ala protettiva della società che pubblica il quotidiano diretto da Dean Baquet. Le parti coinvolte nell’operazione hanno precisato alla stampa che il controllo di Blendle rimarrà dai fondatori, e le testate dei finanziatori non godranno di nessun trattamento di favore nella diffusione degli articoli sull’applicazione.

Klöpping ha rivelato al Guardian di stare lavorando coi suoi per portare Blendle oltre i confini dei Paesi Bassi, in un grande Stato europeo, «entro sei mesi». Le speculazioni riguardanti il prossimo approdo della startup olandese sono irrisolte (Germania? Francia? Italia? Un comunicato stampa presente sul sito dice che i fondatori «sono in contatto con molti editori di diversi Stati»), ma rimane un dato: nell’era dei social media che livellano i delta di traffico in entrata tra le testate, del News Feed di Facebook da cui i media dipendono sempre più direttamente e della scomparsa della prima pagina, una startup è di fatto riuscita a ri-aumentare le vendite di quotidiani e magazine.

Certo, per far sì che il modello Blendle attecchisca c’è bisogno di una serie di condizioni preliminari: il mercato giornalistico nazionale del paese in questione deve aver raggiunto una massa critica che Klöpping individua in un 60-70 per cento delle testate cartacee “costrette” a rendere disponibili i loro articoli in digitale. Quando gli fanno notare che l’Olanda è giocoforza una attore secondario anche in ambito mediatico, Klöpping obietta che anche paesi come Germania, Francia e Spagna hanno modelli simili, per quanto di proporzioni diverse. «Ad esempio se ci espandessimo in Germania sarebbe interessante, dato che ci sono molte persone che vorrebbero leggere più articoli del New York Times o del Wall Street Journal, per dirne due», ha dichiarato al Guardian, definendo la sua creatura «un laboratorio per la distribuzione del giornalismo».

Non tutti sono entusiasti dell’offerta di Blendle, che si è quotata in borsa a maggio e nella sue sede di Utrecht conta 25 impiegati, perlopiù programmatori. Mathew Ingram su Gigaom ha espresso forti perplessità sul progetto: «Penso che Blendle e gli altri modelli di paywall avranno difficoltà a replicare il successo che hanno avuto in mercati come quello olandese. In parte la barriera della lingua supporta questo modello perché restringe la competizione, ma se il contenuto è in inglese diventa subito sostituibile. La più grande minaccia per servizi come Blendle non è che le persone non vogliono pagare per i contenuti, ma che esiste un oceano di notizie e informazioni gratuite fruibili tramite app esistenti come Zinio e Flipboard, senza parlare dei browser web». La tesi di Ingram, da anni in prima linea nella riflessione sui nuovi media e il giornalismo, è che non possiamo tornare a un’era in cui le news erano limitate alle testate più grandi o autorevoli.

Intervistato sul magazine della sede olandese di PricewaterhouseCoopers, il co-fondatore Marten Blankesteijn la pensa molto diversamente: «Le notizie che si trovano gratis su Internet non sono un problema per Blendle, perché noi offriamo informazioni approfondite, non i fatti del giorno. I nostri contenuti aiutano le persone a capire le notizie e farsi un’opinione. I brand giornalistici hanno ancora valore in questo senso e questo è il motivo per cui dà ai lettori una percezione completa dei contenuti presentandoli col layout di una copia cartacea. I grandi giornali sono molto vivi tra le generazioni più giovani».

«Le notizie che si trovano gratis su Internet non sono un problema per Blendle»

«Siamo riusciti a inserirci in un mercato di lettori che altrimenti non pagherebbero per un contenuto giornalistico di livello», commenta Blankesteijn, facendo notare che nessuna testata olandese ha comunque visto i suoi abbonamenti calare in modo netto. I più giovani tra i Millennial, iperconnessi ed esigenti ma amanti dei cari vecchi giornali, ridisegnati per entrare comodamente nelle dimensioni dei loro iPad. Quella di Blendle è una scommessa, certo, ma per ora è anche vincente.