Attualità

Trasformare videoclip in spot

Musicisti e pubblicità, dai malumori degli anni '90 agli accordi commerciali di Lady Gaga (e Biagio Antonacci)

di Michele Boroni

All’inizio dell’estate sono stato invitato da Mtv Italia a partecipare ad un workshop all’Università di Torino in occasione degli Mtv Days. Insieme a giornalisti musicali, pubblicitari, discografici, musicisti e responsabili marketing si discuteva di Band e Brands, ovvero della pratica, oggi piuttosto diffusa, di alleanze tra artisti e brand per campagne pubblicitarie, per product placement ma anche per nuove operazioni e attività volte a trovare nuove forme di distribuzione e visibilità. L’idea della conference era quella di approfondire e discutere le opportunità e sopratutto i limiti di queste nuove pratiche: l’età media dei relatori (me compreso) era di circa 35-40 anni, che ha quindi vissuto l’epoca della musica come “arte pura” sovvenzionata unicamente dalla vendita dei dischi e degli artisti che non si piegavano ad accordi di marketing con i brand. Tra i relatori c’era anche Emis Killa, giovanissimo rapper italiano (classe 1989), ragazzo sveglio e dal pensiero svelto, che però non riusciva a cogliere l’argomento: o meglio, non capiva cosa ci fosse da discutere. Se il problema c’era, riguardava soltanto la mancanza di buon senso o coerenza di un cantante nello stringere partnership con marchi che non lo rappresentavano pienamente nell’immagine e nell’identità. E dello stesso parere era la stragrande maggioranza dei ragazzi presenti nell’aula.

Sembrano passati eoni da quando le band pop-rock non volevano esibirsi su un palco dove compariva il marchio di una birra, e invece era solo la fine degli anni 90, o da quando il grande pubblico e la critica musicale giudicava con disprezzo i testi dei rapper pieni di citazioni di brand. In poco più di dieci anni è accaduto di tutto. In realtà da allora è successo una sola grossa cosa: si è iniziato a vendere sempre meno dischi e, di conseguenza, è venuta a mancare la fonte primaria delle entrate di un’intera industria. In questo periodo il rapporto tra brand e musica si è assai evoluto. Un tempo la musica era esclusivamente di supporto alla comunicazione dei brand attraverso i jingle e la sonorizzazione degli spot, pratica che comunque resiste ancora oggi: provate a vedere quali sono i singoli più scaricati su iTunes e noterete che oltre il 50% di questi sono colonna sonora di qualche spot in heavy rotation su tv, youtube e radio.

Poi arrivò il momento dei cosiddetti sonic brand e sound identity, con la musica che diventava ulteriore elemento di riconoscibilità per il marchio: lo fece McDonald’s con “I’m lovin’ it” (lo sapevate che dietro questo c’erano i Neptunes, ovvero Pharrell Williams e Chad Hugo insieme a Justin Timberlake, tratto da questo brano), Brian Eno per l’opening jingle di Microsoft Windows e il meno conosciuto compositore contemporaneo austriaco Walter Werzowa per il sonic logo di Intel Inside.

Quello che serve ai musicisti sono soldi facili che rimpiazzino la mancata entrata delle vendite dei dischi, mentre per le aziende è necessario una nuova relazione con il consumatore, un nuovo modo di comunicare con i propri fans e uno strumento per reclutarne di nuovi.

Da questa base si consolida una partnership un po’ più strutturata e meno episodica tra brand e musica, anche attraverso la rete, che porti a un risultato win-win.

Prendiamo ad esempio i videoclip; con il declino delle tv musicali, i video hanno perso un po’ la loro forza propulsiva come strumento di massa per la promozione musicale, ma possono ancora rappresentare un’ottima piattaforma di comunicazione per prodotti e brand. Del resto le persone solo in rari ed eccellenti casi guardano uno spot pubblicitario su YouTube, però il videoclip rimane ancora uno dei formati più visti in rete. Quindi questo è il momento propizio non solo di fare product placement all’interno di videoclip (il caso Lady Gaga con Bad Romance e Telephone con tanto di listino per la presenza di brand e prodotti all’interno del video è ormai roba da manuale) ma anche per progettare canzoni ad hoc in grado anche di veicolare un altro tipo di messaggio.

Ecco un caso fresco fresco (o, per meglio dire, caldo caldo) che arriva dall’Italia. Una delle canzoni più ascoltate e diffuse dai network radiofonici quest’estate è stata “Non vivo più senza te”, il singolo di Biagio Antonacci. Il pezzo racconta di una vacanza in Salento – sfido ognuno di voi se non ha almeno 5-6 amici o conoscenti che quest’anno hanno fatto la vacanza laggiù – e dentro ci sono tutti i temi e gli stereotipi tipici del luogo (il vino, i dolci, il mare, i tramonti, la pizzica…).

Poi vedi il video, girato interamente nei pressi di Gallipoli, al Lido di Punta Suina e alla Torre di Lido Pizzo, con frammenti di feste salentine, tutto danze e tamburelli: alla fine compare a pieno schermo il logo “Puglia” di Pugliapromozione, agenzia della Regione Puglia che si occupa di promuovere l’immagine unitaria della regione.

Tutto molto trasparente, non c’è che dire; si dichiara l’accordo di product placement per la produzione del video.

Alla fine però è una pubblicità bella e buona, fuori dai limiti fissati per legge sugli affollamenti pubblicitari e senza pagare gli spazi pubblicitari agli editori. I soliti malfidati penseranno a un’operazione studiata di tutto punto a partire dalla scrittura della canzone di Antonacci. Non so, io penso di no. Però, anche se così fosse, il tutto è stata costruito con sufficiente garbo ed equilibrio. Il problema si presenterà semmai quando questa pratica sarà attivata da artisti meno attenti, professionali e rispettosi del pubblico e del mercato e che andrà quindi a ribaltare l’equilibrio, già precario e affannato, tra editori, concessionarie pubblicitarie e committenti.