Attualità

Perché tradiamo?

Perché non vorremmo tradire e perché non riusciamo ad ammettere che, a volte, il prezzo della nostra felicità è l’infelicità altrui.

di Anna Momigliano

Nadia non è un’amica, ma è qualcosa di più di una conoscente: eravamo a pranzo insieme quando ha lasciato cadere, tra un bucatino e l’acqua minerale, di avere trovato una confezione di preservativi nella valigia del marito, che viaggia spesso. «Comunque non mi ha mai fatto mancare nulla», ha aggiunto, come a dire che non poteva lamentarsi. Chiara, invece, al suo di marito mette le corna regolarmente. Quando le ho domandato perché, mi ha risposto che era un suo diritto, visto che stanno insieme da quando lei andava al liceo, ma lui è più grande e le sue esperienze se l’era fatte prima. Poi c’è Micol, che per partito preso ha solo storie con uomini sposati, «che non si appiccicano». Un giorno mi ha chiesto di prestarle casa per portarsene uno a letto, e quando ho rifiutato c’è rimasta male: sei proprio una bacchettona. In realtà la casa era off-limits perché ci stava mia figlia con la tata, però forse Micol ha ragione, un po’ bacchettona lo sono: quando si porta i suoi amanti agli aperitivi, vederli abbarbicati a lei ma con la fede al dito, mi mette a disagio.

Le corna sono vecchie quanto il mondo: senza di esse, non ci sarebbe stata nessuna guerra di Troia e nessun tempio sarebbe mai stato costruito a Gerusalemme

Gaia ha avuto per anni una relazione con un uomo sposato di cui era innamorata: lei diceva che era una cosa seria – sì, una cosa seria per te, mica per lui, le rispondevamo noi amiche – poi però, quando è rimasta incinta, lui ha lasciato la moglie, che era incinta pure lei e poi ha avuto un’epica depressione post-partum. «Per fortuna che Gaia è abbastanza moderna, altrimenti si sarebbe fatta prendere dai sensi di colpa», mi ha detto una confidente comune, senza ombra di malizia o d’ironia. Dell’ex moglie depressa, Gaia una volta mi ha detto che comunque era già in rotta col marito da anni. Perché è così difficile ammettere che la nostra felicità avvenga a discapito di quella degli altri?

A tutti, dai sedici anni in su, è capitato di tradire o essere traditi. Qualcuno dice che anzi, ora che siamo moderni, tradiamo ancora più di prima: nel suo ultimo libro, Così fan tutti – Ripensare l’infedeltà, la psicologa belga Esther Perel sostiene che il numero di donne sposate che ammettono di avere avuto relazioni extramatrimoniali è quasi raddoppiato dal 1990 a oggi, mentre quello degli uomini è rimasto stabile. Se il gender gap si sta assottigliando, almeno sull’adulterio, qualcosa vorrà pur dire. Le corna sono vecchie quanto il mondo: senza di esse, non ci sarebbe stata nessuna guerra di Troia e nessun tempio sarebbe mai stato costruito a Gerusalemme. Una mia vecchia professoressa di antropologia evolutiva diceva che sono il sale dell’umanità, che senza un po’ di tradimenti il nostro pool genetico sarebbe molto più monotono, e noi più scemi.

 

La verità è che il tradimento, così come lo intendiamo oggi, è un’invenzione moderna. Nell’Ottocento era considerato perfettamente normale che un uomo sposato non solo avesse amanti, ma anche che se ne vantasse con i parenti della moglie: Stephanie Coontz, una storica americana, ha raccolto lettere e diari che documentano questa bro culture ante litteram. Gli uomini non potevano “tradire”, termine che indica la rottura di un patto di fiducia, perché non c’era alcun vincolo. Dalle donne, certo, ci si aspettava che non facessero sesso con altro uomo che non fosse il marito, né prima né durante il matrimonio, ma questa esclusività c’entrava poco con l’amore e la fiducia: se il compito principale di una moglie era produrre figli legittimi, una relazione extraconiugale diventava un atto sovversivo che minava il patto sociale, più che una promessa d’amore (non per nulla in Italia il delitto d’onore è stato abolito soltanto nel 1981).

Il tradimento è un’invenzione della modernità perché è il prodotto di un’altra invenzione della modernità: l’aspettativa di una fedeltà reciproca. Da dove e quando sia arrivata questa idea balzana, nessuno sa dirlo per certo. Probabilmente ha cominciato a diffondersi in età romantica, quando si diffuse la moda di sposarsi per amore, ma si è consolidata con l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, quando le mogli hanno cominciato ad avere un potere contrattuale.

L’ossessione contemporanea per la fedeltà reciproca non è soltanto il prodotto dell’emancipazione economica. Per quanto strana possa sembrare la cosa, è anche legata alla rivoluzione sessuale. Quando la legge Merlin chiuse le case di piacere italiane, nell’Italia della fine degli anni Cinquanta, Indro Montanelli comprese bene come avrebbe sì ridotto il campo d’azione degli uomini, ma ampliato, indirettamente, quello delle donne. Con i bordelli chiusi, avvertì, da bravo conservatore, prima o poi anche le donne avrebbero cominciato a fare sesso liberamente, e sarebbe stato l’inizio della fine: «L’Italia è destinata a diventare uno dei tanti Paesi dove la condizione di “vergine” non esiste, come non esiste quella di “puttana”, tutte le donne essendo accomunate in un limbo intermedio; e dove non esiste la famiglia».

Negli ultimi anni sono cambiate molte cose di come vediamo il sesso, le relazioni e l’amore. Abbiamo imparato a rispettare l’omosessualità; abbiamo sempre meno problemi col divorzio, con le madri single, con il sesso occasionale e con le relazioni aperte; utilizziamo con disinvoltura parole come “poliamore” e “gender fluid”: c’è un sondaggio di Gallup che fa vedere come, in poco più di un decennio, siamo diventati più tolleranti praticamente su tutto. Sul tradimento, invece, restiamo intolleranti. Anzi, dice Gallup, siamo persino un po’ più intolleranti di prima. Suppongo c’entri qualcosa l’idea di fare male a qualcuno.

Certo, l’attitudine morale su fedeltà e infedeltà varia molto da persona a persona, e non è immune da fattori culturali: i francesi sono più tolleranti degli italiani, che sono più indulgenti degli inglesi, che comunque restano dei libertini se messi a confronto con gli americani: così almeno dichiara l’Institut français d’opinion publique, e sappiamo quanto piaccia ai francesi ricordare al resto del mondo quanto siano di ampie vedute, loro. Nella mia cerchia di conoscenti, che non è rappresentativa di alcunché se non di se stessa, le attitudini che ho avuto modo di osservare possono essere ricondotte a tre macrocategorie: quelli che non vedono dove stia il problema, quelli pronti a condannare dal loro piedistallo e, in mezzo, i democristiani convinti che il tradimento sia sempre sintomo di qualcos’altro. Tutte e tre sono posizioni superficiali: per fortuna c’è Esther Perel a ricordarcelo.

Il rimorso è un’emozione costruttiva e necessaria, perché nasce dall’empatia; quello che dovremmo archiviare invece è la vergogna

Quando il suo libro è uscito in America, lo scorso autunno, se n’è parlato moltissimo, dal New Yorker all’Atlantic passando per il Guardian. In Italia uscirà a maggio, per i tipi di Solferino. Il titolo inglese, The State of Affairs – Rethinking Infidelity, rende meglio l’idea di dove voglia andare a parare l’autrice: dove siamo messi oggi su questo tema, e come ripensarlo a partire da qui. Negli Stati Uniti, dove il pubblico tende a essere più giudicante, è stato presentato come un appello a essere meno intransigenti: è arrivata l’europea illuminata che ci libererà dai sensi di colpa che ci siamo portati a bordo della Mayflower. In realtà Perel decostruisce sì i massimalismi puritani, ma non i sensi di colpa: il rimorso, scrive, è un’emozione costruttiva e necessaria, perché nasce dall’empatia; quello che dovremmo archiviare invece è la vergogna, che è ben altra cosa e c’entra poco con il preoccuparci per gli altri ma c’entra parecchio con l’idea che abbiamo di noi stessi.

Un’altra cosa da archiviare, dice Perel, è l’idea che soltanto le coppie infelici tradiscano. Per quanto rassicurante sia ripeterci che l’infedeltà sia sintomo di qualcosa che non va, il mondo è pieno di uomini e donne innamorati, e persino soddisfatti della propria vita di coppia, che cercano avventure altrove. Molto spesso un amore clandestino ha più a che vedere col rapporto che abbiamo con noi stessi che con i sentimenti nei confronti del nostro partner. In alcuni casi, sostiene l’autrice, tradire può essere un’occasione di crescita, un modo per dimostrare a noi stessi chi siamo, o chi avremmo potuto essere, al di là della coppia. È uno strumento per realizzarci come persona, e realizzare il nostro potenziale non è in fondo quello che vogliamo tutti? Realizzarci di questi tempi sta diventando una necessità, se non quasi un diritto.

Questo aiuta a capire perché anche le brave persone tradiscono e perché tradiscono anche quando sono innamorate, quando ferire il proprio partner è l’ultima cosa che vorrebbero al mondo. Questo, incidentalmente, non toglie nulla al dolore che crea un tradimento a chi lo subisce. In uno dei suoi racconti più belli, “Quello che si ricorda”, Alice Munro descrive il tradimento da parte di una giovane moglie come un’iniezione di fiducia senza la quale la protagonista non avrebbe potuto mantenere un equilibrio. Era la dimostrazione che avrebbe potuto vivere un’altra vita, una conferma di cui aveva disperatamente bisogno, non perché la sua vita non le andasse a genio, ma per evitare di sentirsene prigioniera. Nel suo secondo romanzo, I giorni dell’abbandono, Elena Ferrante mette in scena, senza sconti, il tracollo emotivo e intellettuale di una donna tradita.

Viviamo nell’illusione che la violenza possa essere sradicata dalle nostre esistenze, quindi continuiamo a condannare il tradimento

Ecco, il pregio più grande del saggio di Perel sta proprio nel raccontare, con coraggio e lucidità, il tradimento per quello che è: qualcosa che fa sempre male, quando lo subiamo, ma che può fare anche bene, quando siamo noi a infliggerlo agli altri. Tradiamo perché vogliamo essere noi stessi, e non vogliamo tradire perché l’idea di fare male a qualcuno fa stare male anche noi. È una contraddizione che fa parte di una contraddizione più grande, tipica della modernità, o di quest’idea della modernità. Tradiamo per la stessa ragione per cui ci ostiniamo a cercare un lavoro che ci dia soddisfazione, e non soltanto ci paghi l’affitto, per la stessa ragione per cui andiamo a vivere a Londra anche se abbiamo genitori anziani, oppure tronchiamo una relazione perché non ha più nulla da darci: l’autorealizzazione è la nostra religione civile.

Eppure mai come oggi l’idea di fare del male a qualcun altro ci ha fatto accapponare la pelle. Viviamo nell’illusione che la violenza possa essere sradicata dalle nostre esistenze, quindi continuiamo a condannare il tradimento. Proprio mentre sono caduti altri tabù, su questo tema continuiamo a essere un po’ bacchettoni per la stessa ragione per cui diventiamo sempre più vegetariani, compriamo sempre caffè equo e solidale, non facciamo più il servizio militare e non sculacciamo più i bambini. Vogliamo essere felici, ma non sopportiamo che il prezzo della nostra felicità, a volte, possa essere l’infelicità altrui.

In una delle sue novelle Stefan Zweig, lo scrittore viennese che per cogliere le contraddizioni della modernità aveva un talento raro, racconta di un tizio che aveva l’unico desiderio di non fare male al prossimo. Era un principe guerriero ma poi, stanco di uccidere, si mise a fare l’eremita, e gli altri uomini iniziarono a seguirlo, lasciando morire i figli di fame. A furia di non volere fare male, finì per farne molto di più. Quel fricchettone di Herman Hesse la volle leggere come una storia sorella e complementare del suo Siddharta, però a me la morale sembra molto più terra terra, e assai moderna: dal fare male non si scappa, e se riusciamo a convincerci del contrario è solo perché siamo troppo presi dal congratularci su quanto siamo buoni e civili.

Quando tradiamo o siamo complici di un tradimento, quando lasciamo una persona amata per un’altra o quando convinciamo il nostro amante a farlo, ci raccontiamo mille storie: su come il nostro compagno ci abbia trascurato, su quanto sia stronza la moglie del nostro amante, o su quanto siamo stronzi noi, perché le brave persone mica mettono le corna. Mi chiedo se queste storie non finiscano per fare più danni del tradimento stesso. Se solo riuscissimo ad accettare che la felicità ha un prezzo! Probabilmente continueremmo a soffrire e a fare soffrire, ma se non altro la nostra sofferenza avrebbe più senso e dignità.

 

Foto di Francesco Nazardo
Dal numero 34 di Studio