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Atlante delle isole che non ci sono più

Terremoti ed eruzioni vulcaniche come quella che ha stravolto l'arcipelago di Tonga fanno parte della storia del nostro Pianeta: i volumi scientifici e i racconti mitologici sono pieni di racconti di paradisi naturali cancellati all'improvviso.

di Germano D'Acquisto

L'eruzione del vulcano sottomarino vicino alle coste di Tonga (foto di Dana Stephenson/Getty Images)

L’esplosione del vulcano a Hunga Tonga−Hunga Haʻapai ha riportato alla mente certi cataclismi naturali (e soprattutto divini) raccontati nella Bibbia. Ma ci ha inoltre costretto a fare i conti con dinamiche naturali, spiazzanti al limite della beffa. Nell’epoca dei voli supersonici e del digitale ovunque, ci siamo così ritrovati davanti a immagini di isole scomparse nel nulla, coperte dalla cenere e inghiottite dall’Oceano. Ciò che prima era visibile su Google Earth, ora non c’è più. Vivendo in un tempo di accumulo e di ammasso, abbiamo dovuto fare in conti con sottrazione e dispersione.

Gli scienziati hanno calcolato che l’eruzione del 15 gennaio nel Regno di Tonga è stata 500 volte più potente della bomba atomica sganciata su Hiroshima. E che le colonne di gas, fumo e cenere fuoriuscite dal cratere sottomarino hanno sfiorato i 20 km di altezza. Per quanto le conseguenze dell’eruzione siano ancora da misurare con precisione e gli esperti ancora non abbiano capito le cause di un evento di tale violenza, ci sono delle certezze che già adesso rendono quanto successo nell’arcipelago di Tonga uno dei più sconvolgenti disastri naturali della storia recente. L’onda d’urto generata dall’eruzione è stata avvertita in tutto il mondo, il rumore dell’esplosione vulcanica si è sentito in tutto il Pacifico, dalle Fiji all’Alaska. Le onde dello tsunami che è venuto dopo l’eruzione sono arrivate fino in Nuova Zelanda e in Alaska, impiegandoci rispettivamente cinque e dieci ore. Cambiamenti nella pressione atmosferica dovuti all’eruzione del vulcano sono stati rilevati in Europa, a 15 ore di distanza dall’esplosione.

Eppure, senza scomodare per forza il mito di Atlantide, di paradisi spazzati via da mappe e cartografie − quello polinesiano è lambito da spiagge bianche e barriere coralline ricoperte da foreste tropicali − sono piene pubblicazioni scientifiche e volumi di mitologia. Le cause? Sempre le stesse: eruzioni vulcaniche, terremoti, catastrofi varie ma soprattutto il global warming, che si sta rivelando peggio di una piaga ultraterrena.

Uno degli ultimi  scorci di terra divorati dal mare riguarda Tebua Tarawa e Abanuea, coppia di isole della Repubblica di Kiribati, sommerse nel Pacifico nel 1999. La prima, priva di abitanti, era usata soprattutto come base per i pescatori locali. La seconda, il cui nome per ironia della sorte, significa “la spiaggia che dura a lungo”, era disabitata da tempo. Entrambe sono scomparse per l’innalzamento del livello dei mari dovuto al riscaldamento globale. Recente è anche la vicenda di Jólnir, ex isola vulcanica a sud dell’Islanda, chiamata così in onore del dio Odino. Affiorata nel 1966 a causa dell’attività tettonica, si è inabissata poco dopo insieme al vulcano che l’aveva generata.

Sempre a nord, si trova, o meglio, si trovava Jordsand, microscopica porzione di terra danese nel mare dei Wadden. L’oasi, chiamata Isola del Cervo, pare fosse un tempo collegata alla terraferma. Ma territorio si è via via come prosciugato: nel 1200 la superficie era di 20 km², nel 1600 era scesa a 6. Alla fine dell’800 una violentissima tempesta distrusse quello che era rimasto: una semplice collinetta. Oggi il nome dell’isola rivive in una delle più antiche organizzazioni ambientaliste della Germania, la Verein Jordsand, istituita nel 1907.

Il tour fra le isole “che non ci sono più” prosegue fino al Golfo del Bengala. Qui si trovava fino a poco tempo fa Lohachara, situata nell’area del delta dei fiumi Gange e Brahmaputra, al confine fra India e Bangladesh. Contava diecimila abitanti, gli stessi di Bordighera o Caorle, e negli anni Ottanta è stata rapidamente risucchiata nei gorghi oceanici. Nessuna lenta erosione, ma ondate violente, cadute come frustate su villaggi, campi e riserve di acqua dolce. Una fine velocissima, causata ancora una volta dal global warming.

Andando più in là nel tempo scopriamo la storia di Antirodi, sommersa nel golfo del porto di Alessandria d’Egitto intorno al 300 d.C. in seguito a non precisate catastrofi naturali. Narra la leggenda che proprio qui si trovasse il Palazzo reale di Cleopatra, circondato da giardini e da un piccolo porto. Oppure quella dell’Ilha Sabrina, spuntata quasi all’improvviso dal mare nel 1810 a pochi km dalle Azzorre, innalzatasi fino a quasi 150 metri e poco dopo tornata negli abissi marini.

Anche in Italia non mancano apparizioni e sparizioni miracolose. Come quella di Zanara, scoperta a metà tra il Giglio e Giannutri tra il 1589 e il 1720, riprodotta nel 1670 nella Carta di Stato del Papa e poi sommersa fino a trenta metri di profondità, mezzo secolo più tardi.

Ma il caso più eclatante di tutti è legato alla Ferdinandea. Avvistata nel 1831 nel canale di Sicilia, tra Sciacca e Pantelleria, dopo un’eruzione vulcanica sottomarina, scomparve l’anno dopo. Una vita brevissima a cui fa da contraltare la lunga diatriba legata al suo passaporto. L’isoletta, infatti, citata da Flaubert e Giulio Verne, era un punto di attracco strategico sia mercantile che militare nel Mediterraneo e faceva gola a Inghilterra, Regno delle due Sicilie e Francia. Se la contenderanno qualche mese, giusto il tempo affinché la natura rimettesse le cose a posto, facendola nuovamente scomparire sott’acqua. Della Ferdinandea si è tornati a parlare nel 1986 quando la Marina americana la scambiò per un sottomarino libico e la colpì con un missile. Come a dire: la natura non si accontenta solo di farsi beffe dell’uomo, ma vuole infierire.