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Il tango secondo Borges

Esce in libreria il 9 maggio il libro che raccoglie le conferenze che lo scrittore dedicò al ballo argentino nel 1965.

di Giuliano Malatesta

Non c’è ballo moderno più famoso e più difficile del tango argentino e forse non esiste in Europa una musica che rappresenti così bene i sentimenti e la cultura di un popolo, la nostalgia di un passato o la speranza di un futuro. Il tango per gli argentini è tutto questo, «un pensiero triste che balla», come osò definirlo il poeta Enrico Santos Discépolo. Sulle origini di questa musica rioplatense sono state fatte le più disparate interpretazioni e ogni abitante che incontrerete a Buenos Aires vi giurerà che il tango è nato nel suo quartiere. Di certo si sa che si sviluppò una forma embrionale di tango, rigorosamente non cantato, a Buenos Aires, negli ultimi trenta anni del XIX secolo, in un contesto di forte immigrazione europea. Veniva suonato nelle orillas, delle vere e proprie casas malas, postriboli in fondo non molto dissimili da quelli dove pochi anni dopo, a New Orleans, nel quartiere di malaffare di Storyville, faranno irruzione le prime jazz band, con Armstrong e soci a dar fiato alle trombe per far compagnia ai clienti in attesa e tenere alto il morale delle prostitute, che a fine turno ricambiavano con discrete mance e un po’ di spensierata compagnia.

«Al contrario di quella specie di romanzo sentimentale creato dal cinema, non è il popolo che inventa il tango, che lo impone alla gente perbene. Il popolo all’inizio lo rifiuta, perché ne conosce l’origine indecente», sosteneva un certo Jorge Luis Borges, che alle atmosfere e all’ambiente del tango delle origini dedicò quattro conferenze nel lontano 1965. Le registrazioni di quegli incontri sono riemerse intorno al Duemila, sono state digitalizzate e infine trasformate nel 2016 in un prezioso libretto pubblicato in Argentina in occasione del trentennale della morte dello scrittore, ora tradotto da Adelphi (Il Tango. A cura di Martín Hadis, in  libreria dal 9 maggio).

Guai però anche solo a ipotizzare un’accademica e pedante lezioncina di storia del tango. Borges non amava soffermarsi troppo neanche sugli autori delle canzoni, consapevole che all’epoca non era cosi strano che un autore vendesse per necessità un tango a un interprete famoso. «Capitava anche che i compositori se ne regalassero a vicenda. Questo ci riporta ancora una volta all’età elisabettiana, quando le opere di teatro erano di proprietà degli impresari, non degli scrittori. Nell’ambiente del tango, tutto avveniva in modo amichevole e cordiale; non si pensava che un testo potesse portare celebrità o gloria a qualcuno. Tutto era fortuito. E forse l’unico modo per produrre un’opera d’arte durevole è non prenderla troppo sul serio».

Sarebbe dunque più corretto definire questo singolare testo come una sorta di informale chiacchierata sul tango e sulle sue successive evoluzioni, movimentata però da una serie di superbe digressioni letterarie (su tutte naturalmente il Martin Fierro, il celebre poema epico di José Hernández), aneddoti legati all’infanzia e storie bizzarre che alla fine trovano un loro punto di incontro nel racconto nostalgico di una Buenos Aires di fine Ottocento. Una città di provincia, di case basse, senza alberi, suddivisa in isolati e in classi, dove i conpadritos, personaggi mitologici del tango delle origini, sempre pronti a “onorare la religione del coraggio”, si vestivano con la giacca e il cappello di tesa, il fazzoletto al collo, il pantalone a campana e le scarpe di corda, e «dove i tram a cavalli lasciavano il passeggero non all’angolo di una strada, ma spesso proprio sulla porta di casa». Una città ospitale, racconta lo scrittore, dove il giorno dopo che eri arrivato avevi già sulla soglia di casa un vassoio con le empanadas e il dulce de leche.

L’altro tema che pervade, letteralmente, tutto il libro, è l’esaltazione nostalgica, quasi estrema, di una certa argentinità, il mito dell’epopea del gaucho, della letteratura della pampa, dei compadritos, un aspetto questo che ricorda, con le debite differenze, il modo in cui gli andalusi hanno sempre cavalcato il mito oggi un po’ logoro della hispanidad. Vista in quest’ottica è inevitabile che Borges sia spinto a considerare come tale esclusivamente il tango-milonga delle origini, dove domina la spavalderia un po’ malandrina e non c’è spazio per la tristezza e la malinconia. Cosa c’è di meglio – si chiude indirettamente l’autore – della purezza dei vecchi tanghi, «così eccessivi e così teneri sulla loro ossatura di virilità», caratterizzati da «pura sfacciataggine e pura spudoratezza?».

Poi arrivarono gli anni Venti, Parigi, i cabaret, il successo internazionale, persino l’approvazione della borghesia argentina, e il tango diventò per lo scrittore argentino troppo presentabile. E dunque non più degno di particolari attenzioni. «Perse le sue pose orignali – cortes y quebradas – e si trasformò in una specie di camminata voluttuosa». Dove il coraggio primordiale è sostituito da «un sentimentalismo effeminato e un lamento rancoroso per l’ingrata sorte».

È in questo passaggio cruciale dal tango milonga al tango-cancion, che trovò in Carlos Gardel il suo personaggio più illustre, che Borges mostra i limiti di una visione del tango «parziale e riduttiva», come evidenzia il curatore dell’edizione italiana, Tommaso Scarano. «Cosa fece in sostanza Garde|? Prese le parole del tango e le trasformò in una breve scena drammatica», sentenziò lo scrittore argentino, sminuendo la figura di colui che ha sdoganato universalmente il tango, nobilitando la musica e le sofferenze di un popolo. Come disse una volta Osvaldo Soriano, «Gardel è stato il primo tra noi a spezzare l’incantesimo del fallimento». Negli anni del regime di Videla alcune sue canzoni, già popolarissime, venivano proibite alla radio, nonostante non fosse mai stato un attivista, mentre i militari argentini usavano la sua musica per nascondere le urla dei prigionieri che venivano torturati. E ancora oggi, al cimitero di La Chacarita, che qualcuno ha ribattezzato “il Père Lachaise del tango”, i visitatori che rendono omaggio alla sua statua sono soliti lasciare una sigaretta (e un fiore) tra le dita della sua mano. E se chiedete a un porteños che passa per strada un giudizio su Gardel, probabilmente vi risponderà: «Cada vez, canta mejor».