Cultura | Moda
Nessuno sarà mai più come le super model degli anni Novanta?
Il documentario di Apple TV+ e le numerose comparsate delle sue protagoniste alle ultime sfilate raccontano di una nostalgia dura a morire, e di una moda che non esiste più. Ma che ha anche qualcosa da dire sull’oggi.
Sarebbe facile ascrivere The Super Models, il documentario di Apple TV+ dedicato a Naomi Campbell, Christy Turlington, Cindy Crawford e Linda Evangelista uscito lo scorso 20 settembre, all’ennesima operazione nostalgia, perché di fatto lo è. Le quattro puntate ricostruiscono infatti le eccezionali carriere delle donne che, come mai nessuno dopo di loro, hanno raggiunto a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta una notorietà senza precedenti. Per chi già le conosce è davvero tutto un solluchero, la conferma di ogni stereotipo, soprattutto grazie ai filmati e alle fotografie d’archivio; mentre per chi non le ha vissute ma le ha solo viste in forma di post ribloggati su Tumblr e Pinterest prima e su Twitter e TikTok poi, è un’occasione per sentire la storia della moda. Le super model, conosciute solo per nome (seguito molte volte dal !) come se fossero personaggi di un fumetto, hanno contribuito a creare il nostro immaginario collettivo su tutto ciò che è la moda al pari degli stilisti che le hanno vestite, dei fotografi che le hanno immortalate e dei giornali che hanno reso popolari i loro volti. Oggi che hanno tutte più di cinquant’anni, la loro rimane una testimonianza unica del momento in cui la moda diventava mainstream per la prima volta nella sua storia.
Diretto da Larissa Bills e Roger Ross-Williams, prodotto da Ron Howard e dalle quattro protagoniste, guardando The Super Models ritroverete tutto quello vi aspettate: c’è il glamour, c’è la frenesia del backstage, ci sono abiti e immagini meravigliose, molte delle quali sono stampate a fuoco nella memoria di tutti, ci sono designer (John Galliano, Marc Jacobs, Donatella Versace e Kim Jones tra gli altri), fotografi e alcuni tra i più conosciuti giornalisti di moda (Robin Givhan del Washington Post, Tim Blanks di Business of Fashion) che raccontano il fenomeno. E soprattutto ci sono loro, di cui si è tornato a discutere molto dopo la copertina di Vogue Us dello scorso settembre e che, negli ultimi anni ma soprattutto durante il mese della moda appena concluso, sono ri-comparse praticamente ovunque. Qualcuno si è chiesto se questo eccessivo elogio dei «glory days», come li chiama Linda Evangelista, non sia l’ennesima prova di quell’attaccamento al passato di cui è affetta oggi la cultura pop e di come tutte le industrie creative, moda compresa, siamo sempre meno capaci di produrre nuovi immaginari, nuove mitologie, nuovi racconti. E questo è sicuramente vero, dicevamo, ancor di più per due motivi: intanto perché in The Super Models l’idea che la moda sia stata, e quindi possa essere, solo quel momento lì c’è, anzi ne è la premessa; quindi perché al racconto manca, volutamente, la storia di Tatjana Patitz, scomparsa a soli cinquantasette anni lo scorso gennaio, che dalla moda si era ritirata prima di tutte e che, soprattutto, non vi ha mai fatto ritorno. A lei è dedicato, con una scritta che appare alla fine, il secondo episodio, intitolato “Il potere”. Probabilmente le sue colleghe non hanno voluto raccontare quella storia al suo posto, una scelta comprensibile se si pensa che questo documentario è descritto come l’occasione, per queste gigantesche professioniste, di parlare di sé stesse nei loro termini.
Ascoltarle mentre parlano, riprese dalla luce naturale che ne inquadra i volti, le rughe, i capelli radi o cotonati, la pelle lisciata e resa immobile dai trattamenti, è effettivamente un saggio di storia: la loro, quella di quattro ragazze che hanno definito per prime il passaggio dalla carta patinata alle passerelle, che si si sono inventate un ruolo da protagoniste in un’industria che le vedeva solo come degli strumenti, che hanno affrontato razzismo (Naomi), molestie, contratti svantaggiosi, agenzie predatorie e stampa invadente. Non si descrivono mai come vittime degli eventi, anche se tutte e quattro sono state catapultate appena adolescenti in un mondo che le avrebbe inevitabilmente travolte. Raccontano invece di come, seppur con molte difficoltà, hanno presto capito che qualcosa stava succedendo, e stava succedendo anche grazie a loro. Solo Evangelista ammette che la moda era sempre stata il suo sogno – ed è in qualche modo commovente sentirglielo dire, considerando la sua parabola personale – e ammette anche che non avrebbe mai voluto pronunciare la frase «Non mi alzo dal letto per meno di diecimila dollari al giorno», perché ha contribuito a proiettare un’immagine sbagliata di lei, delle sue colleghe, dell’industria. Ma era tutto vero: le super model non sono state modelle come le altre e la loro esperienza ha segnato tutto quello che sarebbe venuto dopo. L’aspetto più interessante di The Super Models è proprio l’eccezionalità del loro percorso, la perfetta congiuntura astrale che ha permesso loro di essere le donne giuste al momento giusto: sulle copertine, nei video musicali, nelle uscite finali di sfilate memorabili. Hanno creato un metodo, un pattern, un curriculum che ancora oggi ci sforziamo di replicare, in assenza però di tutte le altre variabili.
Se ogni spettatore potrà ritrovarsi in questo o quell’aneddoto della loro super model preferita – Naomi e Azzedine Alaïa, “Freedom” di George Michael, le clip in cui parla Gianni Versace – sono le cose non dette e i pochi silenzi che il montaggio permette a colpire di più. Evangelista che arriva sul set e vede la sua parrucca già pronta ed esclama «Hair is done!»; Cindy, la più imprenditoriale, che racconta di Playboy e MTV; Christy che accetta di “condividere” Calvin Klein con la nuova arrivata, Kate Moss; Naomi che riflette sulla sua condizione di donna nera nel sistema. Oggi che i giovani che discutono di moda su Twitter e TikTok si lamentano spesso di come le modelle più famose, in particolare quelle nate dai social e dalla disponibilità delle loro famiglie (Kendall Jenner, le sorelle Hadid), non siano in grado di “serve” (letteralmente servire, inteso in senso largo come stupire, dare spettacolo) come si dovrebbe, oggi che la moda è in una fase di ritorno al classico per affrontare i tempi duri che si prospettano, oggi che i giornali non sono più la Bibbia di nessuno, quella delle super model sembra un’età dell’oro da guardare con rimpianto e una certa emotività.
Eppure, come tutte le cose nella moda, a un certo punto anche quell’immagine sembrò vecchia, antiquata, inadatta a parlare dei tempi che correvano. La scomparsa delle “personalità” dalla passerella e l’arrivo delle modelle dall’Est Europa è descritta come una sorta di buco nero medievale, ma è stato davvero così? In realtà sono stati tanti i fattori, e molto diversi fra loro, che hanno comportato quei cambiamenti. Intanto la necessità di dar risalto ai soli vestiti di alcuni designer, che volevano grattare via quel glamour per introdurci nuove idee, meno rassicuranti (sì, è stata Miuccia Prada, alla quale si allude ma che non viene mai nominata), quindi la necessità di comprimere i budget, e poi ancora la crisi dell’editoria e il profilarsi di altre, nuove, piattaforme dove si crea il gusto collettivo, infine l’inizio del dominio della finanza sulla moda, che ha spinto alla velocità, all’omologazione anche, alla riproducibilità. L’entrata in scena di Kate Moss, che di fatto le sostituì, ha però segnato anche il fiorire di un’editoria inedita, indipendente, e di un’idea di bellezza meno canonica e più contemporanea, gettando i semi per la ricerca dei personaggi che vediamo oggi su molte passerelle (basti pensare a Balenciaga). Certo nel mezzo si è sacrificato tanto: la diversità dei cast, prima di tutto, completamente sparita dalla discussione fino ai movimenti degli anni Dieci, quindi la possibilità stessa che una ragazza potesse trasformassi in una super model. Carriere sempre più brevi, ricambio sempre più serrato. Non ci sono una nuova Naomi, una nuova Cindy, una nuova Christy, una nuova Linda: ci saranno sempre loro. A loro perdoniamo drammatici interventi chirurgici, improbabili carriere cinematografiche, filantropia un tanto al kg e anche gli eccessi d’ira, basta che questo sia l’ultimo documentario.
In foto: Linda Evangelista, Cindy Crawford, Naomi Campbell e Christy Turlington. Foto courtesy of Apple Tv