Industry | Moda
A Parigi l’idea di una moda rassicurante
Come già a Milano, la stagione appena conclusasi è stata perlopiù pragmatica e visibilmente afflitta dall’incertezza e dalle pressioni del momento storico. Ma la moda è ormai davvero solo lusso?
«I don’t believe in this kind of perfect, polished, beige-angora world, I don’t. I refuse to»: così Demna ha risposto al giornalista di Interview Magazine dopo lo show della scorsa domenica, quando è tornato in passerella con una collezione, un cast e una scenografia che lo rispecchiavano appeno. Dopo la polemica del novembre 2022, quella delle borse orsetto Bdsm che avevano scatenato un “Satanic panic” che puzzava tantissimo di populismo, Demna aveva parlato di ritorno ai vestiti, di artigianalità e silenzio dell’atelier, in una sorta di percorso di contrizione forzata che con questo show sembra essersi finalmente concluso. È tornato con una sfilata molto personale, aperta da sua madre Ella e chiusa da suo marito Loïk Gomez (c’erano anche la critica di moda Cathy Horyn e Amanda Lepore), che ha indossato un abito da sposa ricavato da sette altri abiti, qui rimodellati e ricuciti insieme. Niente di più lontano da quel «beige-angora world» che i social hanno ribattezzato quiet luxury e che, come spiega Jacopo Bedussi sul nuovo numero di Rivista Studio, è un fenomeno complesso. Perché ha a che fare con lo status sociale dell’individuo e con lo stato dei mercati, ma finisce incidentalmente per provocare un certo «spaesamento di classe» di cui non comprendiamo del tutto gli effetti.
Durante l’intervista pre-registrata che ha rilasciato alla stessa Horyn (alcuni hanno potuto ascoltarla in Triennale durante la settimana della moda di Milano, Caterina De Biasio l’ha raccontata qui), Demna aveva già detto che non gli piace per niente il concetto di lusso, anzi che il lusso la moda se l’è mangiata. «Per me la moda ha a che fare con l’identità», ha detto a Vogue Runway, «Non mi interessa molto il lusso, se devo essere onesto. Non voglio dare alla gente un modo per sentirsi ricchi o potenti. Perché il lusso va dall’alto verso il basso mentre io, e questo è stato spesso visto come una provocazione, faccio l’esatto contrario». Allora la sua costruzione di personaggi non passa, non è mai passata, dallo sfoggio della preziosità ma invece dall’upcycling dei materiali, e da una silhouette riconoscibile, che come Margiela gli ha insegnato gioca con gli elementi dei vestiti (la doppia giacca, la scarpa come pochette) e un po’ incute timore, tant’è che il designer ha raccontato che lui e suo marito, in vacanza quest’estate nel sud della Francia, potevano percepire gli sguardi di disapprovazione. Hanno così deciso di vestirsi come dei turisti qualsiasi, ma si sono cambiati in fretta perché non si sentivano loro stessi. Sono tutte riflessioni interessanti, che forse avremmo voluto sentirgli fare subito dopo quell’assurda polemica, ma la moda oggi sembra avere altre preoccupazioni, e Demna lo sa bene. Milano prima, e Parigi poi, hanno ampiamente dimostrato come alla fine di un 2023 stellare per il settore, ci si prepari ora a turbolenze importanti: gli obiettivi, insomma, sono altri.
Anche Pierpaolo Piccioli è voluto tornare sul concetto di artigianalità e quindi lusso, quest’ultimo qualcosa che «per noi ha a che fare con le mani» e con quello che esse possono realizzare, come ha spiegato lui stesso in conferenza stampa. In una delle più convincenti collezioni degli ultimi tempi, Piccioli è ripartito dal ricamo, che però ha sottoposto a un trattamento speciale: «Volevo approcciare l’idea del ricamo in maniera diversa, perché di solito il ricamo è parte dell’abito, mentre con questa tecnica diventa l’abito stesso», racconta. La tecnica di cui parla è l’Altorilievo, che rende il ricamo tridimensionale e di fatto non “giustapposto” all’abito ma elemento indipendente, che sta in piedi da solo, con la pulizia e razionalità che sempre caratterizza il lavoro di Piccioli, che questa volta ha presentato una serie di accessori particolarmente azzeccati, come la nuova VLogo Moon Bag e le Rockstud in un’edita versione alleggerita e molto più contemporanea. La collezione era uno studio sulla nudità, con abiti cortissimi, e fluidità (bellissima l’uscita di Sora Choi con le braccia aperte e l’abito rosso che fluttua) che il Direttore creativo ha voluto ricollegare idealmente al discorso sui corpi delle donne e la libertà del vestirsi, anche alla luce della discussione sulla violenza di genere in Italia dopo i casi di quest’estate. «Sento e leggo i commenti su come si vestono oggi le ragazze e mi fanno orrore», ha detto Piccioli, «Credo che questo possa essere un modo per parlare di corpi e di donne». La sfilata si è tenuta all’interno dell’École des Beaux-Arts di Parigi, in continuità con la collezione maschile che aveva sfilato presso l’Università Statale di Milano lo scorso giugno, ed è stata accompagnata da una performance di FKA Twigs. Anche Valentino è ormai uno di quei marchi dalla struttura complessa che tiene insieme tantissime cose distanti fra loro: dalla Tube Girl, fenomeno di TikTok alla sua consacrazione parigina, a Cher; da Paris Hilton, che continua nel suo eterno revival, alle paparazzate di Kaia Gerber e il fidanzato Austin Butler fuori dallo show fino alla stessa, intensa, Twigs.
Cosa chiediamo a una sfilata oggi? Di intrattenerci, di farci sognare, di raccontare la realtà, di darci degli spunti su come ci vestiremo? Gli addetti ai lavori hanno rilevato come questa stagione abbia portato a compimento i sommovimenti che abbiamo visto crescere nel post Covid: chiusa senza tanti convenevoli l’epoca delle sovversioni, è arrivata quella della ricerca della stabilità, che, si spera, possa essere utile a navigare le incertezze che si prospettano. È stata una stagione, soprattutto a Milano e a Parigi, che ha confermato due sostanziali tendenze: da una parte c’è un’idea di moda concreta e piuttosto minimalista, in molti casi sovrapposta all’idea di lusso “rassicurante”, come lo sono Dior di Maria Grazia Chiuri e Saint Laurent di Anthony Vaccarello, ma anche Hermès, Chanel e, sebbene sempre nel suo modo disturbante, Miu Miu di Miuccia Prada. Dall’altro ci sono le grandi nicchie di influenza, legate a quei designer di culto come Rick Owens, Rei Kawakubo e Jun Takahashi di Undercover, i quali hanno il privilegio, frutto della loro scelta di stare fuori da certe logiche, di essere quelli che sono, e di parlare al loro, di pubblico, invece che a tutti. Ci sono poi alcune eccezioni: ne è un esempio Jonathan Anderson da Loewe che, come Matthieu Blazy da Bottega Veneta, è riuscito a costruirsi un suo universo all’interno di quelle stesse logiche.
Intanto Glenn Martens continua il suo percorso brillante da Y-Project, dove le sue sperimentazioni materiche raggiungono l’apice, mentre Casey Cadwallader, con la sua prima sfilata nel senso tradizionale del termine, sembra aver finalmente iniziato ad allargare l’universo di Mugler oltre le collaborazioni con H&M. A proposito di quest’ultima collezione, divertente la discussione che gli abiti mossi dal ventilatore hanno scatenato sui social, in particolare su Twitter e TikTok: è un trucco di spettacolo, un “gimmick” che fa il verso al glamour tanto rimpianto delle supermodel, oppure è una parte legittima dello show, com’era nel caso dell’ultima collezione di Prada, dove però gli abiti si muovevano con la sola camminata delle modelle? C’è stata infine l’ultima, commovente, sfilata di Sarah Burton da Alexander McQueen, che ha salutato il marchio di cui è stata custode e interprete dopo la scomparsa del suo fondatore e che ha voluto ricordare a tutti cosa ha significato Alexander McQueen. I suoi abiti drammatici che scivolano facilmente nel territorio della couture – così lontani dal minimalismo oggi imperante, che non è il minimalismo eversivo degli anni Novanta – saranno l’eredità pesante che dovrà raccogliere Seán McGirr, appena nominato Direttore creativo. Una nomina che sui social non è stata accolta bene, per tutti quei motivi che negli ultimi anni sembriamo aver dimenticato: e cioè che l’industria della moda, e le idee che le gravitano attorno, è frutto del lavoro di uomini, perlopiù bianchi. Mettere insieme italiani, francesi e georgiani senza tener conto del loro background – come ha fatto 1Granary in un tweet molto ripreso e Rachel Tashjan sul Washington Post in un pezzo in cui denuncia la scarsità di donne in ruoli creativi – può sembrare forzato se non grossolano, ma la verità è che le spinte al rinnovamento degli ultimi anni sono tutte sopite. McGirr sarà sicuramente bravo e merita la sua chance, ma la speranza è che dalla prossima stagione si scelga tutti di stare un po’ meno sicuri.
In apertura: Balenciaga Primavera Estate 2024. Foto courtesy of Balenciaga