Attualità

Sui ringraziamenti

Da chi si sente in dovere di riconoscere la grandezza di Jane Austen ai dimentichi della moglie, Lui sa perché analizza le sezioni ringraziamenti dei libri italiani, terre di sibilline allusioni, pizzini cosmici, frecciate al nulla e vaniloqui ambigui.

di Marco Rossari

C’era una volta il paratesto, ossia ciò che il critico strutturalista Gérard Genette chiamava le «soglie», tutto ciò che sta intorno al contenuto del libro e che accompagna il lettore all’interno delle pagine: copertina, risvolto, dedica, prefazione e via dicendo. Un tempo si trattava di una faccenda innocente, perfino seria: quando un autore classico dedicava il volume a un certo personaggio, estingueva un debito per nulla metaforico. Con il passare degli anni, è diventato il terreno dove esercitare ulteriormente la propria strabordante creatività. Scrittori non solo televisivi che finiscono con il loro faccione in copertina; quarte pseudo-umoristiche; dediche autoreferenziali (tipo quella dell’ultimo romanzo di Isabella Santacroce: sì, «a Isabella Santacroce»); epigrafi con la mail e il numero di telefono da rimorchio accanto a una frase apocalittica di Thomas Bernhard. Gli esempi non si contano. Conosco una persona che in esergo al proprio esordio ha chiesto la mano alla ragazza: nessuno nutriva dubbi sulla buonafede del gesto, ma certo la sfrontatezza non metteva la fanciulla nella disposizione più serena per decidere se accettare o no (alle pubblicazioni, per di più). In tutto questo c’è una zona dove forse l’estro ha trovato terreno ancora più fertile ed è quella, in fondo al libro, dove allignano i famigerati omaggi ad amici e non solo.

“Gratulatoria”, “Nota”, “Explicit” o un più modesto “Ringraziamenti”: in coda, che sia miele o veleno, arriva quasi sempre un corposo elenco di persone (o animali, come vedremo) da ringraziare o gratificare o ingraziarsi. Un cahier di benedolenze che sta diventando un genere a sé stante, tanto che gli scrittori Carolina Cutolo e Sergio Garufi hanno pensato bene di raccoglierne una scelta in Lui sa perché. Fenomenologia dei ringraziamenti letterari (con una prefazione di Stefano Bartezzaghi e un contributo di Umberto Eco, Isbn, 208 pp., 14 €), che abbraccia la narrativa italiana degli ultimi vent’anni. Da un campione tutto sommato esiguo, emerge uno spaccato eloquente di un angolo preposto alla gratitudine e degenerato in un catalogo di vanità e nonsense involontariamente comici, da cui non si salva nessuno – nemmeno gli autori, che in fondo al testo non potevano non ripercorrere ogni tipologia del catalogo, anche per farsi perdonare di avere ridicolizzato mezza editoria italiana.

Emerge uno spaccato eloquente di un angolo preposto alla gratitudine e degenerato in un catalogo di vanità e nonsense involontariamente comici.

E quindi – in una tassonomia spietata – ecco quelli che spacciano per riconoscenza le proprie capacità, come Luca di Fulvio: «Grazie a Carla Vangelista, non solo perché come sempre alcuni spunti e nodi fondamentali di questa storia sono frutto del suo straordinario talento creativo, ma perché se sono uno scrittore è merito suo» (il corsivo è mio); quelli che mettono le mani avanti, come Bruno Arpaia: «Lo so, non se ne può più degli autori che alla fine dei loro libri riempiono pagine su pagine per ringraziare colui o colei che ha fatto nascere la scintilla dell’idea per il romanzo, passando dalla bibliotecaria che li ha assistiti amorevolmente al gatto che si è sistemato sulle loro gambe nelle lunghe notti insonni trascorse al computer, per finire poi, immancabilmente, con i ringraziamenti a moglie, marito, compagno, compagna senza il cui appoggio e la cui comprensione queste pagine eccetera eccetera. Ma mettetevi nei miei panni…»; quelli che si tolgono poco signorilmente i sassolini dalle scarpe, come Alessandro D’Avenia: «Ringrazio anche chi ha criticato il mio primo libro: mi ha aiutato, senza saperlo, a non illudermi che il successo possa bastare a rendere felice una persona»; quelli che si lanciano in uno spiegone non richiesto, come Giuseppina Torregrossa: «Questo libro è nato in una di quelle sere feconde della mite primavera palermitana. Tra siepi di gelsomino e plumbago, passeggiando per una via Libertà semideserta, l’idea si è affacciata quasi timidamente. La storia ha preso corpo nell’assolata terrazza di villa Palamara, tra un biancomangiare e una granita di limone. Il romanzo si è poi dipanato nello studiolo di casa mia, tra un pranzo e l’altro, frettolosamente cucinati per non lasciar del tutto digiuni i miei figli» (quasi un romanzo nel romanzo); quelli che ringraziano il vip, tanto simili alle foto alle pareti della pizzeria, come Luca Bianchini: «Infine, grazie a Domenico (Dolce) e a Stefano (Gabbana) per avermi fatto incontrare Madonna (Ciccone). Non lo dimenticherò» (le parentesi sono dell’autore); quelli che parlano con i morti, come Erica Bertelegni: «Un grazie all’immortale Jane Austen» (sarà contenta di saperlo); e quelli che francescanamente si rivolgono agli animali, come Paola Soriga: «Ai cani che mi hanno consolato e rallegrato, e a qualche gatto». Tra tutti, resta impagabile Sandro Veronesi che nel 2007 ringrazia la moglie «per averlo sopportato» e nel 2011, non si sa se per distrazione o sublime autoironia, la ringrazia di nuovo ma «non per avermi sopportato, come dicono di solito quelli che ringraziano la moglie».

Quasi ogni volta, al momento della stampa (anche se spesso, e chi riceve manoscritti lo sa, i ringraziamenti – come deliri notturni sui premi che vinceremo, sulle recensioni positive che avremo – vengono infaustamente compilati ancora prima di avere un contratto e non c’è cosa che mena più gramo), lo scrittore per qualche motivo perde l’occasione di tacere e non dare a vedere tutta l’ansia che l’ha accompagnato nella stesura del testo e tutto il sollievo che lo euforizza ora, in attesa dei primi rendiconti. Forse perché sul finale si abbassa la guardia o forse perché proprio lì – presuntuosamente – lo scrittore crede di prendere davvero parola dopo quella superflua digressione chiamata “testo”, fatto sta che in quelle poche righe si squadernano sibilline allusioni (da cui il titolo della raccolta, uno dei tic più frequenti), pizzini cosmici, frecciate al nulla, orgasmici sottintesi, vaniloqui ambigui. Come il superstizioso ex voto con il quale un tempo si ringraziava iddio per la grazia ricevuta, ecco il grido d’esultanza scomposta: ho vinto, grazie a tutti, sto per pubblicare con un editore di Manerbio e niente sarà più come prima. Anzi, sono sopravvissuto solo io per ringraziarvi, perché pubblicare è scamparla, uscire a riveder le stelline di Anobii, distinguersi. “Grazie” in questo caso vuole dire anche “ce l’ho fatta” e, a seconda del destinatario, “non sono più come te” oppure “ora sono proprio come te, ipocrita scrittore, mon semblable”.

“Grazie” in questo caso vuole dire anche “ce l’ho fatta” e, a seconda del destinatario, “non sono più come te” oppure “ora sono proprio come te, ipocrita scrittore, mon semblable”.

Taluni benedicono editor, correttore di bozze, ufficio stampa, direttore editoriale e magazziniere, nella stramba convinzione che questi lo facciano per filantropia e non per lavoro. Altri colgono l’occasione per rievocare insegnanti da libro Cuore ormai in pensione e forse imbarazzati da quegli alunni petulanti (inoltre la consecutio fa ancora acqua). I più spericolati si lanciano in monologhi che trasformano Carmelo Bene in un palloso burocrate: «Ringrazio questo dono incredibile, questo fastello squillante e favoloso che nei prati del mio cervello senza sosta ballonzola». Tutto quello che avresti fatto bene a tenere per te – in una mail, in un sms, forse meglio ancora in una conversazione a voce (almeno, cimici permettendo, non restano tracce) – diventa invece autodenuncia delle proprie velleità, esposizione del tronfio sé al pubblico ludibrio: un pruritino dolcissimo che può finalmente essere grattato. Nell’inventario stilato da Cutolo-Garufi c’è tutta la vanità esilarante di chi scrive, al di là dell’esito finale: i ringraziamenti sono una livella che appaia il premio Strega allo scribacchino autopubblicato, lo sgobbone ignoto al premio Nobel. Teneramente idioti, fragili, pomposi, fatui, a volte perfino capaci di sincera riconoscenza, gli scrittori ne escono come esseri umani.

Grazie al cielo.