Attualità
Troppe Stories
Facebook prova a imitare Snapchat ovunque, e su Instagram sembra esserci riuscito. Ma le Stories sono davvero la rivoluzione che cambierà i social network?
Una delle cose più divertenti degli ultimi giorni è un fotomontaggio di un utente spagnolo di Twitter, @ioaan, che lo scorso 21 marzo ha inserito una serie di piccoli cerchi dello stesso diametro con le immagini del profilo dei suoi amici nella parte superiore di una schermata di Microsoft Excel, corredando il falso screenshot di un messaggio in caps lock: «WOW ME ENCANTA EXCEL STORIES». Basterebbe questo scherzo particolarmente riuscito a parlare del fenomeno del momento, cioè la diffusione capillare delle Stories, il formato popolarizzato da Snapchat e negli ultimi tempi adottato sempre più freneticamente dalla maggior parte dei principali social network: oggi quegli stessi cerchiolini fanno parte della quotidianità di Instagram, WhatsApp e Facebook, e se toccati mostrano aggiornamenti temporanei, colorati, buffi e destinati a sparire per sempre dopo ventiquattr’ore. Spesso sono pochi secondi di serate e concerti, panoramiche silenziose, fotografie di tavoli di colazioni e cene, selfie più o meno seriosi.
Il peccato originale di Snapchat – non aver accettato l’offerta di varcare i cancelli dorati dell’impero di Mark Zuckerberg – è stato accompagnato dal suo successo insperato: mentre qui da noi i media insistono nell’inquadrarla come l’app preferita dai giovanissimi (dato di fatto incontrovertibile, peraltro), il social di Evan Spiegel è l’unico vero competitor di Facebook, è approdato in Borsa e vale una cifra vicina ai 28 miliardi di dollari. E se non si può comprare, quantomeno si può imitare, deve aver pensato un bel giorno qualcuno a Palo Alto: da allora il mondo dei social network si è conformato a un manierismo forzato fatto di effetti loop, filtri più e meno ironici e fotografie adorne di emoji e scritte a tinte pastello. In questo momento, ad esempio, su Instagram Diego stringe l’inquadratura di un breve video con protagonista il pollo alle olive che sta cucinando; su Facebook, Barbara posta un’immagine del suo brioches-e-cappuccino in una pasticceria di Milano, sormontata dall’emoji “Smiling face with sunglasses”, il Gianluca Vacchi delle emoji; su WhatsApp, nello stesso momento, Martina condivide lo scatto di un litorale tropicale per sottolineare che mancano tre giorni alla sua partenza (il contesto non fornisce informazioni precise sulla sua meta). #storieseverywhere, come da hashtag parodistico molto diffuso in queste ore.
Il primo dato, quello più immediato, che si può arguire dalla pandemia delle Stories è una crisi di un modello di social network che potremmo definire “tradizionale”, quello con la timeline che ordina i contenuti in base a complicatissimi e talvolta sadici algoritmi, e dotato di server-archivio infiniti e variamente ricercabili. Le Stories invece hanno la vita di una farfalla, non cercano le interazioni – anzi, in alcuni casi non le prevedono neppure – né di generare il “buzz” grazie a cui si sostentano le piattaforme che le ospitano, non possono essere ricondivise e, nella maggior parte dei casi, sono molto più divertenti da produrre che da vedere. Forse Facebook si è accorto della sua natura mortale, e di conseguenza sta ammainando la bandiera dal pennone, convinto di dover aggiustare la rotta per non soccombere prima del tempo? «Il modo in cui le persone creano contenuto sta cambiando: dal testo alle foto e ai video, e questo a sua volta sta cambiando come lo condividono fra di loro e come interagiscono online», ha detto a The Verge Connor Hayes, product manager della sezione Stories a Palo Alto.