Attualità

L’insostenibile leggerezza del trolley

Breve storia di un'invenzione geniale (il bagaglio a rotelle) raccontata da uno che non ce l'ha fatta.

di Cristiano de Majo

Non ho mai avuto un trolley e me ne compiaccio fastidiosamente come se fosse una specie di vezzo, qualcosa di simile al compiacimento di chi non ha mai avuto uno smartphone, quello che mostra orgoglioso il suo Nokia 3310 e dice: “Non si rompe mai e la batteria dura una settimana”. Sì, certo, ci sono oggetti che ti migliorano la vita, ma ci sono anche persone che non vogliono che qualcosa migliori la loro vita, sotto certi aspetti.

In realtà ho delle ragioni molto specifiche dalla mia parte. Trovo innanzitutto che i trolley siano degli oggetti brutti da vedere, specie se paragonati ai borsoni, in tela o in pelle, che si portano a tracolla. E poi: fanno rumore; se sono troppo pieni, non stanno dritti in piedi e collassano a terra; c’è il problema delle scale (una volta ho aiutato una fidanzata a portare un trolley per le strade di Venezia affrontando il problema dei ponti, ed è stato un incubo); se si viaggia in macchina, il trolley è il bagaglio più scomodo del mondo, non essendo adattabile agli angoli acuti del portabagagli; in più, in treno o in aereo, c’è ogni volta una signora che ha bisogno d’aiuto per portarlo dal pavimento ai vani portaborse, sempre troppo in alto per l’altezza media della popolazione italiana, con la signora incapace di prodursi in quel gesto da sollevatore pesi, che si risolve nel successivo, complicato gesto di incastrare il bagaglio nello spazio disponibile e, guarda caso, sono io, fiero nemico della valigia con le rotelle, a causa della mia altezza, a essere il soggetto prescelto per aiutare la viaggiatrice in difficoltà. Questo ci dice chiaramente quanto il trolley sia illusorio e fallace, dando al viaggiatore la possibilità di portarsi appresso un peso molto superiore a quello potrebbe sopportare; ci si affida alle rotelle e, quando proprio c’è bisogno, al giovanotto di turno.

Ovvio che tutto questo è niente rispetto alle fatiche titaniche che chi ha una coscienza pre-anni ’90 serba nella memoria. Padri da soma con due borsoni per spalla e i segni violacei sulle spalle da curare in albergo con il lasonil. Oppure interrail fatti con il Ferrino (o l’Invicta) d’ordinanza, quello con le stecche d’acciaio, che ti graffiavano le gambe, e che non ti toglievi mai, perché rimetterselo era troppo faticoso – spesso avevi bisogno di un compagno che te lo tenesse per farti infilare le bretelle, come un maggiordomo con il cappotto dell’ospite – e così stavi con lo zaino anche da seduto, con la schiena innaturalmente dritta e l’acciaio che premeva sulle costole per un tempo ridicolo.

Ecco quindi che, anche da nemico del trolley, riconosco la sua genialità. Ammetto cioè, anche se resisto alla sua adozione, che si è trattata di una disruption riuscita con merito. Oggi tutti usano il trolley, anche gli esteti più incalliti, il vantaggio è incalcolabilmente troppo. Al punto che il Guardian, qualche anno fa si chiedeva: visto che la ruota e il sacco sono due fondamentali invenzioni millenarie, com’è possibile che nessuno fino ai giorni nostri abbia mai pensato di unirle?

Case Capacity

La storia del trolley, come tutte le storie di successo, è interessantissima e dolorosa. Come tutte le storie di successo, c’è qualcuno che fa da apripista ma non si prende il merito. Costui è Bernard D. Sadow, dirigente della Massachusetts company (produttrice di borse e soprabiti), che nel 1970, tornando da una vacanza ai Caraibi con la famiglia, mentre si trascinava in aeroporto due pesantissime valigie, vide un operaio passargli davanti spingendo un carrello con sopra un macchinario. Fu allora che ebbe l’illuminazione e disse alla moglie: «Ecco cosa serve alle valigie». Tornò in ufficio, incollò quattro rotelle sotto una borsone e registrò il brevetto con la dicitura “Rolling Luggage”.

Interpellato dal New York Times anni fa, il signor Sadow (morto nel 2011) manifestava tutta la sua amarezza: «Le persone non accettano i cambiamenti di buon grado». L’invenzione infatti ci mise parecchio per affermarsi, almeno alcuni anni, fino a quando il grande magazzino Macy’s decise di metterlo in vendita promuovendolo come “il bagaglio che scivola”. Ma, ammettiamolo, l’invenzione non era perfetta. Ricordate quelle grandi valigie rigide con manici a molla e piccolissime rotelle? Quelle che si ribaltavano in continuazione?

Alla fine il trolley per come lo conosciamo venne inventato nel 1987 da un pilota di 747 della Northwest Airlines. Se avete visto This Must Be the Place, lo avete anche visto interpretato (da Harry Dean Stanton). Si chiama Robert Plath ed è lo Steve Jobs del turismo. La sua esigenza iniziale fu di rispondere ai bisogni di una nicchia molto ristretta, quella dell’equipaggio di un aereo, gente che macina chilometri negli aeroporti trascinandosi sempre qualcosa dietro. “Perché quattro rotelle piccole e non due grandi?”, si disse e poi concepì la genialata della maniglia telescopica. Chiamò tutto questo Rollaboard (che è il modo in cui il trolley si chiama veramente in America), si licenziò da pilota e fondò la Travelpro International, che è attualmente una delle maggiori aziende produttrici di valigie d’America.

Quest’estate, mentre con così poca sofferenza trascinerete i vostri bagagli, rivolgetegli un pensiero di gratitudine. Non tutte le disruption vengono per nuocere. E non si sono visti in questi anni nemici del trolley in protesta per la riduzione della forza lavoro umana nel settore del facchinaggio. Parafrasando Sadow, possiamo con sano distacco “accettare i cambiamenti di buon grado”, anche se non ci riguardano.