Attualità

Contro Spongebob

Che i cartoni animati di oggi, simil-educativi e fatti negli Usa, stiano diseducando i bambini allo story-telling? Erano meglio i giapponesi?

di Arianna Giorgia Bonazzi

[Questa è la seconda puntata di una riflessione in due parti sul capovolgimento antropologico che separa i nati negli anni Ottanta dai bambini di oggi: ovvero il tramonto dei melodramma a cartone animato giapponesi, a favore dei cartoni animati americani e degli episodi autoconclusivi. La prima puntata qui]

L’indebolimento, fino all’annullamento, del legame tra una puntata e l’altra del cartone è un fenomeno paradossale, se considerato rispetto al rafforzamento dello stesso legame tra le puntate degli show per adulti, il cui filo conduttore è andato ispessendosi persino in generi seriali tradizionalmente a episodi autoconclusivi, come le comedy o i crime.

In questo modo, rendendo autonome le puntate di serie il cui orario di visione è totalmente imprevedibile, i prodotti per l’infanzia hanno dovuto ridisegnarsi per supplire alle esigenze di bambini “digitali” e impegnati, in grado di fruire i canali tematici a loro dedicati solo in maniera discontinua. Anche se l’impedimento logistico per cui sarebbe impossibile confezionare un prodotto seriale forte per bambini è spiegato, a volte – sarà coda di paglia – sembra quasi che i prodotti per l’infanzia, abbiano mutato pelle per andare incontro a un tipo diverso, più “scarso”, diattenzione; a un’incapacità, oltre che di abitudine, di raccoglimento e di pensiero prolungato.

Sono questi tutti cartoni per bambini americani a cui è stato diagnosticata a tappeto una patologia dell’attenzione alla moda, e che sono stati curati a botte di Ritalin? Un po’.

La rovesciata di Tom Becker, insomma, non è più sospesa nel cielo di un mondo parallelo per ventiquattr’ore, e il bambino teledipendente (che l’awareness dei genitori ha decimato) non è più appeso con un filo della sua giovane mente multitasking al finale della puntata di ieri.

Così, in una realtà dove gli adulti ex-spettatori di anime sono catturati in grandi narrazioni seriali come romanzi d’appendice contemporanei – e per davvero si alzano al mattino pensando che tra un mese comincia la nuova stagione di Game of thrones – i loro figli, che gli stessi credono di far tanto svegli limitandogli i minuti di tivù, sono costretti a nutrirsi di soli frammenti, magari esilaranti, ma senza consequenzialità.

E per questa ragione, il massimo che può concludere un bambino, costretto a guardare mezz’ora di tv al giorno, magari su canali diversi e a ore sempre diverse è: il sole è sorto, e il bimbo è andato a pesca.

Un tempo, invece, la mente del piccolo spettatore rimaneva sempre accesa, in un angolino di sé, a interrogarsi su quali sarebbero state le conseguenze dell’atto riprovevole di un personaggio veramente tragico, perché inserito in un dramma complesso, e la cui psicologia non doveva manifestarsi in una solo visione estemporanea, ma aveva la possibilità di approfondirsi puntata dopo puntata, in un respiro che potremmo definire epico.

Noi nuovi genitori stitici di telecomando e ironici amanti di Spongebob avevamo, nel nostro carnet, due fratelli di sangue in lotta per l’amore della sorellastra Georgie (non palpitavamo, noi, per questo?), e un’infermiera della Grande Guerra dal nome rigorosamente diabetico, Candy, con una storia d’amore tormentata, un passato di orfana e un paio di suicidi di rivali amorose sulla coscienza, e sempre con quella maledetta strana idea giapponese di cosa fosse una bella e giovane infermiera americana negli anni Venti: fioccone galattico e codini ossigenati. Avevamo, anche, una moschettiera in incognito alla corte di Francia, non affatto lesbica, ma che desiderava avere successo in un campo prettamente maschile. E adesso abbiamo una cretinetta che ogni giorno apre l’armadio e si fa dei trip travestendosi da pompiere o da fattore; e una spugna marina maschio che si abbronza artificialmente per poter entrare a una festa per super-abbronzati.

Accendiamo la televisione nei dieci minuti che ci servono a riscaldare la cena e apparecchiare e chi s’è visto s’è visto: dieci minuti non possono fargli niente, se noi ci passavamo i pomeriggi interi.

Parlo di Spongebob, una produzione americana che secondo alcuni studi, sempre americani, rallenta i riflessi dei bambini per alcuni minuti dopo la visione più di qualsiasi altro cartone animato, ma di cui noi, consumati esperti di comunicazione apprezziamo la comicità surreale. Certo, per diventare i saputi amanti di nonsense che siamo, abbiamo prima dovuto piangere le nostre brave lacrime di sangue con Candy Candy e Pollyanna, ma ormai chi ci pensa. Accendiamo la televisione nei dieci minuti che ci servono a riscaldare la cena e apparecchiare e chi s’è visto s’è visto: dieci minuti non possono fargli niente, se noi ci passavamo i pomeriggi interi. Un altro grande cavallo di battaglia dei genitori progressisti contemporanei e l’inglese Peppa Pig, un cartone a detta loro esilarante, o meglio simpatico, di una famigliola classica di quattro maialini antropomorfi, di cui la secondogenita, Peppa, è appunto protagonista. Queste mamme dal chiaro genoma di Pollyanna dichiarano di trovare il cartone simpatico perché i personaggi, salvo festeggiare compleanni e supplire alle normali funzioni vitali di una famiglia (struttura interessante per gli spettatori piccolissimi), in più ruttano, grugniscono e si rotolano nel fango. Cosa che fa sentire la mamma nata negli anni Ottanta un po’ progressista – circa come io mi sentivo di mondo guardando il cartone sulla schiavitù nel ‘92.

Ma vorrei prendere in analisi la parte “intelligente”, ovvero educational, di questi nuovi cartoni – non si dica che gli autori non si siano confrontati con dei pedagoghi d’eccezione prima di passare alla fase di scrittura. La sfida, in questo caso, è offrire dei contenuti di qualità, pur nell’impossibilità quasi totale di far scaturire una crescita morale e intellettuale dal semplice dispiegarsi narrativo, come in ogni narrazione di un certo respiro.

Manny Tuttofare – tarocco americano dell’originale inglese Bob Aggiustatutto – ha sempre qualche rubinetto da riparare, e Dotty è una dottoressa che si occupa di curare i giocattoli di pelouche (e ivi scattano tensione e evoluzione narrativa) mentre nella Casa di Topolino della Disney ci si pongono quotidianamente domande del tipo: per rasare il prato mi servirà un triangolo, un pettine o un tosaerba?

La conclusione massima che il bambino può trarre dalla giornata di Peppa Pig o del canadese Caillou è del tipo Humiano: ogni giorno, probabilmente, sorgerà il sole.

Questi sono esempi arbitrari di come la castrazione obbligata del meccanismo seriale conduce gli autori dei nuovi cartoni a far coincidere sia lo schema narrativo che gli eventuali “insegnamenti” in una specie di problem solving ingegneristico minimo (la riparazione e la guarigione come crescita, e la scelta dello strumento giusto per la riparazione come bivio esistenziale). Su un piano filosofico, la conclusione massima che il bambino può trarre dalla giornata di Peppa Pig o del canadese Caillou, un bimbo dell’asilo inserito nel classico schema mamma-papà-sorellina e che ogni giorno si meraviglia per una nuova piccola scoperta, tranne che della sua buffa calvizie, è del tipo Humiano: ogni giorno, probabilmente, sorgerà il sole. Rintraccio il capostipite di queste serie minimal per bimbi in età prescolare nello svizzero Pingu, che perlomeno era sperimentale sotto due aspetti: quello del linguaggio, eliminato del tutto e sintetizzato in semplici versi eloquenti, e della tecnica, una stopmotion su mockup d’argilla.

Gli esempi sopra citati sono tutti tarati su un pubblico molto giovane, e si potrebbe pensare che è questo, più che la serialità, il vero limite di tali narrazioni. In effetti, ai nostri tempi le animazioni per piccolissimi scarseggiavano, rispetto a oggi, ma voglio dimostrare che non è nemmeno questo il punto.

Tra i cartoni per i più grandi, abbiamo l’esempio di maggior successo nel già citato di Spongebob, una creatura spumeggiante e sostanzialmente amorale, il cui affresco di originalità narrativa si compone al più di tante micro-trovate, come il nome della città in cui la storia è ambientata (Bikini Bottom: il pezzo sotto del bikini), l’identità stravagante dei personaggi (una stella marina obesa, uno scoiattolo scienziato dentro una tuta di palombaro) e la loro caratterizzazione (Spongebob è diverso dai suoi genitori perché è quadrato, Squiddy suona il clarinetto, la lumaca di mare fa miao). Uno dei punti fissi attorno a cui nuota la vicenda è il fast food sottomarino Krusty Krab, con il suo panino tipico dalla ricetta segretissima e l’avaro proprietario. Il protagonista Spongebob è sempre spensierato, e le zone oscure della sua personalità non ineriscono al suo carattere ma al massimo allo stato d’animo, e sono noia e fastidio, né è sviluppata l’emotività dei suoi compagni. Gli episodi sono tutti autoconclusivi.

Oggi, complice anche il linguaggio dei reality, sono i personaggi a rivolgersi direttamente al bambino, chiedendogli di portare a termine alcuni semplici gesti mimetici a quelli del protagonista, per aiutarlo a superare un ostacolo o combattere un mostro.

I trentenni, genitori o meno, amano l’irriverenza e la strafottenza narrativa di questa serie strizza-occhio, ma il dubbio è che ai bambini serva un passaggio narrativo intermedio prima di arrivare al nonsense e allo spezzone, anche se forse l’idea generale è che ai nativi digitali possa essere servito direttamente l’ultimo piatto del pasto. Nei meccanismi educational e partecipativi dei cartoni diretti sia ai piccolissimi che ai bambini delle elementari rientra sempre più spesso l’interazione derivante dal linguaggio del videogame. Se negli anni Novanta, sotto l’impero dei Pokemon, questa contaminazione col videogioco si verificava perloppiù attraverso l’acquisto di giochi di carte, tramite i quali le azioni del cartone potevano prolungarsi all’esterno dei confini televisivi, oggi, complice anche il linguaggio dei reality, sono i personaggi dei cartoni a rivolgersi direttamente al bambino, chiedendogli di alzarsi dal divano e portare a termine alcuni semplici gesti mimetici a quelli del protagonista, per aiutarlo a superare un ostacolo o combattere un mostro. Cosa che a volte ci porta a dubitare dell’intelligenza dei nostri figli, se, piccolissimi, cercano di interagire in maniera diretta coi loro ingannevoli eroi.

Nel Favoloso mondo di Bo, l’incalzante e scatenata Bo chiede ai bambini di portarsi nella loro Bo-zona per eseguire dei balletti speculari ai suoi, aiutandola così a caricarsi di energia, aprire porte o altro. In questi frangenti, Bo assume l’identità inquietante di una personal trainer che costringe i bambini a fare le flessioni sul tappeto, convinti – unico svantaggio rispetto agli adulti – di essere visti dalla loro prof di ginnastica, e di poterla deludere mandando in fumo l’avventura.

In Dora l’Esploratrice, la piccola boyscout protagonista, non si accontenta di torturare gli spettatori pretendendo il loro aiuto nell’avventura del giorno, ma si accanisce anche a insegnargli l’inglese – nella versione originale lo spagnolo.

Nel disneyano Jake e i pirati dell’isola che non c’è, ultra-contemporaneo spin-off del classico Peter Pan, la piratessa buona e rosa Izzy ripete due puntate sì e una no: “Ops, devo volare, cosa mi servirà?” e i bambini vagamente fidelizzati rispondono come se la tipa si trovasse nel loro salotto: “la polvere magica” … “come nella puntata precedente, razza d’idiota”, aggiungo io tra me e me. Al termine di ogni missione, i tre piratucci vincono una serie variabile di gettoni d’oro che si trovano sospesi e rotanti nell’aria, proprio come quelli che si acchiappano scorrazzando nei videogiochi arcade, e invitano i bambini a contarli con loro.

I genitori che amano questa serie e ne acquistano volentieri dvd e merchandising sostengono che è più “vicina” ai bambini della versione Disney degli anni Cinquanta, in cui il padre burbero se ne va in giro declamando, nel doppiaggio italiano più recente, qualcosa come: “per dinci bacco, dove sono i miei gemelli”, e concordo sul fatto che l’adattamento sia nella maggior parte dei casi qualcosa di prezioso, di servibile, di “non-fossilizzante.”

Quello che preoccupa è che la nuova fidelizzazione per canali (Cartoonito compie gli anni / Cartoonito il primo canale tutto mio) anziché per programmi, non incoraggi il bambino a ricordare una trama per più di un giorno, a collegare due episodi, e a individuare una consequenzialità pur se all’interno del meccanismo rassicurante della ripetitività. In questo modo, il bambino che studierà sull’ipertesto, si abitua paradossalmente a veder rinascere ogni giorno i suoi personaggi in un vuoto quasi assoluto di riferimenti e di memoria, brancolando nel quale, i suddetti personaggi (sempre più spesso oggetti inanimati, nemmeno bestiole, ma camion, giocattoli e attrezzi parlanti) non svolgono alcuna funzione ulteriore a quella immanente. In questo contesto di scarsa abitudine a creare collegamenti tra elementi di insiemi diversi, mi chiedo spesso chi sono i destinatari del sottile citazionismo di certi cartoni, come Rango, infarcito di riferimenti western, o l’ottimo Fantagenitori, una specie di Incredibili a puntate, con una trama straordinariamente complessa e alcuni riferimenti espliciti a Ritorno al futuro di Zemeckis.

Il massimo che si può dire, dei personaggi dei nuovi cartoons, sono proposizioni come “è affidabile”, “è pazzerello”. Tali creature occasionali si possono definire cioè, un po’ come accade nei profili online, attraverso i loro gusti (Sponge Bob mangia il panino Crabby Patty) le loro azioni più ripetitive e dunque più probabili (tirare fuori la polverina magica, combinare un pasticcio perché si è pasticcioni, o sfoderare la mappa del tesoro perché si è gli addetti alla mappa del tesoro).

Pensando a questa forma parziale di serialità, creata in parte anche per soddisfare un target più ampio di quello degli anni Ottanta (bambini piccoli, neonati, perfino bilingui) mi sono venuti in mente un paio di esempi vecchi di cartoni a episodi autoconclusivi adatti anche ai piccolissimi: la nostrana Pimpa e il belga Barbapapa. Per qualche motivo, mi sono sembrati cartoni più “intelligenti”, sebbene privi di serialità forte.

Il tipo di assurdo della Pimpa è diverso da quello di Spongebob, lungi dall’essere deleterio per l’apprendimento delle basi della fisica e della biologia, è un assurdo che elasticizza la mente sprigionando la fantasia sin dalla prima infanzia.

Sicuramente Pimpa e soprattutto Barbapapa (un po’ come i vecchi Puffi, sempre belgi) hanno una forte filosofia di fondo, quella ecologista, che li lega al contesto storico preciso entro il quale hanno preso vita. Ma questo non basta. Ci ho riflettuto ancora, e mi è sembrato che quei vecchi cartoni, peraltro inseriti con successo nella programmazione attuale a canali tematici, avessero trovato un altrove temporale dove produrre la loro complessità.

Come prima cosa, di certo la Pimpa era un fumetto portato in video, e di conseguenza siamo sempre stati tutti più disposti a guardarlo come un giornalino aperto a caso, e a trattarlo appunto come un fumetto, cioè un racconto autoconcluso. Come seconda cosa, il tipo di assurdo della Pimpa è un assurdo diverso da quello di Spongebob, difatti, lungi dall’essere deleterio per l’apprendimento delle basi della fisica e della biologia, è un assurdo che elasticizza la mente sprigionando la fantasia sin dalla prima infanzia.

Ad esempio, in un episodio di Pimpa che l’adulto di solito trova particolarmente lisergico, un panino lievitato prende vita e va a dormire nel letto dell’Armando. In un altro episodio quasi tendenzioso, l’orto delle carote viene presentato sfacciatamente come una sorta di miniera dove dei minatori sotterranei martellano questi specie di lingotti arancio per dargli forma di carote. Piuttosto stupendo.

Ma mi sono domandata: perché questo è più accettabile? Perché, io posso dubitare che un bambino non imparerà a conoscere un triangolo senza rispondere ai quesiti demenziali di Topolino, mentre non ho nessun dubbio che un bambino che guarda la Pimpa imparerà che la carota è un ortaggio, ma conserverà la libertà mentale (una specie d’ironia) di fingere, al bisogno, che ci sia un popolo intelligente sotterraneo che scolpisce i bulbi, e che, se li strappiamo dalla terra prima del tempo, urli: “Ehi tu, non ho finito!”?

Dunque, in quale modo un cartone non seriale può staccarsi dalla bidimensionalità cronologica che lo definisce? Mi è parso che l’aderenza al linguaggio del fumetto (libertà, humour, non consequenzialità tra strisce) più che a quello del videogioco (percorso ripetibile con diversi gradi di libertà limitati, interattività) offra al piccolo spettatore saltuario maggiore possibilità di gioco narrativo, e quindi di attivazione mentale maggiore.

Ambedue i linguaggi, fumetto e videogame, esistono fuori da temporalità e spazialità strette, le quali però nei casi degli show più riusciti, sono ritematizzate con gli stratagemmi del viaggio nello spazio (Toot e Paddle è un nuovissimo cartone prodotto da National Geographic in cui due porcellini viaggiano alla scoperta del mondo senza rompere le scatole al loro pubblico con domande o esercizi ginnici) o le stagioni (Pimpa), anziché lo sfondo fisso in un clima perennemente soleggiato e primaverile (l’albero cavo di Insieme a Rosie, o la collina fiorita e illuminata da un sole dal volto grinzoso di neonato, nell’ambito del più alienante di questi esemplari: i Teletubbies della BBC, di fine anni Novanta).

Il cartone autoconclusivo riuscito, servendosi dei meccanismo spiazzanti, ma arguti, del fumetto, ha una maggiore capacità di far staccare i suoi personaggi dal tratteggio bidimensionale a cui sono condannati, producendo significato e profondità non attraverso le scelte contingenti del protagonista (che, nelle narrazioni-videogame, non vanno oltre imboccare il ramo di un bivio, o a saltare un fossato), ma per accumulazione di atteggiamenti. Così, mentre i pirati di Jake reagiscono sempre allo stesso modo, perché il fifone può solo avere paura, e perché le scelte davanti a cui sono posti sono sempre dei bivi da videogioco, diversamente, impariamo a conoscere Pimpa attraverso ogni suo atteggiamento, perché Pimpa ha la libertà narrativa di fuggire a volte il pericolo, e a volte di cercarlo; altre volte, di passare la notte in bianco inseguendo una stella cadente su un razzo impolverato, e altre volte ancora di non riuscire ad alzarsi perché è autunno e si sente come una foglia secca.