Attualità

Ah, i cartoni giapponesi

Le rovesciate di Holly, tragedie di orfani e figli di minatori. Una generazione che godeva, tra sadismo e romanticismo, per due ore al giorno.

di Arianna Giorgia Bonazzi

[Questa è la prima puntata di una riflessione in due parti sul capovolgimento antropologico che separa i nati negli anni Ottanta dai bambini di oggi: ovvero il tramonto dei melodramma a cartone animato giapponesi, a favore dei cartoni animati americani e degli episodi autoconclusivi.]

Essere piccoli negli anni Ottanta significava, tra le altre cose, muoversi nei palinsesti con l’istinto di piccoli animali. Non era difficilissimo: sostanzialmente, i canali tra cui sapersi districare erano meno di dieci, tre pubblici, tre privati, più Telemontecarlo (che, per quanto mi riguardava, era sintonizzato sul sette), e altri due o tre canali locali, variabili da regione a regione, che trasmettevano i cartoni giapponesi alternativi alla selezione Mediaset, come l’Uomo TigreConan ragazzo del futuro.

I cartoni, un po’ come le partite di calcio, passavano, comunque, solo a orari determinati e molto noti a tutta la comunità infantile e teledipendente del tempo. Nel mio caso, i canali consentiti erano per qualche ragione solamente quelli Mediaset, e dunque memorizzare l’ordine delle trasmissioni e modellarvi attorno la mia noiosissima, quasi tombale giornata di figlia unica era ancora più facile.

Adesso, sono sicuramente molto meno i bambini a cui capita di passare il pomeriggio fuori dalle strutture scolastiche o dalle palestre, e tra i rimanenti, sono ancor meno quelli a cui è permesso di modellare la propria giornata sul dosso di una televisione così schizoide da impedire a chiunque di accordarvi il proprio ritmo circadiano – e poi, voglio dire, quale genitore istruito allevato negli anni Ottanta, e che abbia sentito tante volte dire che l’Italia contemporanea è il risultato della programmazione Mediaset di allora, consentirebbe al proprio bambino di guardare più di 5 minuti di tivù al giorno? Beh, ad esempio io, perché penso che, per quanto rincretinente possa essere guardare la tivù tout court, guardarla per cinque minuti dia un effetto di nonsense e frammentarietà dell’esperienza superiore al guardarla per un’ora, con tanto di pubblicità martellanti di giocattoli e prodotti di ogni tipo.

Ma tornando al numero di canali che un bambino di oggi (non vittima di un’educazione estremista) si trova a dover dominare, mi vengono in mente perlomeno i seguenti: Cartoonito, Rai Yo Yo, Rai Gulp, Boeing, Super!,  sul digitale terrestre, e DeA Kids, Cartoon Network, Disney Channel sulla televisione satellitare. Va considerato che tutte queste reti trasmettono programmi per bambini di diverse fasce d’età ventiquattrore su ventiquattro, e non, come un tempo, per due-tre ore al dì.

Io, personalmente, attorno ai sei anni (cioè nel 1988), conoscevo a perfezione il varietà serale di ogni giorno della settimana, e vissi come un cambiamento epocale di costume lo slittamento del prime-time dalle 20.30 alle 21: ognuno comincia a dirsi sto invecchiando in circostanze diverse, e io lo feci allora quando le cose iniziarono a partire alle 20:35, senza rendermi affatto conto che era l’espansione della bolla di Striscia la Notizia, a rosicchiare lentamente, e inesorabilmente, la prima mezz’ora di vita degli show sui canali concorrenti.

La lettura del Tv e Sorrisi cominciava dalla programmazione in fondo al magazine (ogni giorno un colore diverso, così che nella mia mente il martedì sarebbe sempre rimasto arancione, il mercoledì rosa e via dicendo).

Da quando ho iniziato a leggere perbene, il TV Sorrisi e Canzoni è stata la mia lettura quotidiana, quello, il Corriere dei Piccoli e il Messale della domenica. Ora, dire che leggessi perbene è opinabile, ma voglio dire che leggevo correntemente, era il 1987 e il mio interesse ricadeva sul “libro” che meglio incarnava la natura dei miei sogni. La lettura del Tv e Sorrisi, come affettuosamente lo chiamavo, cominciava per me proprio dalla programmazione in fondo al magazine (ogni giorno un colore diverso, così che nella mia mente il martedì sarebbe sempre rimasto arancione, il mercoledì rosa e via dicendo): prima, le colonne laterali illustrate con gli approfondimenti e le trame nel dettaglio, poi le colonnine centrali – solo un timetable coi titoli delle trasmissioni -, e io sapevo notare ogni cambiamento rispetto al programma abitudinario settimanale: ad esempio, a causa di un evento annuale d’eccezione come il Festival della Musica Italiana.

La sigla dell’Eurovisione mi faceva sudare le mani, quella della partita di Coppa mi dava voglia di certi cracker al cioccolato Pavesi che poi non hanno mai più prodotto, novembre era dello Zecchino d’Oro più che delle foglie secche, febbraio di San Remo, delle mimose che già sbocciavano premature su un lungomare misterioso chiamato Tirreno, e rivestito di tappeti rossi. E poi i Giochi Senza Frontiere come una vacanza estiva portatile europea, le mascotte animate dai ventriloqui, la Rai prima del logo a farfallina, il terribile biscione Mediaset, i bambini magici che sapevano riconoscere qualsiasi modello d’auto di Scommettiamo che, i maghi che appiccicavano le mani per sempre, lo stacchetto che annunciava le mie pubblicità preferite, e i mostri incerati e terribili del Bagaglino che facevano ridere i grandi.

Perché darsi anche solo la pena di esistere, fuori da quella scatola molto più magica delle scatole metalliche di soldatini, che amavano tanto quegli sfigati dei bimbi ottocenteschi, i quali sopravvivevano ancora con la giusta dose di mestizia proprio nei cartoni animati giapponesi, sempre con le bretelle incrociate sulle spalle e una spolverata di cenere sui panni lisi?

Delle loro tragedie di orfani e figli di minatori, noi godevamo a metà tra sadismo e romanticismo per minimo due ore al giorno.

Si iniziava al mattino, con Caffellatte (Caffellatte caffellatte puoi gustare la mattina col tuo amico Vitamina), godibile soprattutto quando si riusciva a convincere i genitori che si era moribondi e si doveva rimanere a casa (nel mio caso, comunque, 3 mesi all’anno), si proseguiva con Ciao Ciao, co-condotto dall’antipatico Four, pelosa personificazione dell’omonimo canale Rete 4, e si trionfava – trionfo del pathos, del dolore e dell’amore non corrisposto – con i cartoni di Bim Bum Bam, badilate giapponesi di malchanse tutta occidentale, intervallati da sketch in cui Paolo Bonolis con l’identità di Pìolo e il popolarissimo pupazzo Uan litigavano col regista, il temibile e milanese signor Brandolìn.

Gli orari dei cartoni, che come i canali che li mandavano in onda, erano tarati sulla giornata media del bambino nordico con cena alle 18.30, erano gli orari dei miei treni che partivano ogni giorno dalla poltrona verdastra di mio nonno. Dovevo essere seduta col culo su quel velluto verde in tempo prima che il treno partisse.

Oggi, i cartoni devono essere, per i disordinati e impegnatissimi bambini che li guardicchiano, come treni che partono ogni cinque minuti per qualsiasi città da qualsiasi banchina, e volendo si possono anche fermare con un pulsante per scendere a fare una pipì, o addirittura far scorrere all’indietro, per tornare a guardare un pezzettino del paesaggio che ci si era distratti un po’.

Il punto di aspettare l’episodio di un cartone in maniera quasi ossessiva e a una certa ore precisa era soprattutto che per ventiquattr’ore, nel retro del cervello del bambino, sicuramente meno oberato di quelli di oggi, c’era stato un grosso punto di domanda: la rovesciata di Tom Becker, il migliore e bellissimo amico di Holly di Holly e Benjy, sarebbe finita in porta o fuori (o all’incrocio dei pali)? Quella rovesciata era rimasta disegnata nell’aria di qualche mondo parallelo per un’intera, lunga giornata.

Ero una teledipendente schifosa, passavo anche i sabati con Bonolis, e mi addormentavo pensando a cosa avrebbe indossato Aika, la trendyssima padroncina di Spank.

Tornando alla maniacale conoscenza del palinsenso: il sabato, l’ordine dei cartoni di Bim Bun Bam era un poco diverso, nel senso che, se non sbaglio, ce n’era uno in più. Un sabato ero a guardare i cartoni a casa di un’amica per me molto esotica, in quanto cresciuta nella capitale, che disse qualcosa come: adesso c’è Hello Spank. No, oggi è sabato, ribattei io petulante, il terzo cartone è Holly e Benji. Scommettiamo. Sospiro. Va bene, scommettiamo, povera illusa. Parte la sigla di Holly e Benjy e la bambina romana va su tutte le furie (mi sa che avevamo scommesso una merendina), si gira sul letto dove eravamo poco prima placidamente adagiate, e inizia a riempirmi di botte. Oggi, incassando nuovamente quella gragnola di pugni con la memoria, sento che me li meritavo tutti: ero una teledipendente schifosa, passavo anche i sabati con Bonolis, e mi addormentavo pensando a cosa avrebbe indossato Aika, la trendyssima padroncina di Spank, il giorno successivo (tra parentesi, miglior guardaroba della storia: odiavo i personaggi che non si cambiavano mai d’abito e le eroina piagnone che indossavano sempre grembiuli da colombina, e mi chiedo ancora perché i nipponici artisti immaginavano Alice di Carroll e Dorothy di Baum come delle piccole cameriere).

Se, nell’ultimo ventennio, il più mastodontico fenomeno osservabile nel settore dell’animazione è lo spostamento dell’asse del mercato produttore da oriente a occidente, con America e Inghilterra oggi leader nella produzione di cartoons, più affascinante dell’aspetto commerciale è un discorso nella trasformazione dei contenuti e delle scelte estetiche, legate più al gusto che alla tecnologia digitale che le sostiene – tecnologia che, come dimostra la Pixar, e aldilà dei detrattori del 3D e dei cultori di Raperonzolo, ha portato indiscutibilmente l’animazione ai vertici delle sue possibilità espressive – e rimando per questo ai vivissimi, rossi capelli-vermi di Brave.

Dal punto di vista estetico, dunque, mi sono chiesta, che cosa ha provocato questo spostamento dell’asse da est a west, ovvero: perché il mio occhio rifiuta istintivamente le movenze e le forme dei nuovi personaggi animati in Inghilterra e Stati Uniti?

Da bambina, percepivo inconsciamente lo sforzo che facevano i giapponesi per raccontare storie occidentali, conciare i personaggi come secondo loro ci conciavamo noi alla fine dell’Ottocento, raccontare persino sentimenti occidentali (tutti i miei eroi erano maddalene pentite, o cristianissimi porgitori dell’altra guancia) e, poiché era evidente che chi aveva disegnato quegli occhioni troppo sferici sotto alle pagliette d’oro avesse fatto uno sforzo innaturale per allontanarsi dal proprio canone, avvertivo, senza capirlo, quel qualcosa di ammirevolmente stridente – quella tensione – che discende da tutte le passioni per cose che ci sono incomprensibili.

Secondo la teoria di Hiroki Azuma, filosofo studioso del postmoderno e autore di Generazione otaku, questa supposta sensazione d’inferiorità culturale da parte del Giappone, che emergerebbe dalle scelte estetiche dei loro anime, è accreditata storicamente: l’immagine del Giappone propria degli otaku è stata forgiata capovolgendo la posizione di estrema inferiorità che il Giappone aveva nei confronti degli Stati Uniti nel dopoguerra: grazie alla spinta del desiderio di affermare che tale inferiorità era, in definitiva, una superiorità. Ci sono due macro-filoni distinguibili nell’animazione nipponica degli anni Ottanta, quello espressionista (cui appartiene anche Hayo Miyazaki) e quello narrativo, e il primo si poneva come obiettivo una grande accuratezza formale, volta a raggiungere i risultati tecnici che la Disney aveva ottenuto in Occidente, attraverso un’animazione particolarmente fluida e un’attenzione maniacale alle forme e alle possibilità del disegno animato.

Così, insomma, all’età di sette anni circa, mi feci raccontare da una truppa di disegnatori e sceneggiatori appartenenti alla cultura del tè e delle geishe, la storia di Huckleberry Finn e Tom Sawyer, del signor Phileas Fogg e di una pastorella svizzera sfortunata e ottimista, così come degli schiavi nelle piantagioni di cotone, in uno dei miei cartoni preferiti in assoluto di bambina di ampie vedute negli anni in cui in Italia nasceva la lega nord: Fiocchi di cotone per Jeanie. Già la sigla, mi inebriava di mondo, diceva più o meno (senza più o meno) fiocchi di cotone / gocce di sudore / nelle mani di un altro colore / fiocchi di cotone / ghiaia del sentiero / strada del pensiero che / si esprime in libertà. Questo inno democratico apriva alla storia di questa bambina bianca americana di vedute ancora più ampie delle mie, alla quale, naturalmente prima della Guerra di Secessione, era permesso di fare dei girotondi sotto l’arcobaleno per mano del figlio dei suoi schiavi, salvo poi innamorarsi perdutamente del suo coetaneo bianco (idee, tutte, che mi ubriacavano di emozione più o meno quanto la mongolfiera di Fiorellino Giramondo, sguattera viennese dal nome originale di Honey Honey che scappava in tutto il mondo poiché il suo gatto aveva ingoiato il prezioso anello di una principessa).

Sembra abbastanza inspiegabile che ci siamo fatti raccontare tutte queste storie dai giapponesi (è un po’ come se oggi inglesi e americani si mettessero a fare un cartone sulle dinastie Ming anziché sui saldatutto o sulle spugne di mare), ma giuro che era tutto molto meglio delle riduzioni profumate dei classici edite da Becco Giallo.

A livello estetico, i cartoni cui le nuove generazioni si trovano esposte ventiquattr’ore ore su ventiquattro sin dai 6 mesi (col canale dedicato Baby tv, una continua e discutibile ipnosi per bebè) sono piuttosto inguardabili. Forse è un gusto personale: non scambierei neanche mezza bambina stracciona degli anime anni Ottanta con una principessa contemporanea un po’ strabica della nuovo scuola disneyana del politically correct verso le brutte.

Oggi nessun bambino è veramente interessato per un anno intero della sua ricca vita al cammino escatologico di quella ragazzina; al suo destino.

Per quanto riguarda il cartone a puntate, personaggi come Bo, Rosie e Chloe (Il favoloso mondo di BoInsieme a RosieL’armadio di Chloe) dei manga conservano i capelli blu o variopinti, ma i volti (plasticosi, di bambole ricavate alla svelta da piccole sfere di plastilina) sono stati disegnati da qualcuno che non si stava avvicinando con meraviglia e circospezione a un mondo a lui comprensibile, ma aveva anzi un eccesso di confidenza con un mondo senza misteri. Un mondo, tra l’altro, dove ci deve essere una puntata di dieci minuti ogni dieci minuti, e nessuna ragazzina col grembiule sta passando la vita a scappare da qualche miseria nel cuore della vecchia Europa, perché nessun bambino è veramente interessato per un anno intero della sua ricca vita al cammino escatologico di quella ragazzina; al suo destino.

Forse sto cercando spiegazioni elaborate. Forse, nel design dei nuovi personaggi: sono principalmente le tecniche di produzione digitale, a servizio della nuova massiccia domanda, a aver messo del loro.

In realtà, però, ciò di cui mi premeva parlare non sono né l’estetica, né la tecnologia, né le nuove geografie del mercato dell’animazione degli anni dieci. Il cuore della mia personalissima fotografia di due epoche, e del loro modo di raccontare storie ai bambini, è la serialità del cartone, e come questa è mutata, di pari passo con un nuovo stile sregolato di fruizione, indebolendosi, in totale controtendenza rispetto al corrispondente boom delle narrazioni per adulti.