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Siamo seri, dai

Quest'estate Rolling Stone USA ha dedicato la copertina a Justin Bieber fra l'indignazione e lo sconcerto dei puristi italiani del rock. Ma perché?

di Ottavio Folleceppo

Dal numero di Studio in edicola.

Il volto efebico di Justin Bieber spicca a tutta pagina sulla copertina di agosto dell’edizione americana di Rolling Stone. L’espressione, il taglio di capelli, il look e la composizione della foto; sembra un frame tempora- le sospeso tra la Gioventù Bruciata di James Dean e gli anni ’80 di Rob Lowe. Una percezione che viene tradita soltanto dal viso appena maggiorenne della star che ha da poco abbattuto il muro dei 30 milioni di follower su twitter. Negli Usa nessuno si è scandalizzato troppo, laggiù la natura pop del magazine che un tempo fu la “casa” di Lester Bangs e di altri giganti del giornalismo musicale è un dato di fatto consolidato. Negli anni, RS ha dato spazio in copertina a “mostri” del pop come Lady Gaga, Rihanna, Madonna e Michael Jackson (entrambi innumerevoli volte). In Italia però, il paese in cui esiste un’idolatria protezionista per il concetto di rock in- versamente proporzionale alla qualità della produzione locale dello stesso, l’evento ha fatto scalpore e prodotto torrenziali flussi d’indignazione sui social network.

Siamo il paese in cui il rock è assurto a specie di santino insensibile all’usura del tempo e in cui un’ottima rivista come l’edizione italiana di Rolling Stone raramente può permettersi una simile operazione pop – pena l’arrivo in redazione di fiumi di lettere di protesta, scritte da metallari quarantenni che chiedono Yngwie Malmsteen a gran voce – e quindi cita (sempre con stile) icone del passato (per restare soltanto agli ultimi due/tre anni di RS Italia mi vengono in mente Joe Strummer, Bob Marley, Mick Jagger, Iggy Pop). E dire che la rivista riesce sempre e da sempre a sorprende- re con scelte imprevedibili, articoli attuali, firme non scontate. Ma in Italia, si sa, musicalmente  domina “l’alternativo” di Vigevano ed è a lui che si rivolge il mercato.

Siamo anche il paese in cui da qualche anno il rock, grazie a una “operazione culturale” firmata nientemeno che da Celentano, è diventato aggettivo sostantivato e sinonimo di veloce, giovane, dinamico. Concetti da contrapporre alla lentezza della politica, della burocrazia e della gerontocrazia. Beh, se lo dice un 74enne Molleggiato. E così, il rock, in Italia, è diventato un totem inviolabile e chi se ne occupa deve costantemente provare a se stesso e al suo pubblico di essere “contro”. Contro cosa? Beh… non ha importanza. I bersagli dalla politica alla musica sono moltissimi. La Casta, i Tecnici, i raccomandati, e appunto il pop. Quello rock è una specie di Popolo Viola della sottocultura, non importa quale sia il bersaglio, quello che conta è il Vaffanculo. Detto con faccia truce e voce seriosa.

Così facendo siamo rimasti indietro di un paio di decenni nell’aggiornamento della grammatica estetica necessaria a comprendere i nuovi indirizzi della musica “leggera”.  È un’attitudine endemica al rock italiano che ha fatto perdere di vista quasi del tutto ciò che d’interessante stava succedendo nel resto del pianeta musica, ha impigrito la curiosità degli ascoltatori, ha immobilizzato l’evoluzione del discorso culturale/musicale nostrano. Per fare un esempio colossale: abbiamo mancato completamente di comprendere l’evoluzione e l’enorme influenza culturale dell’hip-hop a livello mondiale negli ultimi 15 anni, se non nella forma casereccia (e di ottimo livello) che ci è stata proposta dai vari Fabri Fibra, Marracash e Club Dogo (solo il primo ha peraltro avuto copertine importanti).  E non importa se poi leggendo l’articolo dedicato da Rolling Stone a Justin Bieber si scopre un profilo ben scritto, godibile e in grado di illuminare e spiegare gli aspetti più controversi di un fenomeno colossale come l’ascesa delle pop-star minorenni. Non è “rock” e quindi ai puristi del web di settore e dell’editoria indipendente musicale non va bene.

In America dove è stato inventato, prodotto ed esportato in tutto il mondo per mezzo secolo, già da tempo il rock è passato attraverso un processo di paganizzazione ed è, nei suoi aspetti più grotteschi, anche stato oggetto di parodie, come nel caso del recente film Rock Of Ages con Tom Cruise e Catherine Zeta Jones: una presa in giro dei guitar hero dell’hard-rock anni ’80 con una colonna sonora in tema. Al di là della qualità intrinseca dell’opera, che è sicuramente discutibile, la cosa interessante di Rock of Ages è che non soffre di nessun complesso reverenziale per il rock né per il suo passato. Oltre l’Atlantico (e non solo) le rockstar, specie quelle un po’ avanti con l’età, hanno smesso da tempo di essere percepite come ultime vestali di un passato irripetibile di perduta autenticità artistica ed è un fatto acquisito che, dal punto di vista del valore puramente semantico, non ci sia tutta questa differenza tra l’attuale seguito di Justin Bieber e quello di Mick Jagger cinquant’anni fa. Nel significato più proprio di “popolarità” sono entrambe popstar, specchio di due tempi diversi e non è detto che il primo (anche, anzi proprio perché ci è contemporaneo) sia meno interessante da conoscere e comprendere del secondo. Non si tratta di livellare troppo, si tratta di constatare. Ogni tanto dovremmo provare a farlo anche da noi.