Che la moda uomo stia attraversando il suo momento d’oro è oramai un fatto assodato: lo dimostrano i dati di mercato (+ 24% nel 2015 secondo un recente studio condotto da Barclays, con la previsione per l’intero di settore di raggiungere i 40 miliardi di dollari nel 2019), e lo conferma l’ampio dibattito che circonda le sfilate maschili, che fino a non troppe stagioni fa venivano archiviate abbastanza in fretta. Il guardaroba dell’uomo è diventato il terreno più fertile per sperimentare tutti gli orizzonti del “vestire bene” e mettere alla prova il concetto di mascolinità diluendolo, allargandolo, riadattandolo. Gli uomini (anzi, i ragazzi) in passerella sono spesso lontanissimi dal luogo comune: sono cowboy, viaggiatori, dandy, militari che non toccherebbero mai un’arma, astronauti e rockstar, ologrammi ideali di una macro generazione sempre più difficile da inquadrare.
Se l’ultima edizione di Pitti Uomo ha convinto perché ha saputo bilanciare il nuovo con il classico in una formula di curatela contemporanea, riuscendo a raggiungere una sintesi quasi perfetta fra la selezione dei progetti e le modalità di presentazione degli stessi, Milano soffre ancora una volta di un calendario concentratissimo (soprattutto nelle giornate di sabato e domenica), che deve ancora trovare la giusta dimensione per essere valorizzato, ma sfodera in compenso non poche collezioni interessanti, dalla couture per soli uomini di Ermenegildo Zegna al singolare accenno alla crisi dei migranti di Miuccia Prada. Se ne accorge anche il New York Times, che nota come ormai l’era della «volgarità berlusconiana» e dell’Italia di «Uomini e Donne» – sì, Uomini e Donne, sul New York Times – sia ormai un capitolo superato, a favore di un ritorno all’eleganza.
A chi rimprovera alla moda maschile frivolezza e volatilità – come se questi elementi fossero un male, applicati ai vestiti – risponde la collezione per l’Autunno-Inverno 2016 disegnata da Stefano Pilati per Zegna, dove ogni modello recava sul polso, sul petto o sugli accessori il numero del proprio look, proprio come si usava nelle sfilate di alta moda di una volta. Il suo è il racconto coerente di un’eleganza mai stantia: fluida perché ineccepibile, di valore perché sartoriale nei materiali e nel concept, infine personale e ragionata. Nessuna paura delle decorazioni, anzi. «Embellishment is in l’air du temps», per dirla con le parole dello stesso designer che, è bene ricordarlo, ha passato quasi dieci anni da Yves Saint Laurent e maneggia sapientemente anche quella tradizione: dai broccati al jacquard, dalle borse da portare a mano alle cappe, fino alle giacche e ai completi spezzati, tutto è prezioso, senza mai soffrire di pesantezza.
Nel solco del classico menswear, invece, Caruso ha presentato il suo Autunno-Inverno 2016 insieme al secondo episodio di The Good Italian, la serie di corti diretti da Emanuele Di Bacco con protagonista “il principe” Giancarlo Giannini, dimostrazione felice di come un brand che fa della tradizione il proprio punto di forza sappia comunicarsi con successo.
Al suo debutto all’Armani/Teatro, invece, Lucio Vanotti si è presentato con una collezione che è una summa precisa dello stile che lo rende uno dei designer più convincenti della nuova generazione. La ricerca della semplicità della linea e l’attitudine rigorosa della forma, dove la morbidezza è data dalla sottrazione, è la cifra stilistica della moda di Vanotti, classe 1975, che si fregia sin dall’inizio del suo percorso di una sofisticatezza intellettuale cui la sobrietà monastica lima ogni orpello, restituendo solo ciò che serve. Il marchio che porta il suo nome nasce con la Primavera-Estate 2012 e si aggiudica sin da subito l’attenzione degli addetti ai lavori, guadagnandosi la finale di “Who Is On Next?”, il concorso dedicato agli emergenti indetto da Vogue Italia in collaborazione con Fondazione Pitti Discovery. In realtà, il percorso del designer bergamasco inizia molto prima, quando nel 2004 fonda insieme a Marika Masi il marchio February, che racchiude già in fase embrionale molti dei concetti che caratterizzano la sua visione, dall’eleganza rilassata all’idea di un guardaroba liquido, senza forzature di genere.
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