Attualità

Senna

Nel ventesimo anniversario della morte del pilota brasiliano, un ricordo delle emozioni di quel giorno e delle ragioni per cui lo abbiamo amato così tanto.

di Cesare Alemanni

Ricordo il momento esatto in cui seppi che era capitato qualcosa di molto grave ad Ayrton Senna. A Milano era il pomeriggio di una domenica di primo maggio eccezionalmente calda e io, dodicenne, passeggiavo con mio padre per le vie di una città semideserta. Entrando a comprare una bibita in un bar ci trovammo di fronte a una scena che ancora oggi rivedo con la nitidezza di un fatto accaduto ieri. L’attenzione di tutti i presenti – una dozzina di persone incluso il barista – era interamente catturata da uno schermo sintonizzato su RAI 1, al cui interno si muovevano figure in tuta rossa che armeggiavano frenetiche intorno a un uomo steso a terra, di cui si indovinavano soltanto le scarpe. Dentro il bar non volava la proverbiale mosca: il silenzio era completo, irreale. Una donna piuttosto anziana  aveva gli occhi umidi.

Domandai cosa fosse successo. Il barista rispose soltanto, laconicamente: “Senna”.

Tornato a casa, come milioni di altri, mi ritrovai ad attendere i dispacci che giungevano dall’ospedale di Bologna, dove Senna era stato trasportato in elicottero da Imola e dove infine venne dichiarato morto alle 6 e 40 di sera. Sid Watkins – il neurochirurgo inglese, scomparso due anni fa al termine di una vita spesa a salvare quella dei piloti – era l’uomo che gli aveva praticato una tracheotomia d’urgenza, lì direttamente sull’asfalto del Tamburello. Noto nel Circus della Formula 1 semplicemente come il Prof, Watkins era uno dei migliori amici di Senna in Formula 1, e, ricordando quegli istanti, più tardi disse: «Sembrava sereno. Gli ho sollevato le palpebre e dall’aspetto delle sue pupille era chiaro che aveva un trauma cranico molto esteso. Lo abbiamo estratto dall’abitacolo e posato a terra. Mentre lo spostavamo ha sospirato e pur senza essere religioso ho avuto la sensazione che il suo spirito se ne andò in quel momento».

Anche oggi, a venti anni di distanza, la morte di Senna rimane uno di quegli eventi che ti portano a chiedere al prossimo “e tu dov’eri quando?”

Anche oggi, a venti anni di distanza, la morte di Senna rimane uno di quegli eventi che ti portano a chiedere al prossimo “e tu dov’eri quando?”. Nonostante fosse il migliore della sua generazione – forse il migliore di qualunque generazione – a guidare oltre i limiti una monoposto lungo serpenti d’asfalto, è evidente che la commozione, lo shock emotivo generati dalla sua scomparsa hanno ecceduto di molto i termini della pura popolarità guadagnata per meriti sportivi.

Non è facile spiegarsi le ragioni. Un possibile motivo è che Senna è stato sia un fuoriclasse che un fuorilegge, un campione capace di affrontare i cordoli con lo stesso sprezzo con cui non le mandava a dire agli avversari e ai politicanti della sua disciplina.

È stato autore di imprese leggendarie come quella sulla pista di Donington nel ’93, quando, nello spazio di un solo giro, riuscì a risalire – sorpassando tra gli altri un giovanissimo Michael Schumacher – dalla quinta alla prima posizione. È stato il protagonista di una delle rivalità sportive più accese di tutti i tempi, quella con il gelido e calcolatore Alain Prost: il più speculare antagonista che il destino potesse disegnare per lui. È stato il casco giallo, blu e verde – come i colori del Brasile in cui era nato, figlio di una ricca famiglia di proprietari terrieri di origini italiane – diventato una delle icone sportive più riconosciute di sempre, il marchio inconfondibile di Senna su ogni tracciato, indissolubilmente legato alla livrea bianca e rossa della McLaren su cui ha vinto la maggior parte dei suoi 41 Gran Premi. È stato, come ha scritto sul Guardian l’ex pilota John Watson, un pilota capace di fare “cose con una macchina da corsa che non ho visto fare a nessuno, né prima né dopo […] Non era solo la velocità a cui andava ma il modo in cui controllava la macchina, cambiava la marcia, girava il volante […]. Riuscire a fare anche soltanto una delle cose che faceva alla velocità a cui le faceva era già notevole ma farle contemporaneamente, come riusciva a lui, era impressionante. Ancora oggi non capisco come ci riuscisse. Aveva questa fantastica capacità mentale di imprimere un numero incredibile di input alla macchina nello stesso momento. Ed era spaventosamente rapido”.

«Riuscire a fare anche soltanto una delle cose che faceva alla velocità a cui le faceva era già notevole ma farle contemporaneamente, come riusciva a lui, era impressionante».

Ma la ragione per cui lo abbiamo amato in un modo così particolare è che Senna era un uomo di una straordinaria complessità, sul cui volto si concentrava un groviglio di stati d’animo e sentimenti contraddittori: la timidezza e il carisma, la gentilezza e la rabbia, la generosità e l’agonismo.  Bastava guardare dentro al suo sguardo schiacciato dal casco prima di una partenza, studiare le sue movenze in un paddock, i suoi sorrisi malinconici di fronte a un microfono per capirlo. Era così ovvio che ce ne siamo accorti tutti. Per questo, molto banalmente, lo rimpiangiamo ancora.

Il calore umano di Senna risaltava ancora di più perché uno scherzo del destino aveva voluto che il suo talento, così inavvicinabile e imperfetto allo stesso tempo, si trovasse immerso nel liquido di contrasto dello sport robotico per eccellenza. Come sa chiunque abbia visto lo straordinario documentario girato da Asif Kapadia, Senna è stato il più acerrimo antagonista dei vertici politici del suo sport. Ha combattuto lotte che altri piloti preferivano non affrontare a viso altrettanto aperto contro regolamenti che, in quel periodo tra fine anni ’80 e inizio anni ’90, stavano iniziando a riconfigurare il volto della Formula 1, trasformandolo in una disciplina troppo lontana dalk suo talento irrecintabile, un genio che talora risultava misterioso anche a lui stesso: «A volte penso di conoscere le ragioni per cui faccio ciò che faccio in una macchina e a volte invece non so il perché. Ci sono momenti in cui sembra che ad agire sia un istinto naturale che è dentro di me. Se ci sono nato o se è cresciuto in me più che in altre persone, davvero non lo so. Ma è dentro di me e con il tempo prende sempre più spazio e intensità».

«A volte penso di conoscere le ragioni per cui faccio ciò che faccio in una macchina e a volte invece non so il perché. Ci sono momenti in cui sembra che ad agire sia un istinto naturale che è dentro di me. Se ci sono nato o se è cresciuto in me più che in altre persone, davvero non lo so».

Il giorno prima della morte di Senna, durante le qualifiche del sabato, aveva perso la vita Roland Ratzenberger, un pilota austriaco di 34 anni alla sua terza gara in Formula 1 con il team Simtek, un comprimario la cui morte – anche questo lo ricordo molto bene – non si era meritata più di mezza pagina sui quotidiani del giorno dopo.  Quando la notizia della tragedia dell’austriaco iniziò a circolare nel paddock, il suo amico Sid Watkins consigliò a un Senna distrutto e in lacrime di abbandonare le gare per un po’ e andare – perché no? – a pescare, un hobby che appassionava entrambi. Ci furono polemiche e discussioni sulla eventualità di non correre il Gran Premio di Imola il giorno successivo, ma alla fine i vertici della Formula 1 decisero che lo spettacolo doveva continuare. L’ultimo atto “politico” della carriera di Senna, il mattino prima della gara, fu incontrarsi con l’ormai ritirato arcirivale Alain Prost per parlare di cosa insieme potevano fare per migliorare la sicurezza dei piloti.

Poche ore dopo partiva il Gran Premio e, per la sessantacinquesima volta in carriera, Senna scattava dalla Pole Position nonostante la sua Williams fosse una macchina isterica e imperfetta. Al settimo giro, a bordo di una Benetton destinata a diventare la scuderia dominante del biennio successivo, lo inseguiva da vicino il venticinquenne Michael Schumacher, in un assaggio di una rivalità che non si sarebbe sviluppata oltre. Arrivata al Tamburello, invece di sterzare la macchina di Senna andò dritta contro un muretto dotato di una via di fuga insufficiente. Quando Sid Watkins e il suo team estrassero dalle lamiere il suo corpo già in fin di vita, nell’abitacolo sbriciolato della Williams numero 2 trovarono una bandiera austriaca. Era per Ratzenberger.