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L’Onu ha definito Gaza «un abisso» e ha detto che ci vorranno almeno 70 miliardi per ricostruirla Quasi sicuramente questa cifra non sarà sufficiente e in ogni caso ci vorranno decenni per ricostruire la Striscia.
Anche quest’anno in Russia è uscito il calendario ufficiale di Vladimir Putin Anche nel 2026 i russi potranno lasciarsi ispirare dalle foto e dalle riflessioni del loro presidente, contenute nel suo calendario
Sarkozy è stato in carcere solo 20 giorni ma dall’esperienza è riuscito comunque a trarre un memoir di 216 pagine Il libro dell’ex presidente francese sulla sua carcerazione lampo a La Santé ha già trovato un editore e verrà presto pubblicato.
Nel primo teaser del nuovo Scrubs c’è la reunion di (quasi) tutto il cast originale J.D., Turk, Elliot e anche il dottor Cox al Sacro cuore dopo 15 anni, invecchiati e alle prese con una nuova generazione di medici. Ma c'è una grave assenza che i fan stanno già sottolineando.
Anche il Vaticano ha recensito entusiasticamente il nuovo album di Rosalía José Tolentino de Mendonça, prefetto per il Dicastero per la Cultura e l’educazione del Vaticano, ha definito Lux «una risposta a un bisogno profondo nella cultura contemporanea».
La nuova funzione di geolocalizzazione di X si sta rivelando un serio problema per i politici Non è facile spiegare come mai i più entusiasti sostenitori di Donald Trump postino dall'India o dalla Nigeria, per esempio.
Gli Oasis hanno detto che adesso che il reunion tour è finito si prenderanno una pausa di riflessione Ovviamente, sono già partite le indiscrezioni: si separano di nuovo? Faranno un nuovo tour? Stanno lavorando a un nuovo album?
Il Grande Museo Egizio di Giza ha appena aperto ma ha già un grave problema di overtourism A nulla è servito il limite di 20 mila biglietti disponibili al giorno: i turisti sono già troppi e il Museo adesso deve trovare una soluzione.

Sempre più video

Ieri gli Instant Articles, oggi il diktat dei video: il social di Zuckerberg tiene in pugno i giornali, che si adeguano alla linea.

di Studio
27 Luglio 2017

Uno spettro si aggira per le redazioni di entrambi i lati dell’Atlantico: è lo spettro del video. Nel giro di poco, l’espressione “pivot to video” (letteralmente, ricalibrarsi sui video) è diventata una sorta di macabro meme molto popolare tra le fila dell’editoria statunitense, e non a caso: nemmeno un mese fa apprendevamo da Variety che il canale News di Mtv ha deciso di orientarsi su «più video e contenuti brevi per un pubblico più giovane»; appena la settimana scorsa è stato confermato che il network internazionale di Vice punterà decisamente sui contenuti visivi, risolvendo i contratti in essere di 60 dei suoi impiegati; Vocativ è stato interessato da ciò che qualcuno di interno al sito ha definito «un cambiamento di strategia», in direzione «video-first», e ha licenziato 20 persone del suo già esiguo staff. In Italia assistiamo a progetti editoriali come quello di Freeda, dove il formato “video virale” ha un ruolo imprescindibile.

I video sono il trend più “caldo” della sfera mediatica internazionale, celebrati come antidoti all’ormai cronica crisi emorragica di lettori e di conseguenza rincorsi dalle principali testate internazionali. Ma perché proprio ora? Il motivo è spiegato da John West in un pezzo ricco di informazioni apparso su Quartz: la coincidenza, che ovviamente non è tale, è la rinnovata spinta “videofila” di un singolo attore, che si chiama Facebook. Il social network di Mark Zuckerberg ha di recente diffuso un report che spiega, in buona sostanza, che sempre più persone guardano video sulla piattaforma e, non bastasse, sono sempre più gli utenti che si aspettano di guardarne. L’Eldorado è qui, dicono da Palo Alto, e ne hanno ben donde: i brand sono sempre più contenti di investire nel video advertising, convinti che un’inserzione che precede (o segue) un video catturi naturalmente l’attenzione del potenziale consumatore molto più di una apposta in calce a un articolo testuale. Ma perché giornali e siti si adeguano passivamente?

US-FACEBOOK-MENLO PARK

La risposta è quella che andiamo ripetendo ormai da un po’ nel mondo degli addetti ai lavori del settore, e con toni sempre più preoccupati: Facebook ha il pallino in mano, nel traffico referral verso i siti dei principali media internazionali, e questi ultimi si trovano sempre più obbligati ad adeguarsi al suo volere. A dirla tutta, gli indicatori parlano di un monopolio di fatto: la fetta di traffico direttamente dipendente da Palo Alto, ha rilevato la società di metriche web Parse.ly, è in aumento verticale da anni, e tra Facebook e Google ammonta a più dell’80% dei referral totali del settore digital. Se questo dato non dovesse bastare a impressionarvi, potete pensare che – riportava l’anno scorso il New York Times – nel primo trimestre del 2016,  per ogni dollaro speso nella pubblicità online, 85 centesimi finivano nei ricavi di Facebook e Google.

Un altro sintomo eloquente di questa direzione è rappresentato da un’altra mossa del gigante zuckerberghiano, che la settimana scorsa ha annunciato di aver lavorato a un sistema di paywall “su misura” per le testate che hanno adottato gli Instant Articles, in modo da offrire abbonamenti ai media direttamente su Facebook, condividendo dati (ed è lecito pensare, in un futuro prossimo, ricavi) con questi ultimi. Gli Instant Articles – per chi non lo sapesse: pezzi che si caricano più velocemente e all’interno della piattaforma, senza che l’utente esca – sono un altro nodo gordiano del rapporto tra gli alti prelati di Palo Alto e i giornali: progettati per massimizzare il reach (il raggiungimento di utenti del proprio pubblico) sul social network, il Times ha già avuto modo di criticarli per il loro scarso impatto reale sui dati del traffico delle grandi media company. Più in generale, diversi analisti hanno visto nella loro reclamizzata implementazione un ulteriore tentativo di piegare l’industria al singolo volere di Facebook. C’è chi, come lo stesso West su Quartz, auspica che i media si rendano conto di stare mettendo troppe chiavi in mano alla multinazionale californiana, e che trovino altre vie con cui fermare l’emorragia di lettori e ricavi pubblicitari. Ma la situazione, almeno al momento, è questa, e non accenna a cambiare: i tempi di Upworthy – simbolicamente premiato e poi decapitato dagli algoritmi di Facebook, nel giro di tre anni – sono finiti, e davanti c’è un panorama a tinte fosche. Come ha scritto Mathew Ingram sul suo blog, i media del 2017 «stanno lavorando su un terreno che è stato concesso loro da un signore feudale, ed è una cosa che raramente finisce bene».

Immagini Getty Images
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