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Secondo il New Yorker, Roma di Alfonso Cuarón ha un grave difetto

In un articolo dal titolo “There’s a Voice Missing in Alfonso Cuarón’s Roma, pubblicato ieri sul New Yorker, Richard Brody esprime una lunga serie di dubbi sull’acclamatissimo film di Cuarón. Secondo lui, durante un intervista, il regista stesso avrebbe inavvertitamente rivelato una serie di aspetti cruciali del suo lavoro, «portando alla luce l’inconscio cinematografico, suggerendo cosa avrebbe potuto e dovuto essere il suo film». Come scrive Mattia Carzaniga nella nostra lista delle 20 migliori cose viste 2018, l’autofiction di Cuarón è da considerare, per diversi motivi, come il film più rilevante dell’annata in corso (perché sta vincendo tutti i premi stagionali, dal Leone d’oro a – si presume – l’Oscar, e perché grazie al passaggio su Netflix sta ridefinendo le possibilità del cinema del futuro). Secondo Brody, però, i problemi del film non stanno nel modo in cui è stato distribuito (che ha ricevuto molte critiche), ma nella superficialità con cui, secondo lui, Cuarón ha descritto alcuni personaggi, in particolare quello della tata.

Roma è il quartiere borghese di Città del Messico in cui il regista è cresciuto. Il personaggio della tata/cameriera, Cleo Gutiérrez (Yalitza Aparicio) è basato su una donna di nome Libo Rodríguez – alla quale il film è dedicato – che ha ricoperto il medesimo ruolo nell’infanzia del regista. Nell’intervista che Brody considera rivelatrice, Cuarón racconta di come, da bambino, restasse incantato ascoltando le tante storie personali che Libo aveva da raccontare. Cleo Gutiérrez, al contrario, parla pochissimo: secondo il critico la sua figura è gravemente stereotipata e asseconda il cliché con cui, nei film, «i registi intellettuali e borghesi rappresentano le classi più povere: un tipo forte, silenzioso, che tollera tutto, lavoratore indefesso, deprivato della parola. Un angelo silenzioso la cui incapacità o riluttanza ad esprimere se stesso è considerata un segno della sua stoica virtù». Non sappiamo niente della sua famiglia, dei suoi pensieri, dei suoi desideri.

Per riassumere la lunga dissertazione del critico, potremmo dire che, secondo lui, nel film di Cuarón manca del tutto una contestualizzazione politica e sociale complessa e credibile. Una critica che ricorda quelle mosse a un altro regista “borghese e intellettuale”, Luca Guadagnino, per il suo Call Me By Your Name. Resta da capire cosa vogliamo da un film, se un’opera d’arte o un video-saggio sullo stato di un Paese in un dato periodo storico.