Cultura | Liste
Le 20 cose migliori viste nel 2018
I film e le serie tv dell'anno secondo la redazione di Studio.
Che anno è stato per il cinema e per le serie tv? Sicuramente è stato all’insegna della “fluidità”, un termine che è stato un po’ il concetto chiave del 2018. Fluidità di generi, temi, culture, ma anche dei medium stessi: come noterete leggendo la nostra lista (che comprende sia film che serie, ma solo prime stagioni), è ormai inevitabile, commentando certi prodotti, considerare la modalità con cui sono stati distribuiti e presentati. Grandi attori ingaggiati per serie tv di una sola stagione, l’approdo di un capolavoro cinematografico su Netflix dopo un breve passaggio al cinema, film pensati direttamente per le piattaforme di streaming: sono molto probabilmente soltanto piccoli assaggi della direzione che prenderà il cinema del futuro.
Roma (Netflix)
L’autofiction di Alfonso Cuarón è il film più rilevante dell’annata in corso per vari motivi. Perché sta vincendo tutti i premi stagionali, dal Leone d’oro a – si presume – l’Oscar. Perché sta ridefinendo la possibilità d’esistere del cinema di un futuro che è già qui (in poche parole: è su Netflix). Perché è bellissimo e basta. La storia di una donna e di un Paese (Roma è il quartiere borghese di Città del Messico in cui è cresciuto l’autore) incontra ora i primi social-detrattori: il loro sforzo autoreferenziale nel demolire un’opera pressoché perfetta fa quasi tenerezza. (Mattia Carzaniga)
The Terror (Amazon Prime Video)
Da appassionato, ho sempre sognato che qualcuno riuscisse a rendere in un formato cinematografico o televisivo un qualche romanzo di Joseph Conrad – e non parlo di Apocalypse Now – con i suoi silenzi, i suoi momenti di calma piatta in realtà terribilmente tesa, le lente malattie, le cancrene, la pazzia che scava come la goccia nella roccia. The Terror, distribuita da Amazon Prime Video, è uno dei pochissimi prodotti a riuscire nell’impresa senza perdere quella carica di tensione e pazzia, e sì, è tratta da un altro libro (La scomparsa dell’Erebus di Dan Simmons) e sul tema c’è fior fior di letteratura, da Vollman (I fucili) a Fergus Fleming (I ragazzi di Barrow), ma è a Conrad che ho pensato di più, guardando senza fretta le 10 puntate da 50 minuti l’una di The Terror. Le azioni sono poche e misurate – le forze vanno risparmiate, incastrati nei ghiacci dell’Artico – e per questo si possono osservare con più minuzia; i personaggi, impossibilitati a nascondersi, si trasformano a poco a poco sotto gli occhi dello spettatore; il mare non si vede più chiaramente nella stasi e sul bianco, ma si nasconde in ogni ombra. Grande romanzo sull’uomo e la natura, sulla sanità e la pazzia, sulla conquista e l’ambizione, e il suo risultato migliore è quello di far convivere realtà e allucinazione, e di confondere anche lo spettatore su quale delle due è quella che sta guardando. (Davide Coppo)
Sharp Objects (Hbo/Sky)
Proprio come Gone Girl – altro best seller di Gillian Flynn trasformato in film – la trama di Sharp Objects ruota intorno a un personaggio femminile negativo, carismatico e inquietante e a un’indagine che coinvolge l’intera comunità (qui è un minuscolo paesino che si chiama Wind Gap, dove due adolescenti sono state brutalmente uccise). La protagonista, incaricata di indagare sull’oscura faccenda, è una giornalista che si veste soltanto di nero e grigio scuro, ha lo schermo dell’iPhone distrutto, un’automobile scassata e l’abitudine di dissetarsi con piccole bottigliette di vodka che porta sempre con sé. Era dai tempi di Mad Men che non vedevo tanto alcool e tante sigarette in una serie tv. Ma qui a fumare e bere senza soluzione di continuità non è il tormentato e geniale Don Draper, ma la tormentata e geniale Camille, interpretata da una superba Amy Adams cupa e appesantita che, insieme alla colonna sonora e al tocco elegante e malinconico del regista (Jean-Marc Vallée, lo stesso di Big Little Lies) è già un buon motivo per restare attaccati allo schermo. (Clara Mazzoleni)
Black Panther
Politica ed estetica messe insieme da un action movie, Black Panther è stato per molti versi il film-evento dell’anno: c’è stato ovviamente un sovraccarico di aspettative sul primo Marvel movie interpretato con protagonisti afroamericani, ma il risultato è stato all’altezza sia in termini di vero e proprio godimento della visione (molta più azione che didascalia per fortuna, e la sequenza di Busan resta nella memoria e forse pure nella storia degli inseguimenti) sia dal punto di vista della rilevanza: una rilevanza soprattutto estetica, come si diceva, se si considera il ritorno dell’afrofuturismo sulle copertine delle riviste, nelle sfilate e persino nei longform più di nicchia. (Cristiano de Majo)
Call Me By Your Name
La prima volta che ho visto Call me by your name è stato come una magia. Per due ore ho seguito la storia di Elio e Oliver con trepidazione, felicità e disperazione, quasi come se fosse la mia. Un po’ come «quando il tuo amore aveva le stesse parole, gli stessi respiri del libro che leggevi di nascosto sotto il banco» in “Compagno di scuola” di Venditti. Luca Guadagnino con questo film ha convinto anche quelli che lo guardavano da tempo come una sospettosa bolla lì lì pronta a scoppiare una volta per tutte. Call me by your name è l’amore, per questo è magico, per questo appartiene a tutti, anche nelle sue innocenze (certe scene e certi dialoghi fin troppo perfettini, per esempio). Un amore con la colonna sonora di Sufjan Stevens e Franco Battiato, un amore “banalmente” omosessuale, per giunta. Basta solo questo, oggi che anche le più piccole scintille di resistenza sembrano ancora più luminose. (Teresa Bellemo)
Wild Wild Country (Netflix)
Che cosa ci facevano, nel 1981, migliaia di seguaci del guru indiano Bhagwan Shree Rajneesh, conosciuto anche come Osho, nel bel mezzo del deserto dell’Oregon? Sulla carta, cercavano di costruire l’Ashram di Rajneeshpuram, la città ideale dove poter passare il resto della loro vita meditando in armonia con la natura, praticando il sesso libero e rifuggendo la corrotta società esterna. In realtà, hanno combinato un casino di proporzioni epiche, come racconta la serie-documentario diretta dai fratelli Chapman e McLain Way su Netflix. È una storia di risentimento, minacce, sospetti, bio-attentati e deportazioni di massa, condizionamento mentale e tribalismo spicciolo. Wild Wild Country è uno spassosissimo viaggio nella parte più avida e territoriale della mente umana, che ha il volto di un’elegante signora che oggi vive tra le montagne svizzere, Ma Anand Sheela. È lei l’anima nera che alberga in tutti i sognatori puri, un personaggio così indimenticabile che se avessi figli glieli affiderei. (Silvia Schirinzi)
Kidding (Showtime/Sky)
Oggi le serie si dividono in serie-serie e serie-film. Questa è una serie-film, ovvero: due ore sarebbero bastate e avanzate, ma sappiamo che ora il cinemadiqualità trova più finanziamenti sugli schermi piccoli (qui produce Showtime). Michel Gondry trova la chiave perfetta per il racconto di un’ennesima elaborazione del lutto: farla diventare lo spazio in cui tornare bambini. Anche letteralmente: il protagonista è attore/conduttore di una specie di Albero azzurro americano. In tanti si sono accorti che Jim Carrey è dio: ben svegliati. (Mattia Carzaniga)
Killing Eve (Bbc/TIMvision)
Ci sono molti motivi per cui Killing Eve potrebbe essere a buon diritto considerata la serie dell’anno. Intanto per il ritorno sul piccolo schermo di Sandra Oh, a quattro anni dalla fine di Grey’s Anatomy che per molti è stata l’introduzione al culto della serialità televisiva, quindi per la sceneggiatura firmata da Phoebe Waller-Bridge, l’autrice di Fleabag, una delle più brave oggi a immaginare e scrivere personaggi femminili. Alla fine, però, è la co-protagonista Villanelle, interpretata da Jodie Comer, a rivelarsi la sorpresa migliore: una cattiva dal nome fumettistico, la personalità tanto disturbata quanto irresistibile e un gusto per gli abiti da fare invidia a un editor di Vogue. Un po’ spy story, un po’ film d’azione, un po’ storia di due disadattate, Eve e Villanelle appunto, che potrebbero avere in comune più di quanto non si direbbe a prima vista: Killing Eve cancella gli stereotipi con ironia e intelligenza, abiti rosa (di Molly Goddard) compresi. (Silvia Schirinzi)
Dogman
Garrone è tornato a fare Garrone: un fatto che ha rallegrato molti e deluso alcuni (pochissimi). Chi lo segue dai tempi di L’imbalsamatore e Primo amore (Gomorra l’abbiamo visto tutti), e ne ha amato anche gli errori – Reality – avrà tirato un sospiro di sollievo (Il racconto dei racconti: promettici che non lo farai mai più). Un set teatrale, quasi Beckettiano, fa da sfondo alla libera interpretazione di un fatto di cronaca nera del 1988, l’omicidio del criminale e pugile dilettante Giancarlo Ricci per mano di Pietro De Negri, detto anche il canaro della Magliana. De Negri finì per torturare e mutilare l’ex pugile che lo vessava con una brutalità che nessuno gli avrebbe mai attribuito. Ma a Garrone non interessa sguazzare nel sangue facile: gli interessa immaginare e descrivere il rapporto tra due personaggi che diventano i protagonisti di una parabola biblica. E quindi eccoci accontentati, noi garroniani, a sguazzare felici nel mondo che amiamo: scenari desolati e facce che rimangono stampate nella mente, indimenticabili. Cannes ha celebrato Marcello Fonte, ma anche Edoardo Pesce è straordinario nei panni del terrificante Simoncino. Sono passati 16 anni, ma io Elisabetta Rocchetti dell’Imbalsamatore me la sogno ancora la notte. (Clara Mazzoleni)
Maniac (Netflix)
Di questi tempi capita troppo spesso di non capirci niente, mai, o di capire tutto, subito, e quindi di arrivare alla fine un po’ annoiati e un po’ per dovere. Maniac è una serie Netflix, per ora di una sola stagione, che inizia mostrandoti tutte quelle cose che vanno tanto di moda in una serie Netflix: scenario futuribile (una New York non troppo scontornata), personaggi problematici con malattie mentali (il rampollo perdente di una famiglia di vincenti e una tossica senza una vera casa e senza molto da perdere), colori fluo nei toni del rosa, costumi abbastanza cool (il taglio della dr.ssa Fujita è un must di questo autunno e il parka di Emma Stone è andato a ruba). Poi le cose si evolvono e dal test beta di un medicinale che dovrebbe risolvere i ricordi problematici nascono relazioni inaspettate, episodi al limite del senso compiuto, sconfinamenti in altri generi narrativi (una volta sembra Game of Thrones e un’altra una spy story di inizio Novecento). Alla fine, i pezzi si mettono insieme e puoi ricacciare dentro quelle domande del tipo «ma sto perdendo tempo?» che ti sei fatto mentre non ci capivi nulla. Hai finito una serie, ci hai capito (quasi) tutto, ti è piaciuta, in più hai tifato la squadra che ha vinto. Meglio di così. (Teresa Bellemo)
I Romanoff (Amazon Video)
La prima attesa uscita post-Mad Men di Matthew Weiner si basa, sin dal titolo, su un gigantesco MacGuffin: la dinastia imperiale di Russia, che però si capisce a un certo punto è solo una vaghissima scusa per questi otto mini-film, neanche tanto mini visto che durano tutti oltre un’ora, e che rappresentano un’ulteriore sperimentazione sul modello televisivo: episodi autoconsistenti alla Black Mirror, ma con appunto il MacGuffin della discendenza zarista. Anche se queste storie girate intorno al mondo, con alcuni degli attori feticcio di Weiner, sono state probabilmente una delle serie peggio giudicate dell’anno (non andate a vedere la media su Rotten Tomatoes) e senza negare la presenza di grossi e deludenti alti e bassi, pure i più critici dovrebbero riconoscere che alcuni degli “episodi” (il primo e il quinto per esempio, ma anche il settimo) sono tra i migliori esempi di cinema mainstream applicato alla tv che abbiamo visto: scrittura forte, attori bravissimi, e molti conflitti borghesi; cose che parlano a tutti ma con molti tocchi di intelligenza qui e là a formare una specie di grande saggio sui generi tutto citazioni e stilizzazioni. (Cristiano de Majo)
Il filo nascosto
Nessuno conosce la storia di un matrimonio, qualunque esso sia. Ma la storia di questo matrimonio Paul Thomas Anderson la conosce benissimo. E, nel ribaltamento quasi hitchcockiano dei ruoli vittima/carnefice, racconta tutte le coppie del mondo. La scrittura e la regia sono dei grandissimi, ma così enormi che riescono a superare sé stessi: basti la sequenza del veglione di Capodanno. E pure le performance: Daniel Day-Lewis è il più bravo della Terra, e lo sapevamo già; a Vicky Krieps, questa sconosciuta, date tutti i ruoli che verranno. (Mattia Carzaniga)
Annientamento (Netflix)
Anche se Roma incarna comunemente il cambio di paradigma, il film di Alex Garland tratto dal primo capitolo della trilogia di Jeff VanderMeer resterà alla storia come uno dei primi esempi del conflitto tra Netflix (o di qualunque altra piattaforma digitale) e il cinema. Questo però è il caso di film pensato per il cinema e finito sullo schermo del portatile: è uno scandalo se l’ho guardato sul letto con la testa sul cuscino, ma trattenendo il fiato per tutto il tempo? Naturalmente Annientamento è per me uno dei film del 2018 non solo per questioni distributive e di formato. Questa cupa e selvaggia allucinazione ambientalista racconta meglio di molti film realisti il punto in cui siamo e le tribolazioni che stiamo vivendo. (Cristiano de Majo)
Bodyguard (Bbc/Netflix)
Mi sono chiesto molte volte, mentre lo guardavo, perché Bodyguard mi piacesse così tanto: ci sono i cliché del poliziotto-ex-soldato che soffre di Ptsd, la guardia del corpo (sempre lui) che si innamora della datrice di lavoro, la politica (cioè datrice di lavoro) buona o cattiva o chi-lo-sa; gli aspetti intorno a cui, potenzialmente, potrebbe girare un’intera serie tv – la Ptsd, appunto – sono trattati superficialmente, le cospirazioni contro il Primo ministro e la sua guardia del corpo sono roba da Forsyth, e così via. Eppure la corda del ritmo che si tende subito alla prima puntata non si rilassa fino alla fine – ma nemmeno dopo, considerato il finale – e tira una puntata dopo l’altra in un binge watching che è alimentato dall’azione e dalla voglia di azione: può succedere tutto, in qualsiasi momento, e spesso lo fa. E poi certo, le corde che tocca sono sensibili: il deep state, il terrorismo internazionale, il populismo che può farsi violento, la politica staccata dal “bene comune” e il lobbysmo spinto all’eccesso. Bodyguard, di questa contemporaneità, è un’ottima declinazione action, che non vuol dire per niente, però, scema o dannosa. (Davide Coppo)
Succession (Hbo/Sky)
Oggi le serie si dividono in serie-serie e serie-film. Questa è una serie-serie, ovvero: si prende tutto il tempo narrativo che serve per sviluppare le trame e i (tanti) personaggi, e alla fine vorresti che il romanzo continuasse per sempre. Adam McKay, regista della Grande scommessa e quest’anno di Vice (con Christian Bale/Dick Cheney), dirige e produce una moderna tragicommedia scespiriana created by Jesse Armstrong dove tutti sono stronzi, egomani, detestabili. In questo saggio di scrittura e recitazione, finirai per amarli. (Mattia Carzaniga)
Il miracolo (Sky)
C’a ancora un pregiudizio quando iniziamo a vedere qualcosa di italiano, soprattutto una serie tv. Poi leggiamo la sinossi e ci ritroviamo i santi e le madonne e il sud Italia e già iniziamo a consolidarlo, quel pregiudizio. Senza criminalità organizzata dove andiamo (vedi Gomorra), senza santi, poi, non ne parliamo (vedi The Young Pope). Ma sin dalle prime scene Il Miracolo ha in sé una forza che si scrolla di dosso tutti i pregiudizi. La statuetta della madonna piange, è vero, ma intorno i personaggi sono veri, umani. Il Presidente del Consiglio (Guido Caprino) – molto renziano, molto più umano – con i sondaggi che gli dicono che vincere il referendum per rimanere nell’euro sarà un’impresa. Tira una brutta aria anche nella finzione. Il commissario (Sergio Albelli) stanco ma devoto al suo lavoro, quasi simenoniano. E poi il personaggio più bello: la first lady (Elena Lietti). Umana, fedifraga, bella, madre imperfetta e vittima della vita sempre esposta, sempre in diretta. (Teresa Bellemo)
Sulla mia pelle (Netflix)
Ci sono morti che non si consumano, veloci, in un determinato momento, ma che al contrario avvengono senza clemenza in un tempo difficile da ricostruire a posteriori. Morti che lasciano spazio al dubbio, alla ricostruzione da plastico, al giudizio gratuito. Ci sono morti più lunghe e più ingiuste delle altre, e l’ultima settimana di Stefano Cucchi è una di queste: un’asfissia durata sette giorni, dal 15 al 22 ottobre 2009, sotto la custodia dello Stato italiano. Il film di Alessio Cremonini racconta uno degli episodi più difficili della storia recente del nostro Paese e lo fa spalancando la porta su una vita, e un volto, di cui abbiamo conosciuto solo l’atto finale. Racconta una famiglia, una duplice condizione (quella di tossicodipendente e quella di detenuto) e un luogo dove le persone si perdono e si spengono lentamente. «Con la prima percossa il detenuto si rende conto di essere abbandonato a se stesso: essa contiene quindi in nuce tutto ciò che accadrà in seguito», ha scritto Jean Amery sulla tortura nel suo Intellettuale ad Auschwitz (Bollati Boringhieri). E ancora, poco più avanti: «Sono autorizzati a darmi un pugno in faccia, avverte la vittima con confusa sorpresa, e con certezza altrettanto indistinta ne deduce: faranno di me ciò che vogliono». Quella prima percossa, quel pugno, il film non li mostra mai, ma fa vedere tutto il resto. (Silvia Schirinzi)
Shirkers (Netflix)
Il protagonista di Shirkers è un film. Un film in 16mm realizzato dall’aspirante regista Sandi Tan nel 1992, quando è poco più che un’adolescente. Insieme a due amiche, Tan mette in scena un roadtrip ambientato a Singapore, la sua città. Ad aiutarla col progetto, il mentore e amico Georges Cardona, che però, improvvisamente, sparisce nel nulla insieme al film. Più di 20 anni dopo, quando ormai vive a Los Angeles e fa la scrittrice, Tan ritrova il film originale e crea un documentario (questo, Shirkers) in cui racconta la storia dell’ormai perduto – anche se ritrovato – progetto adolescenziale: come è nato, come è scomparso (e quindi chi era davvero Georges Cardona, personaggio abbastanza inquietante), come è ricomparso, inframezzando il tutto con spezzoni della pellicola originale e interviste. Il risultato è un meta-documentario video-diario autobiografico che parla di amicizia, ambizione, giovinezza, disillusione, arte, cinema (da David Lynch a Fitzcarraldo), Singapore, Los Angeles. Cosa desiderare di più? (Clara Mazzoleni)
Visages villages
Il film più libero, commovente e pure politico dell’anno l’ha girato una novantenne. Cioè Agnès Varda, in viaggio con il cool-artista JR alla ricerca di persone e luoghi di Francia, appunto. Di storie: dalla figlia del minatore all’allevatrice di capre (con le corna), alle mogli degli operai del porto (il più bel fotogramma di femminismo, ma quello vero, visto di recente). Più un omaggio struggente a Godard, compagno di Nouvelle Vague. Quel cinema non c’è più, ma questa ragazza quasi centenaria non ne ha nessuna nostalgia. (Mattia Carzaniga)
The End of the F***ing World (Netflix)
Questa graziosissima dark comedy è l’adattamento dell’omonima graphic novel di Charles S. Forsman. Molto leggera, perfetta per rallegrare una cena solitaria – anche grazie alla durata degli episodi: 20 minuti circa – deve parte della sua bellezza a due protagonisti adorabili – Alex Lawther e Jessica Barden – e al loro accento british. A un certo punto compare anche Earl Cave (il figlio di Nick Cave, sì). James è un diciassettenne incapace di provare emozioni, una situazione che lo porta a convincersi di essere pronto a compiere il grande passo e uccidere un essere umano. La vittima perfetta sembra essere Alyssa, una compagna di scuola che, attratta dalla sua diversità, gli sta incollata come una cozza. Il resto è immaginabile (almeno in parte). Quello che non è immaginabile è la bravura dei due attori protagonisti, la brillantezza della sceneggiatura, la raffinatezza dello sguardo di Jonathan Entwistle (creatore e regista della serie, 34 anni), il piacere di gustare, da adulti, un prodotto pensato per adolescenti. (Clara Mazzoleni)