Attualità | La strana estate italiana

Quel che resta di Rimini

È stata la città di Federico Fellini e di Maurizio Zanfanti, del regista e del playboy: oggi fa i conti con il suo passato e prova a divertirsi ancora.

di Giuliano Malatesta

Nell’anno delle vacanze autarchiche e distanziate, che nessuno ha ancora capito se saranno veramente vacanze, sulle orme di illustri predecessori letterari (Pasolini in primis), abbiamo deciso di raccontare questa strana estate italiana con un viaggio a tappe lungo le spiagge e i luoghi più famosi della costa della Penisola, in un periplo che partirà dalla Liguria e arriverà al Friuli Venezia Giulia. Qui le puntate precedenti.

E finalmente, dopo oltre duemila chilometri, eccoci nella nostra “Nashville patriottica e poliglotta”, dove un tempo si celebrava, parole di Pier Vittorio Tondelli, «la più ardente, improvvisata e autogestita carnevalata rabelaisiana cui sia possibile partecipare in patria. Per questo ogni anno si torna a Rimini: perché questo è l’unico luogo in cui è ancora possibile vivere e innestarsi nel continuum del romanzo nazionalpopolare». Oggi forse meno romanzo e più nazionalpopolare, meno effimera trasgressione nord europea più turismo di famiglia lombardo-veneto, con la pragmatica speranza – molto romagnola – di tamponare i danni e salvare una stagione.

«Non è per tutti, non è per tutti», grida una signora un tantino su di giri, attaccata alla grate del cancello che affaccia sul giardino del (fu) mitico Grand Hotel neanche fossimo a un concerto rock. Intorno una discreta folla di curiosi, i più morbosi con la speranza di visitare la suite 315, quella con le finestre affacciate sul giardino dove il regista romagnolo ammirava una “Rimini che non finisce più”. A Rimini il mito di Fellini resiste nell’immaginario, non sempre glorioso: l’hotel La Gradisca, la spa la Dolce Vita, il negozietto Amarcord e via a scendere. Quasi nessuno si ricorda che il ragazzone fuggì con una valigia di cartone appena dopo la maggiore età e che nella sfavillante riviera non girò neanche un fotogramma. Il mare d’inverno? A Ostia. La stazione di Rimini in Amarcord? L’ingresso di Cinecittà. Non era un capriccio, semplicemente il dato emotivo contava più della realtà. Quando Giuseppe Rotunno, direttore della fotografia, osò posizionare un getto d’acqua davanti alla prua del Rex per dare l’impressione del movimento della nave, Fellini lo interrogò preoccupato: «Non sembrerà vera?».

Rimini però è sempre stata la città dell’accoglienza. Se l’era inventata quasi dal nulla, con il determinante contributo dei marchi tedeschi, Piero Arpesella, che negli anni del boom aveva trasformato il Grand Hotel, in passato anche alcova segreta degli amori del duce e Claretta Petacci, in un tempio di raffinata eccentricità, dove le signore «non prendevano mai l’ascensore ma scendevano le scale fino alla hall, esibendo i loro gioielli come in una passerella di Wanda Osiris». Il cavalier Arpesella fu uno dei primi a comprendere le potenzialità del turismo congressuale e a ragionare intorno al concetto di destagionalizzazione, a quei tempi poco più di una parolaccia. A lui e a suo figlio Marco, che alla fine dei Sessanta fondò “Promozione Alberghiera”, la più grande cooperativa turistica d’Italia, il Comune intitolerà a novembre, dopo qualche polemica con la famiglia, un giardino proprio dietro al Grand Hotel.

Ma a Rimini, e più in generale in riviera, l’industria principe è da sempre legata al popolo della notte. «La chiamano l’industria del sesso», scriveva Pier Vittorio Tondelli in Rimini, polifonico viaggio in una Romagna balneare trasformata in una sorta di Disneyland casereccia. Per cercare di capire cosa sia cambiato da allora Stefano Lucciola mi dà appuntamento al Garden bar di Riccione alla sette di mattina. Io appena sveglio, lui appena tornato da una serata di lavoro. «A Misano, al Villa delle Rose, oggi forse il miglior locale in Italia», racconta, «C’erano duemila persone, per via delle norme anti-Covid. Musica commerciale ma sopratutto trap, perché quest’anno gli italiani sono la maggioranza». Nonostante l’alba sia spuntata da poco qui è già tutto un gran baccano, come fossimo a Trastevere all’ora dell’aperitivo. Ci sono i buttafuori che hanno appena terminato il turno, tutti rigorosamente dell’est Europa – in questo lavoro la selezione è darwiniana – sedicenti Pr che discutono di strategie davanti a un caffè e ragazzi appena usciti dai locali e indecisi se tirarla ancora per le lunghe. Una ragazza che sta servendo al bar, ma che lavora anche alla discoteca Biblios, sentendoci conversare ci aggiorna che il Cocoricò, luogo simbolo della disco commerciale anni Ottanta, riaprirà a settembre.

Sono stato per anni davanti alla porta di un club. Un tempo, prima di entrare, ti chiedevano “C’è fica?” Oggi “Chi suona?”». Dà il segno del cambiamento, in effetti

Stefano è un veterano, uno dei pochi della vecchia guardia che è riuscito a rinnovarsi e a stare al passo con gli stravolgimenti dell’industria del turismo. «Il lavoro è cambiato completamente. Prima era un divertimento, tutto era semplice, oggi devi essere un professionista, curare ogni singolo aspetto alla perfezione, non basta più aprire un locale e aspettare che la gente entri». Negli anni è molto cambiata anche la gente della notte, la tipologia di clienti che si muove per locali in base a determinati interessi. Lo spiega più esplicitamente Stefano, a cui è rimasto un filo di accento romano: «Sono stato per anni davanti alla porta di un club. Un tempo, prima di entrare, ti chiedevano “C’è fica?” Oggi “Chi suona?”». Dà il segno del cambiamento, in effetti.

Il club dove ha lavorato per una vita, prima come buttafuori poi in qualità di proprietario, era il Blow Up, l’ultima luce di Bellariva, leggendario locale dove nei gloriosi Ottanta centinaia di ragazze scandinave dopo aver attraversato mezza Europa si mettevano ordinatamente in fila pur di avere la chance di conoscere Maurizio Zanfanti, in arte Zanza, mitologico playboy romagnolo con oltre seimila donne conquistate, secondo la vulgata. Rigorosamente straniere, tendenzialmente svedesi. A uno sventurato che aveva osato chiedergli  se in questi rapidi incontri di amorosi sensi avesse l’abitudine di utilizzare il profilattico, aveva risposto con una curiosa metafora calcistica: «O si sta in campo o in tribuna».

«A Rimini dopo Fellini c’è Zanza. È sempre stato il numero uno, come Pr e come latin lover», racconta Stefano, facendosi scappare un sorriso, «Ha interpretato alla perfezione il prototipo del vitellone romagnolo. Ma non era uno che amava vantarsi, non gli piaceva la conta delle sue conquiste, erano gli altri a raccontare queste storie leggendarie». Una delle più quotate narra di un riminese in trasferta svedese che alla fine di una serata si ritrovò in camera di una giovane pulzella locale che teneva, sul comodino, una foto del nostro. «Una volta, era il ’95», ricorda Stefano, «con il Blow Up facemmo una promozione sulla Vicking Line, una nave da crociera che faceva la spola Svezia-Finlandia. Non appena salii a bordo trovai la fila di ragazze che ci tenevano a dirmi che erano amiche del Zanza». Maurizio Zanfanti se ne è andato due anni fa, e lo ha fatto – tutti a Rimini ne sono convinti – nell’unico modo in cui uno come lui se ne poteva andare. Forse meritava anche un premio, per la sua indiretta attività di promozione turistica, invece in un Paese bigotto e paternalista come il nostro, perennemente avvolto dal senso di colpa cattolico, gli fu di fatto impedito il funerale in Chiesa. Per aver passato la vita a fare il vitellone. A rendergli omaggio ci pensò la Bild, con un grande e articolato pezzo che titolava cosi: “Italienischer Papagallo machte amore mit 6.000 fräulein”. Non c’e’ bisogno di traduzione.