Attualità

Il bisogno di sentirsi censurati

La Rai e il caso Francesca Fornario: il meccanismo dell'indignazione online ignora anche le smentite. Perché ci piace sentirci vittime di un regime?

di Davide Piacenza

Se c’è modo di entrare nel merito di una polemica senza essere per questo necessariamente incasellati in una delle fazioni che la animano (il dubbio è solo retorico: ci troviamo in Italia, è chiaro che non c’è), si potrebbe dire che il “diktat” con cui l’attuale governo avrebbe imposto una stretta censura a una trasmissione Rai “non allineata” ha lati sommersi da scandagliare. La vicenda, ormai nota, inizia con un post su Facebook dell’autrice e conduttrice radiofonica Francesca Fornario, collaboratrice di Fatto quotidiano, Manifesto e MicroMega, che giorni fa commentava così l’imminente ritorno della sua trasmissione Mamma non mamma su Radio 2:

Ricapitolando: niente battute su Matteo Renzi, niente politica, niente satira, niente personaggi, niente imitazioni, niente copioni, niente “scenette” qualunque cosa siano, niente comicità e che altro… ah, niente battute sul fatto che non si può dire “comunista”. Quel che resta – il mio imbarazzo e bene che ci vogliamo io e Federica Cifola – va in onda ogni sabato e domenica in diretta su radio2, dalle 18 alle 19.30

Il post ha avuto una grande eco sui social e sui siti dei maggiori quotidiani, totalizzando una grande quantità di like, condivisioni e interventi a loro volta più o meno virali. Come ci eravamo indignati per l’«editto bulgaro» berlusconiano del 2002, sostengono in molti, dovremmo mobilitarci per l’ingiustizia e la limitazione della libertà d’espressione di cui Fornario e Cifola sono state vittime (la prima, anche con la conseguente perdita del lavoro, avendo appena rassegnato le dimissioni). Federica Cifola, imitatrice di Mamma non mamma, in un secondo momento è a sua volta intervenuta sulla questione usando Facebook:

Tanto per essere chiari, riguardo al polverone sul programma Mamma non Mamma in onda su Radio2, polverone assurdo che mi vede involontariamente coinvolta, non c’è stata nessuna censura. La rete ha chiesto a me e alla Fornario di orientarci verso una satira di costume, che rispetto alla satira politica sarebbe stata più fruibile per un programma che parla di mamme e non mamme nella fascia oraria estiva del fine settimana. Io faccio Blackout col maestro Vaime da 7 anni e ho sempre fatto imitazioni di personaggi politici senza che nessun direttore sia mai intervenuto sui contenuti. Io sabato andrò in onda, mi dispiace che Francesca non ci sarà…nessuna censura, nessun bavaglio, spero di divertire come faccio da quindici anni su Radio2

La reazione alla lettura in successione dei post delle due conduttrici potrebbe (dovrebbe, in un qualche iperuranio) essere: chi ha ragione? Chi sta dicendo la verità? Qualcuno ha paura per la sua carriera? Qualcuno ha idee e posizioni, politiche e non, che lo portano a essere prevenuto nei confronti dell’attuale esecutivo? Nella realtà di queste ore, tuttavia, questa riflessione non è stata fatta: il primo post di Fornario, come si accennava, ha ricevuto migliaia di mi piace e commenti e solidarietà, e chiamato stigmatizzazioni di vario grado del “regime”; quello di Cifola, mentre scrivo, ha 45 like e alcuni commenti, di cui buona parte ipercritici o direttamente ingiuriosi. In buona sostanza, il secondo è stato ignorato (e continua a esserlo).

Di certo, avesse ragione Fornario, ci troveremmo davanti all’ennesimo caso più che spiacevole di mala gestione della cosa pubblica, un atteggiamento che Matteo Renzi ha promesso a lungo di invertire in nome del suo «cambia verso». Eppure, a mio modo di vedere «l’aria che respiriamo» (cito il titolo di un articolo di Alessandro Gilioli de L’Espresso a commento della vicenda, anch’esso molto ripreso in queste ore) è anche quella in cui un intervento di rilevanza fondamentale viene relegato ai margini del dibattito che dovrebbe plasmare, e coperto dai fischi di un’indignazione già definita al di là di ogni ragionevole dubbio.

Ponendo anche che qualche funzionario renziano eccessivamente zelante abbia deciso di colpire in maniera esemplare una trasmissione scomoda, perché concentrare i propri sforzi censori su un programma del weekend agostano dedicato alle madri? Intendiamoci, non si vuole suggerire che il fatto discusso non sussiste, ma la condizione necessaria perché sussista – la stessa condizione che dovrebbe valere per il caso dell’ex direttrice del Tg3 Bianca Berlinguer, peraltro – è l’esistenza di prove oggettive, il cui onere è giocoforza a carico di chi parla di ritorno del berlusconismo, di bavagli, addirittura di regimi totalitari. E se, come si legge, l’estate scorsa Mamma non mamma aveva già limitato, per volere della rete, le sue imitazioni politiche a due soli personaggi (Angela Merkel e Cristine Lagarde), quale illogico iter ha seguito la censura renziana? E, ancora, ragionare su queste cose è diventato necessariamente da renziani?

Female students at Somerville College, Oxford gag

Ciò che risalta è un certo clima di fondo, che cresce soprattutto sui social network e da qualche tempo contamina il nostro modo di pensare. Un albero che cade fa più rumore di un’intera foresta che cresce, dicevano, e ultimamente pare che gli alberi che cadono siano aumentati fino a ottundere gli altri rumori, appiattendo la vita connessa in una continua, inconsapevole ricerca di motivi di sdegno; facendo del contesto online un malsano susseguirsi di dita che indicano il destinatario della prossima reprimenda, da colpire senza fermarsi a riflettere. Ieri scrivevamo di Bret Easton Ellis, intervenuto sul caso di un giornalista attaccato per un pezzo dai forti contenuti sessuali (o sessisti, per qualcuno), che lo scrittore ha commentato con un eloquente: «L’alto tono morale dei combattenti online per la giustizia sociale non è mai commisurato a ciò che li indigna».

Non significa, tornando nello specifico, che Fornario non abbia fatto bene a condividere ciò che ha condiviso, avendolo giudicato un’intromissione indebita della politica nel suo lavoro. Né, ovviamente, che lo schierarsi dalla parte opposta della sua collega Cifola dipenda da opportunismo. Il tema è che nel flusso ininterrotto di post, like e ricondivisioni i fatti (che spesso sono sfumati, che molte volte hanno un senso completato dai loro contesti di riferimento e che in tutti i casi meriterebbero completezza e approfondimenti) diventano meri incidenti di percorso, estremizzati, marginalizzati o ingigantiti dall’internet outrage. Ma dietro il risentimento autoalimentato ci siamo noi: noi siamo gratificati dall’ammonire i nostri contatti, dal gridare all’emergenza e dal poter esibire ideali in cui magari crediamo sinceramente. Preferiamo, in questo caso specifico, sentire le sferzate indebite della censura rispetto al provare a concepire che la risposta di Cifola meriti la stessa eco del post di Fornario.

Il meccanismo che si aziona in queste evenienze – che in ballo ci sia un post, un tweet o quel che chiamiamo “una bufala” – ha poco a che fare con la ricerca della giustizia e molto col giustizialismo rancoroso: in valore assoluto è identico allo spirito di corpo e alla sgradevolezza che dichiara di voler debellare. Anche se la verità spesso ha più a che vedere con la pacatezza che con le urla, le conclusioni certe sono più desiderabili, funzionano meglio. L’albero caduto, quello che fa più rumore, è l’unica cosa che conta.