Attualità

Remake di una strage

È una buona idea romanzare una pagina controversa del nostro passato, dando per scontata la Storia?

di Vincenzo Latronico

La strage

Ho visto Romanzo di una strage, e mi è venuta voglia di scriverne. Della strage non mi sento di dire granché. Ciò che ne so, lo so dai libri; l’autore di uno di questi, Adriano Sofri, ha già discusso a fondo l’aderenza ai fatti della ricostruzione di Giordana, e del saggio su cui si è basato. Il rasoio di Occam mi suggerisce che la presenza di una bomba sia più probabile della presenza di due. Del romanzo, in compenso, mi sembra da romanziere di essere più autorizzato a parlare: nello specifico, ne parlerò male.

Il romanzo

Cominciamo con una domanda: che cosa significa il termine “romanzo”, nel caso di un film? Potrebbe significare un rimando al “romanzo delle stragi” di Pasolini, ma sarebbe ingeneroso. Il romanzo di cui scriveva Pasolini sul Corriere della Sera nel ’74 era una ricostruzione da «pezzi disorganizzati e frammentari», un tentativo di ristabilire «la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero». Il romanzo di Giordana ristabilisce ben poco: ciò che raffigura lo desume da testimonianze, sentenze, dichiarazioni. Il romanzo di Pasolini traeva la propria urgenza dal fatto di venire prima della ricostruzione ufficiale: dopo, si potrebbe dire, è facile.

Ma in realtà è evidente che, al di là dei padri putativi, il titolo del film rimanda a Romanzo Criminale (di cui, immagino, spera di ereditare con le intenzioni il pubblico). L’intenzione autoriale pare analoga – drammatizzare, con espedienti narrativi propri della fiction, certi fatti della più torbida storia d’Italia. Ed è, a mio parere, una delle intenzioni più meritorie ed efficaci che possa darsi un narratore in Italia oggi. La storia recente del nostro Paese spesso non si sa, o si sa in modo confuso (ogni anno un sondaggio-shock rivela che una percentuale altissima di studenti medi attribuisce la strage di piazza Fontana alle BR, o tutt’al più a Pinelli); l’idea di riscattarla dalla precisione polverosa e forse ormai poco accattivante delle “controinchieste” e dei “dossier”, guadagnandole un nuovo pubblico con un nuovo linguaggio, ha indubbiamente un valore civile. Il romanzo, insomma, può servire la storia.

Ed è vero anche il contrario. La storia di quegli anni in Italia, anche sospendendone il significato politico, è un patrimonio narrativo impareggiato – questa, in un certo senso, era anche una delle idee, e a mio parere la più interessante, dietro la cosiddetta New Italian Epic. Solo nel film di Giordana sono presenti cinque bombe, sei o sette fazioni in lotta, tre livelli di spionaggio e controspionaggio e contro-contro-spionaggio, i servizi segreti di due democrazie e di una dittatura, e la scoperta casuale di una gigantesca santabarbara sotterranea. Dumas se lo sognava, un materiale così, e non occorre neppure immaginare la trama (come era invece necessario a Pasolini): è già tutta lì.

Il romanzo e la storia

Al genere si possono dare tanti nomi, tutti orrendi – ho sentito di faction e fictory e docufiction – ma in buona sostanza è sempre esistito: è quello che ha fatto Costa-Gavras con Z, è quello che ha fatto Sorrentino con Il Divo, è quello che ha fatto per tutta la vita Erodoto, che non a caso è molto più divertente di Tucidide. Certo, c’è una dose di partigianeria implicita già nella scelta del tema da trattare: a meno di falsificazioni conclamate, in storie come quella di piazza Fontana è chiaro, fino a un certo punto, da che parte staranno i colpevoli, da quale gli innocenti. Non lo decide l’autore. Proprio per questo, però, mi è sempre parso che il genere conceda ampio spazio di manovra per dare il cosiddetto “volto umano” (cioé: una psicologia interessante, dei bei dialoghi) anche ai colpevoli. Ho trovato estremamente efficace, in questo, un film come Frost/Nixon: proprio perché non era necessario fondare narrativamente la colpevolezza di Nixon (ci aveva già pensato la commissione Watergate), l’autore ha avuto modo di dipingerlo come un personaggio complesso e affascinante senza che ciò fosse visto come un tentativo di riscatto storico. Lo stesso vale dei personaggi di Romanzo Criminale e, anche se forse in maniera diversa, dell’Andreotti di Sorrentino.

Quale romanzo?

Vorrei poter dire lo stesso del film di Giordana: ma per quanto ho potuto vedere, lì di personaggi non ce ne sono. Ci sono varie figure il cui nome e le cui azioni ricalcano quelle di persone storicamente coinvolte nei fatti di piazza Fontana (Pinelli, Valpreda, Delle Chiaie); a ognuna di esse, come nei fumetti a tema evangelico della chiesa copta, è associata un’espressione emotiva esasperata e priva di sfumature (Saragat: accigliato; Moro: preoccupato e partecipe). I protagonisti ne hanno due (Calabresi: determinato e incrollabile / tormentato e dubbioso). Nessuna di queste persone compie un singolo gesto che non sia essenziale all’attentato o alle indagini che ad esso seguiranno. Non vanno in banca senza una bomba in valigia, non vanno in macchina se non per correre sul luogo di un delitto, non dicono alla moglie se non frasi apparentemente banali rese profetiche da ciò che seguirà.

Insomma, ciò che in un romanzo si chiama la “costruzione del personaggio” – lo sfondo, la personalità, il carattere – è qui drammaticamente assente: gli anarchici e i poliziotti e i fascisti di Giordana non offrono alcuna indicazione di essere degli umani, oltre che dei testimoni o degli inquirenti o dei colpevoli. Si potrà obiettare che la “costruzione del personaggio” è un espediente falsificante, e che non era necessario costruire nulla, perché quelle persone sono esistite davvero, e che qui non si tratta di una storia, ma della Storia. Tutto vero: ma qui il titolo dice “Romanzo”, non dice “libro di storia”. Ciò che dovrebbe distinguere la “fictory”, o come la si voglia chiamare, dalla recitazione drammatizzata dei verbali è proprio ciò che Giordana evita: la costruzione del personaggio. Romanzare la storia non significa far interpretare a degli attori il ruolo dei testimoni e degli inquirenti e dei colpevoli: significa far vedere che questi ruoli sono riduttivi, e spesso intrecciati, e spesso complicati dalle circostanze, e spesso in contraddizione con alcuni aspetti puramente umani delle persone che li interpretano. Altrimenti il “romanzo” è solo un espediente per scroccare una trama ai libri di storia, incoronando di impegno civile un’opera di per sé mediocre.

Quale storia?

Queste impressioni, va detto perché salta all’occhio, sono in contraddizione con giudizi ben più autorevoli del mio. Quasi tutti i giornali che se la sono presa con la ricostruzione di Giordana, infatti, ne hanno parallelamente lodato la sapienza narrativa, il ritmo, la regia: il “romanzo”, appunto. Non presumo di saperne più di loro. Come mai, allora, dissento? Ho una teoria: secondo me è perché un critico (o uno spettatore) che c’era – che può ricordarsi i fatti del 1969, o che ha attraversato da adulto o adolescente la lunghissima elaborazione politico-giudiziaria di quei fatti che ha accompagnato gli anni ’70 e ’80 – non può vedere quel film come un romanzo; lo vede come il remake di un romanzo che ha già letto, che ha imparato a memoria, e di cui conosce ogni dettaglio. Non lo guarda per sapere come va a finire: lo guarda per sapere dove si discosta da ciò che sa già.

A cosa serve “romanzare” la Storia? A renderla accattivante; a complicarla con dettagli inutili e sfumature; a raccontarla. Ma tutte queste caratteristiche assumono importanza solo quando il pubblico, quella Storia, non la conosce già.  Non è questo il caso, ad esempio, di Adriano Sofri – che loda il film pur deprecandone l’affidabilità. Quando Sofri guarda Romanzo di una strage non ha bisogno di essere accattivato, né di conoscere dettagli e sfumature: li conosce già. Sofri, e come lui chiunque abbia vissuto quegli anni o quelli successivi, non guarda il film per sapere cosa succede, o come va a finire: lo guarda, comprensibilmente, chiedendosi quale ricostruzione è stata seguita e come mai. Il coinvolgimento e la fascinazione e la presa emotiva – ciò su cui si misura il romanzo – per Sofri o un suo coetaneo ci sono a prescindere: perché in quella vicenda erano davvero coinvolti, se non personalmente almeno a livello collettivo.

Sarebbe interessante far vedere questo film a qualcuno, magari un gruppo di studenti di quelli maltrattati dai sondaggi, che non abbia mai sentito parlare di quel periodo della storia d’Italia. Non avrebbe idea di chi è, ad esempio, Aldo Moro, che non è mai presentato; non avrebbe idea di chi è quel Feltrinelli cui la polizia vuole addebitare le bombe (fa il libraio?); non avrebbe idea di cosa è successo di tanto importante in Grecia; di tutto questo nel film non c’è traccia. Non avrebbe idea, insomma, di quasi tutti gli elementi che proiettano una vicenda tutto sommato individuale (un ferroviere innocente morto in circostanze estremamente sospette, durante un interrogatorio ingiustificato e brutale) nel cuore della storia politica e collettiva di un paese. Ma questo è proprio il motivo per cui questa storia vale la pena raccontarla; e questo motivo, dalla visione del film, non traspare. Viene presupposto.

Si può obiettare: aggiungendo tutte queste cose mancanti (i personaggi, il contesto) a un film già lungo due ore e mezza si ottiene una tetralogia. E a questo si può rispondere: facciamo una tetralogia, purché sia una tetralogia che la storia la racconta, invece di darla per scontata. Così facendo, infatti, Giordana è riuscito a creare un film che non è un romanzo – perché, come i saggi, non costruisce l’interesse del lettore per la trama, ma lo presuppone – e che non è neppure un libro di storia – perché piega comunque la vicenda a un minimo di esigenze narrative. Il “romanzo”, da meccanismo narrativo, diventa alibi per la mancanza di fedeltà; la “storia”, da contenuto, diventa presupposto e quindi barriera all’ingresso. Non stupisce che il risultato piaccia a chi sa già come va a finire.

I veronesi che si baciano

Facendo il remake di una storia ad uso e consumo solo di chi già la conosce, Giordana si è comunque inserito in una lunga ed illustre tradizione: quella dei mitografi. Per millenni, in letteratura si è considerato perfettamente accettabile (e anzi, incoraggiato!) riscrivere storie già note, appartenenti a un patrimonio comune: lo ha fatto Shakespeare, lo ha fatto Sartre, lo ha fatto Virgilio, lo avrebbe fatto Omero, se fosse esistito. Perché lo facevano? Per mostrare ai contemporanei la rilevanza di qualcosa ritenuto passato, per misurare la propria bravura con quella dei grandi maestri, per centrare al cuore uno dei “temi eterni” della letteratura con una storia levigata nella sua perfetta essenzialità da secoli di tradizione. Sono nobilissimi motivi: come nobili devono essere stati i motivi di Giordana. Anche il risultato, in qualche modo, è simile: il suo Delle Chiaie manca di psicologia così come manca di psicologia Eracle; Feltrinelli è senza passato come è senza passato Mercuzio. Certo, c’è da chiedersi se trattare la storia di piazza Fontana come un mito o una parabola – al pari delle sirene, di Marsia e Apollo, dei veronesi che si baciano – sia davvero una buona idea.