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Il mestiere degli esteri

Intervista a Daniele Raineri, giornalista del Foglio, sull'importanza di un argomento in Italia troppo spesso sottovalutato.

di Davide Coppo

Egitto, 2013, piazza Al-Nahda (Photo credit should read MOSAAB EL-SHAMY/AFP via Getty Images)

Per diversi anni, o decenni, la politica estera è stata una delle ramificazioni fondamentali di ogni governo italiano. C’entrava l’importanza geografica dell’Italia, il suo ruolo nel Mediterraneo, e anche quello, industriale e politico, nel Dopoguerra. I ministridegli affari esteri italiani sono stati, nell’Italia repubblicana, De Gasperi, Nenni, Fanfani, Saragat, Forlani, Andreotti, De Michelis, e poi Frattini, D’Alema, Bonino, Mogherini, Gentiloni. Oggi, un ministero un tempo delicatissimo è stato affidato a Luigi Di Maio, che ha pensato di “ironizzare su se stesso” e sulla sua abbronzatura, a fine agosto 2020, pubblicando sui suoi canali social delle blackface.

Allo stesso modo, il giornalismo dedicato alla politica estera è stato costretto a sanguinosi tagli che rendono sempre più difficile, per gli inviati, viaggiare, spostarsi, e rimanere a lungo in un Paese. Eppure, in un mondo sempre più globalizzato, gli “esteri” dovrebbero essere fondamentali, sia nel giornalismo che nella politica attiva. Abbiamo chiesto come è cambiata la percezione degli esteri a uno dei migliori esperti italiani in materia, Daniele Raineri del Foglio.

ⓢ Come è cambiato lo spazio per gli esteri in questo 2020 tra il tragico e l’assurdo: è diminuito ancora di più?
Io penso che chi fa esteri in Italia deve accettare fin dal primo momento le regole del gioco: che cioè conta molto di più quello che succede in Italia di quello che succede all’estero, nella percezione. Poi lo sappiamo che conta molto di più il prezzo del petrolio che la politica interna. Con il Covid-19 c’è questo rattrappimento sulle notizie di interni, però sono tempi eccezionali: negli ultimi anni invece io avevo notato il contrario, cioè che si parla sempre di più di esteri. E secondo me è anche un fatto generazionale: come sappiamo in Italia c’è uno strapotere dei vecchi, ma sono però le generazioni successive, forse perché hanno viaggiato di più o hanno già vissuto all’estero – ormai noi siamo una generazione che esporta immigrati – che conoscono l’importanza di quello che succede fuori dai confini.

ⓢ Tu come hai viaggiato?
Io mi cercavo diversi sponsor: oltre al Foglio, facevo un pezzo per gli svizzeri, sono andato in Iraq e ho fatto pezzi per Panorama, in Siria ho fatto video per La7. Ma penso che questa sia una cosa normale: come in tanti settori i tempi d’oro sono finiti, e bisogna aggiustarsi così.

ⓢ Non è più quello di Professione: reporter
Secondo me una delle difficoltà di questo mestiere, a cui penso spesso, è questa: i colleghi del politico se sono bravi riescono in due parole a creare un’atmosfera, perché molte cose sono già conosciute. Se loro dicono: «Ho visto al tavolo di un bar la Santanché con Di Maio»… bum, zaffata di zolfo, è l’inizio di un articolo che chiunque vorrebbe leggere. Mentre se io devo spiegare che l’ex presidente pachistano, virgola, Pervez Musharraf, virgola, si è incontrato con… insomma, la storia ha già perso di mordente, a parte se non sei un appassionato di cose pakistane. E quindi c’è questa difficoltà nell’evocare subito delle atmosfere nei pezzi.

ⓢ C’è più disattenzione verso il teatro mediorientale rispetto ad altri esteri?
No, secondo me invece è il contrario. Sempre partendo dal fatto che in generale c’è molta disattenzione, se ci pensi il Medio Oriente è un pugno di terre molto rissose che però hanno una capacità abbastanza bassa di influenzare il nostro futuro. È la Cina, l’Unione Europea, l’America sono le cose di cui dobbiamo occuparci se vogliamo capire cosa succederà al mondo nei prossimi 20 anni. Tutto sommato, se in Siria e in Iraq ci si comporta come se fosse tornato il Medioevo… sì, è pittoresco, ma quanto cambierà le sorti del mondo? Penso poco. Ma mi sembra che il livello di attenzione, sempre parlando per proporzioni, sia ancora molto alto per il Medio Oriente.

ⓢ Questo anche per un rapporto italiano con l’area mediterranea molto legato agli anni Settanta e Ottanta.
Funziona come per i generali prontissimi a vincere l’ultima guerra: così è anche nei media, si rimane attaccati agli eventi che hanno monopolizzato negli anni scorsi attenzione e risorse. La guerra in Iraq, in Afghanistan. Io poi figurati, sono interessato alle vicende della famiglia Assad, a Hezbollah, ma mi rimane sempre nel retro del cervello che i temi di questi anni sono il 5G, l’intelligenza artificiale, la genetica. Io, essenzialmente, mi occupo di gente che si dà mazzate sul cranio.

ⓢ L’Est Europa è invece un’area che storicamente ha prodotto più ambiguità e imbarazzi di altre, un tempo alla sinistra e ora alla destra, in Italia. O meglio, politicamente è sempre stato così, se penso all’Unione Sovietica e alla Russia, e al silenzio su Navalny e Lukashenko. Ma giornalisticamente?
Giornalisticamente non ha prodotto imbarazzi, nel senso che in molti non hanno fatto una piega: nel 2012-2013 c’è stata una corsa a schierarsi con Putin come se fosse la cosa più naturale del mondo. Mi chiedo sempre se sia stata una cosa naturale, accaduta per affinità ideologica, o se in qualche caso non ci fosse un interesse personale. È una cosa che è successa a un pezzo intero del Paese, non soltanto a qualche giornalista. È lo stesso settore che oggi è contro le mascherine e pensa che il Covid sia una bufala. Non si capisce perché molti abbiano abbracciato l’idea epica di Putin e della Russia, un Paese che ha il pil della Spagna e dove la vita media è più corta di dieci anni rispetto all’Italia. Da noi Putin è stato preso come un eroe anti-Islam, mentre coltiva alleanze strette come quella con Kadyrov in Cecenia, che impone un Islam stile talebani al Paese, o quella opportunistica con l’ayatollah Khamenei in Iran.

ⓢ Il giornalista di esteri quindi rischia di avere “aree” di preferenza che agiscono come bias.
Assolutamente sì. Al Foglio, ad esempio, facciamo una riunione di esteri prima della riunione di redazione, e una delle ragioni per cui la facciamo è cercare di annullare questo assetto qua. Per capire se una cosa che mi interessa poi interessa soltanto a me. Io mi rendo conto che dopo un po’ che segui certe storie, che poi hanno dei colpi di scena spettacolari… Prendi la Libia: con quello che è successo in Libia ci puoi scrivere film e romanzi, però è facile perdersi, e poi lisciare notizie tipo il sequenziamento del genoma fatto in Cina.

ⓢ Come funzionano i contatti, quelli preziosi coltivati sul luogo: vanno continuamente curati, unti, lucidati?
Il problema dei contatti è che non puoi farti vivo quando ti serve. Quindi ci sono dei giorni in cui ti stai occupando di Trump che sta facendo il matto, e però ti scrive tizio dalla Siria e allora niente, devi rispondergli, intavolare una conversazione, stare attento. A volte capita che abbia aperte più conversazioni che non sono minimamente legate con quello che succede quel giorno, che non c’entrano niente con quello a cui sto lavorando, ma non puoi glissare o ignorarle, perché arriva il momento in cui hai bisogno di un’informazione in un minuto. È la parte più delicata, forse, del lavoro.

ⓢ Per stare in Italia: gli ultimi governi si sono disinteressati molto alla politica estera. Considerato chi occupa quello che un tempo era un ministero delicatissimo, l’Italia ha rinunciato ormai ad avere un ruolo di primo piano?
Assolutamente sì. L’Italia ha un atteggiamento rinunciatario, forse anche perché sanno che non riuscirebbero a giustificare con gli elettori niente di più di una diplomazia di galleggiamento. Mi sembra che siano inerti, passivi, fanno dei grandi comunicati e niente. La Libia è un esempio chiarissimo.

ⓢ Al Festivaletteratura di Mantova 2019 Domenico Quirico disse che trovava quasi ingenui tutti questi appelli alla verità per Giulio Regeni: disse che in Egitto, purtroppo, funziona così, è così che funziona il Mukhabarat (nome arabo dei servizi segreti, nda), che fa sparire senza complimenti chi è scomodo al governo. Che non ci sarà mai nessuna verità per Giulio Regeni.
In questi ultimi anni, a un certo punto, per tutti, c’è stato un momento in cui ci siamo resi conto del Grande Spappolamento. Cosa vuol dire: c’era un ordine, più o meno, e a un certo punto quest’ordine si è spappolato, e da lì tutto è diventato possibile. Non so se te ne sei accorto. Ma le cose più o meno funzionavano secondo certe categorie, e invece dopo il Grande Spappolamento tutto è diventato possibile. Trump presidente, ad esempio, ci sembra perfettamente lecito. Ma prima del Grande Spappolamento certe cose non potevano succedere. Per me il momento in cui ho capito questa cosa qua è stato mentre leggevo un articolo molto semplice sulla Stampa, che parlava del fatto che i leghisti, al consiglio comunale di Torino, erano usciti dall’aula per non appoggiare una mozione che chiedeva la verità su Giulio Regeni. Ovviamente non penso che l’Egitto si possa sentire vincolato a rispondere al Comune di Torino, ma mi aveva colpito che i leghisti fossero usciti, e avevano anche spiegato alla Stampa il perché. Al-Sisi è il baluardo contro l’islamizzazione dell’Africa, dicevano. Non so se ci rendiamo conto: questi pensavano che non si dovesse chiedere giustizia per un ricercatore italiano torturato e trucidato in maniera orrenda in Egitto perché in qualche modo questo avrebbe disturbato il “baluardo contro l’islamizzazione dell’Africa”. Ma non c’è un legame tra le due cose! E a ben vedere, lo Stato Islamico lo combattiamo perché tortura e trucida. Però se poi ci trucida quello che in teoria è il baluardo contro lo Stato Islamico siamo punto e a capo. Il mio obiettivo originario era non essere trucidato!

È il famoso bias dei sovranismi.
Che un manipolo di torturatori arabi abbia la solidarietà di un partito politico italiano che rivendica il primato dell’italianità… Ma te li puoi immaginare questi qui dei Servizi di sicurezza egiziani: saranno dei brutti ceffi con i baffi, i giubbotti… la stessa gente che questi, a Varese, metterebbero in prigione soltanto a guardarli in faccia. Basta, c’è qualcosa che si è definitivamente spappolato. Non è più possibile mettere le cose insieme come erano prima.

ⓢ Però se ci pensi, senza voler affievolire il ridicolo di questa destra, quello che facevano i missini con Settembre Nero non era poi così diverso.
Eppure secondo me c’è qualcosa di più: questi non sono più quelli del Msi, questi se li metti tutti insieme arrivano al 50 per cento, e quello che dicono suona perfettamente sensato a una parte enorme della popolazione.

ⓢ A proposito di cose che pensavamo non sarebbero più successe: a fine 2019 delle immagini riprese con un drone, nello Xinjiang, mostravano centinaia di musulmani Uiguri legati, bendati e in attesa di essere caricati su dei trasporti speciali. Quando l’ho visto, ho ripensato ai trasporti diretti a Treblinka o Sobibor, alle prime testimonianze degli stermini uscite nel 1942, al silenzio della Chiesa e anche, all’inizio, dell’Occidente. Questa è una cosa agghiacciante, e non ne sta parlando nessuno.
C’è questo grande equivoco che bisogno liquidare. E cioè la convinzione che siamo nel 2020 e tutto quello che succede è a portata di tweet, che ci accorgeremmo di tutto. Quando non è assolutamente vero, e ci sono delle zone di oscurità di cui non sappiamo e non capiamo nulla, e di cui nessuno si sforza di capire nulla. E questa storia degli Uiguri ha dimensioni incredibili: parliamo di milioni di persone, e anche di una guerra culturale che la Cina sta facendo. Ho letto che quando vengono portati in questi campi di internamento, nelle famiglie la Cina inserisce un soldato che sta in casa, e che fa da “presenza ingombrante”, costringendo la famiglia a comportarsi in un certo modo, rinunciando a tutto quello che potrebbero fare tra le proprie mura, vivendo secondo le tradizioni. Se ci pensi, sembra fantascienza, di quella brutta. Eppure questa storia non riesce a scalfire l’Occidente. Periodicamente la cosa affiora, e poi niente.

ⓢ Pensiamo sempre che le macerie e le tragedie appartengano a un altro secolo.
È il Grande Spappolamento: cose che pensavamo non potessero essere più possibili, che invece tornano. L’Egitto, quando ho iniziato a fare questo mestiere, era il Paese mediorientale da “entry level”: vai in Egitto, come dire, a studiare, o a Sharm el-Sheik. Era una destinazione amichevole. Oggi ci pensi due volte a fare un biglietto aereo per l’Egitto. E se guardi la mappa del mondo, i posti che stanno diventando scuri, in cui non si può più andare, stanno moltiplicandosi: la mappa si sta annerendo.