Attualità

Racconto da una casa di Bruxelles

I giorni passati in una città improvvisamente assediata, dove anche una coppia può dividersi su cosa fare e andare al bar diventa un gesto provocatorio.

di Giulia Mensitieri

La mia principale attività delle ultime settimane è stata rispondere ai vari «come va?», «tutto a posto?», «che aria tira lì»? Ero interpellata in qualità di ex residente a Parigi, di amica di residenti a Parigi, di persona che è andata a Parigi dopo il 13 novembre, e talvolta anche di antropologa. Poi la scena si è spostata a Bruxelles, città dove vivo da 3 anni con il mio compagno, indigeno del luogo. E allora mi si è chiesto dai quattro angoli del mondo (mio zio in Brasile, i miei amici in Messico, più ovviamente amici e parenti tra Napoli e Parigi), di geolocalizzarmi rispetto al nuovo topos mediatico: Molenbeek. Con spirito sarcastico ho assistito non solo alla costruzione di un “altro” da stigmatizzare, ma anche alla sua traslazione in periferia. Un posto così, come Molenbeek, non può essere in centro, a 2 chilometri dalla Grande Place, come invece è. Poi però sabato mattina mi sono svegliata e ho acceso il cellulare. In uno stato di coscienza ancora appannato dal sonno ho letto cose tipo allerta 4, allerta massima, metrò chiusi, restare in casa, evitare il centro, mercati chiusi, concerto dell’incartapecorita e botoxata star della francofonia Johnny Hallyday annullato, e via discorrendo.

Il mio primo pensiero è andato al concerto al quale avevamo previsto di assistere a qualche metro dalla Grande Place, e dove avevo intenzione di esorcizzare con danze e alcol le tensioni accumulate sui media, nelle strade di Parigi, sul Thalys (treno che collega la capitale francese con quella belga), e poi nelle vie di Bruxelles, dove avevo constatato la presenza di carri armati e di militari col volto coperto. Il nodo nello stomaco non era causato dallo stato di allerta, ma dall’intuizione che alla nuova fase se ne stava accostando un’altra, che riguardava me e colui che giaceva semi dormiente al mio fianco. Gli ho fatto un riassunto secco e succinto di quanto avevo letto. Ho chiosato con un drastico «non andremo al concerto stasera». La reazione è stata esattamente quella che mi aspettavo. Jean, addormentato e infastidito dal mio modo di iniziare la giornata, ha biascicato qualche parola che in un istante ha ridotto le scelte militari di uno Stato alla mia personale paranoia, o almeno così mi sembrava.

Brussels On High Alerts As Terror Threat Closes The Belgian Capital

Ho realizzato che ci aspettavano tempi duri, fuori casa come dentro. Tra i caffè, le colazioni e i primi messaggi che chiedevano notizie e invitavano alla prudenza, abbiamo cercato di capire cosa stava succedendo incrociando le notizie dei vari siti. Arnaldo, l’amico che suona, ha scritto su Facebook che il concerto era confermato, e che più che mai c’era bisogno di musica. Io ho cercato di argomentare che il locale  non solo si trovava a 400 metri dalla Grand Place, ma per di più si trovava nella zona più densa in locali del centro città; se gli attentatori volevano riprodurre qualcosa di simile a quanto avvenuto a Parigi, il luogo si prestava a essere preso di mira.

Fuori nevica per la prima volta nell’inverno, la città è stranamente silenziosa per un sabato mattina. Dentro e fuori si respira la tensione. Sono le 13 quando Jean con aria di sfida mi comunica che va a bere un caffè con Fazia, un’amica. Sono cinque ore che assorbiamo informazioni grottescamente allarmanti, e lui esce a bere un caffè, con un’amica, in un bar, oltretutto a Place Flagey. Tra i numerosi bar della piazza figura il coolissimo café Belga, dove nel dicembre 2014, quando ancora non avevamo capito che ai conflitti globali si partecipa anche passivamente, un tipo aveva fallito il suo tentativo di fare esplodere qualcosa. La sua provocazione mi appare quindi multipla, così come la sua incoscienza. Fuori di me ma controllata, gli chiedo con freddo disprezzo di non andare e, se proprio deve, di avere almeno il garbo di rispondere a TUTTI i miei messaggi.

Le ore che seguono sono un inferno. Mi affaccio alla finestra e vedo un triste deserto. Consulto i siti e vedo i posti che attraverso normalmente militarizzati, vuoti. Tutto mi sembra d’un tratto estraneo e lontano. Il mio cervello non riesce a fare la sintesi delle informazioni, a digerirle. Le immagini  che vedo appartengono al Cile o all’Argentina delle dittature, a qualche posto in Medio Oriente (anche se l’architettura stona parecchio), al massimo alla Svezia, ma non di certo al posto dov’ero ieri, a mezz’ora a piedi da casa. Capisco bene che tutto questo è un tournant, come si ama dire in scienze sociali da queste parti. Nulla sarà più come prima, è questo che ci diciamo al telefono con le amiche che abitano a Parigi, a Bruxelles, a Lille. Le prospettive di vita disegnate sino a ora si incastrano in maniera diversa e le gerarchie di propositi si modificano alla luce dei nuovi dati. I postdottorati, gli insegnamenti all’estero, i progetti artistici scendono in basso a tutto in virtù di un nuovo lusso, una tranquillità vagheggiata in bucolici borghi di periferiche regioni europee.

Quelli che reagiscono al controllo con l’evasione, quelli che fanno del bar un gesto politico contro la strategia del terrore

Intanto Jean è al bar. Capisco in fretta dai post su Facebook che il conflitto che viviamo nelle mura domestiche traduce in realtà due posture, due scuole di pensiero. Ci sono i cacasotto, prudenti, allarmisti allarmati, impanicati angosciati, bravi cittadini obbedienti, e poi ci sono i “ma che ce frega ma che ce importa”,  quelli che reagiscono al controllo con l’evasione,  quelli che fanno del bar un gesto politico contro la strategia del terrore.

Dopo ben due ore in cui ho attraversato tutti gli stati d’animo, ho letto tutto e il contrario di tutto, ho risposto ai vari WhatsApp, sms, messaggi e telefonate, chiamo Jean per sapere dov’è. Mi risponde beffeggiandosi amorevolmente della mia ansia, cosa che mi manda fuori di me. Finalmente torna a casa. Continuiamo a leggere siti, guardare notizie che in realtà non dicono niente a parte ripetere che l’allerta è massima, che si teme un attentato con armi e esplosivo, che bisogna stare lontano da tutto, che bisogna stare chiusi dentro. Il tempo non passa, è pesante, lungo, dilatato. Mia sorella, che vive a sette minuti a piedi da casa mia, mi invita per una merenda. Ha fatto un dolce al limone e ha invitato altre due amiche vicine. Il nuovo discrimine nella socialità è la vicinanza geografica. Temeraria e bisognosa d’aria, decido di andare. Jean non è assolutamente preoccupato dalla mia uscita, ma io sento la necessità di consultare amici e di comunicare ufficialmente che «sto uscendo».

La situazione per strada è inedita. La gente è poca, pochissima. Le macchine pure. Incrocio sei persone nel tragitto. Tutti camminiamo veloce. È evidente che per tutti l’essere fuori si riduce a spostamenti funzionali. Anche se ho portato le cuffie, non le metto, per essere vigile. Tutte le persone che incrocio mi controllano. Io le controllo a mia volta, con aria diffidente. Le pochissime persone affacciate alle finestre mi sorvegliano. Ogni macchina che passa è un sussulto. Un unico individuo attende a una fermata dell’autobus. È addossato contro il pannello della fermata, come se volesse proteggersi.  Arrivo da mia sorella. Si ride, si scherza, si esorcizza; poi riesco, e ricomincia l’itinerario nella fobia.

Brussels On High Alerts As Terror Threat Closes The Belgian Capital

Domenica lo stato di allerta è confermato. Dal sabato sera ospitiamo Fazia, la nostra amica, che vive sola. Tutti hanno voglia di stare vicini, insieme, come per creare una forma di resistenza a quello che succede fuori. Viviamo sopra un incrocio che abitualmente ci delizia con clacson, sirene, grida, suoni del tram. Ma ora non si sente volare una mosca di notte come di giorno. La giornata passa in un flusso continuo di letture di articoli, discussioni, ipotesi, video, comunicazioni con gli uni e con gli altri. Il tutto è scandito dai pasti, consumati a orari non ortodossi. Non abbiamo più insalata, verdure, né formaggi. E non ne posso più di mangiare pasta.

Alle diciannove mi chiamano da Napoli e mi chiedono come va, dato che in tv hanno detto che c’è un’operazione in corso. Jean è andato da un amico, dovrebbe tornare a momenti. Riparte l’ansia. Inveisco contro le false allerte mediatiche, ma le informazioni che mi riportano mi sembrano troppo precise per essere false. Sul sito della Rtbf, la radio televisione belga, appare un tweet che conferma quanto mi era stato detto. Chiamo Jean per sapere dov’è e dirgli di non uscire. Lui paternalisticamente mi dice che eviterà i pericoli. Con Fazia seguiamo gli aggiornamenti. Le operazioni si svolgono anche a Etterbeek, quartiere non lontano dall’università, abitato da molti studenti. Hanno trovato un arsenale, hanno evacuato dei posti. I media dicono poco e niente. Jean è tornato. Con maggiore distacco e in maniera intermittente segue anche lui i tweet e i post sul sito della Rtbf. Non ci si dice granché. Rivediamo il video del fratello di Salah Abdeslam, “nemico numero uno” che interviene al telegiornale delle tredici. Commentiamo il suo look e il suo habitus, come si direbbe nel gergo a me familiare, da classe media ascendente, e la bassezza del servizio che insiste sul fatto che questi ha «una fidanzata bionda e cattolica».

La polizia twitta alla cittadinanza chiedendo di non diffondere alcuna informazione relativa alle operazioni in corso sui social network, al fine di non interferire. Questo attesta di un nuovo rapporto tra autorità e cittadinanza, un rapporto in cui le prime non hanno più il controllo totale della situazione. Vediamo l’edizione speciale del telegiornale e deridiamo con amarezza il provincialismo del primo ministro belga, nonché della grande maggioranza dei giornalisti. Più che la televisione nazionale di uno Stato europeo, sembra di assistere ad un palinsesto di una televisione regionale, quasi artigianale. Questo aspetto del Belgio che tanto ci ha fatto ridere in altri momenti adesso ci indispone.

Brussels On High Alerts As Terror Threat Closes The Belgian Capital

Alle ventitré ci viene comunicato che le operazioni sono concluse. Non si sa assolutamente nulla di quanto avvenuto. Apprendiamo poco più tardi che un portavoce della polizia terrà una conferenza stampa. L’edizione straordinaria del telegiornale fa commenti sul nulla, reitera delle ipotesi, ma almeno finalmente vediamo qualche immagine impressionante. Nessuno sa niente, e in più viene chiesto di non dire niente. La conferenza stampa è spostata a mezzanotte. Si continua a ricamare. Siamo esausti, ma vogliamo aspettare di capire qualcosa. Alle 00:40 circa appare il portavoce. Annuncia che non risponderà alle domande, e che non dirà nulla in più di quanto previsto, per non condizionare l’inchiesta.

Il comunicato viene definito a giustissimo titolo dalla cronista «blindato». La cosa più inquietante e che ci hanno messo un’ora e quarantacinque minuti per dire quello che ci viene detto, cioè quasi niente. Apprendiamo solo che le operazioni si sono svolte in ben cinque quartieri della città, e non unicamente in due come era stato lungamente ripetuto. Sedici persone «hanno perso la libertà», Salah non è stato trovato, non c’è nessun ferito a parte un tipo che si è volontariamente scontrato con un’auto della polizia. Non hanno trovato armi, dicono, nonostante un comunicato precedente avesse sostenuto il contrario. Andiamo a dormire.

Oggi c’è il sole e l’atmosfera e glaciale in senso letterale e figurato. Le scuole sono chiuse, le banche pure, così come i centri commerciali, i musei, le università, le metropolitane. Il silenzio è ancora assoluto e io voglio uscire.

 

Le immagini di Bruxelles sono di Ben Pruchnie/Getty Images