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I conservatori inglesi hanno un problema con le droghe

Nella corsa per sostituire Theresa May si sta parlando soprattutto di un fatto: 8 candidati su 10 hanno ammesso di averne fatto uso.

di Gabriele Carrer

Boris Johnson fotografato fuori dalla sua casa l'11 giugno 2019 a Londra (Isabel Infantes/Afp/P/Getty Images)

Impostare una campagna per la leadership del Partito conservatore nel bel mezzo della Brexit e a meno di cinque mesi dalla nuova data di uscita del Regno Unito dall’Unione europea appare come una sfida impossibile. Sajid Javid, attuale ministro dell’Interno, punta a percorrere la stessa strada del premier uscente Theresa May, passata dall’Home Office al numero 10 di Downing Street tre estati fa dopo il passo indietro di David Cameron. E per farlo ha scelto di guardare oltre la Brexit: «Un leader non è per natale, o per la Brexit. Non possiamo correre il rischio di una scelta a breve termine». Con queste parole il ministro di origini pachistane, convinto sostenitore della necessità di una nuova generazione di leader per il partito, ha messo nel mirino Boris Johnson, il super favorito, l’ex sindaco di Londra e ex capopopolo del Leave arrivato a un passo da diventare primo ministro britannico l’indomani del voto referendario del giugno 2016 salvo poi venire scaricato da Michael Gove, che allora era suo amico e braccio destro nella battaglia della Brexit e che ora gli contende la leadership.

Tra chi punta tutto sulla Brexit e chi vede l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea come un passaggio nella storia britannica, sono dieci i candidati ammessi dal comitato 1922, sancta sanctorum del Partito conservatore che si occupa della selezione del leader. Ma su questa corsa che entro fine luglio porterà alla sostituzione di Theresa May, con un nuovo leader per il Partito conservatore e un nuovo primo ministro per il Regno Unito, è entrato a gamba tesa un tema che nei tempi passati è stato ai margini del dibattito nella destra britannica: il consumo di sostanze stupefacenti. Dopo confessioni e ritrovamenti di dichiarazioni passate, il pallottoliere si è fermato a otto. Otto candidati alla guida del Regno Unito su dieci in passato hanno fatto uso di droghe.

L’ultima a raccontare i suoi trascorsi con gli stupefacenti è anche l’ultimo conservatore a essersi arreso a Theresa May nelle primarie del 2016: Andrea Leadsom, 56 anni, fino a un mese fa ministro per i Rapporti con il Parlamento, prima di diventare il trentaseiesimo esponente del governo May a dimettersi, e figura di spicco del mondo pro Brexit. Ha raccontato di aver fumato cannabis negli anni di università. Lei e l’ex ministro al Lavoro Esther McVey, 51 anni, erano le due donne in lizza per la guida dei Tories; ma si sono fermate al primo turno del processo di selezione, non riuscendo a raccogliere il sostegno di almeno 17 su 313 deputati conservatori. Con loro è stato tagliato fuori il deputato Mark Harper, 49 anni. Dei passati «stupefacenti» della Leadsom abbiamo già detto: anche la McVey ha raccontato di aver fumato cannabis all’università, mentre Harper ha spiegato di non aver mai consumato droghe. Lo stesso ha detto Sajid Javid.

Ad aprire le danze delle confessioni era stato Michael Gove, cinquantunenne ministro dell’Ambiente, politico che è rimasto in questi anni sempre al fianco della May nonostante le diverse vedute sulla Brexit con la speranza di raccoglierne l’eredità. Provando ad anticipare il materiale contenuto nella sua biografia A man in a hurry scritta da Owen Bennett, capo del politico del giornale finanziario City Am, Gove ha vuotato il sacco in un’intervista al Daily Mail, il quotidiano per cui scrive anche la moglie, Sarah Vine, definita da tutti il suo braccio destro, fondamentale nel decidere ogni mossa pubblica: «Ho assunto droga in diverse occasioni, in eventi mondani, più di 20 anni fa. All’epoca ero un giovane giornalista, è stato un errore. Mi guardo indietro e vorrei non averlo fatto». Così, affrontando una dura settimana con sondaggi in picchiata, Gove ha anticipato le indiscrezioni contenute nel libro di Bennett secondo cui l’allora mente della campagna per la Brexit avrebbe ammesso l’uso di stupefacenti nel 2016, pressato dal proprio staff durante la corsa alla leadership conservatrice per il post Cameron. Alla domanda specifica, secondo un’anonima fonte, avrebbe risposto: «Sì, cocaina».

Cannabis negli anni degli studi anche per Matt Hancock, quarantenne ministro della Salute, e per Dominic Raab, ex ministro per la Brexit dimessosi per contrasti per il premier May proprio sull’uscita dall’Ue (ritiratosi il 14 giugno). Cannabis, ma anche cocaina, ha consumato il super favorito, Boris Johnson, 54 anni, che al primo turno di votazione ha raccolto oltre un terzo delle preferenze, ben 114. Infuso di cannabis durante un viaggio in India per il principale sfidante dell’ex sindaco di Londra, cioè Jeremy Hunt, cinquantaduenne ministro degli Esteri. In Iran, invece, Rory Stewart ha raccontato di aver consumato oppio. È lui, il «soldato-diplomatico-avventuriero-scrittore-politico» come l’ha definito il New Yorker qualche anno fa, l’outsider di questa corsa, grazie a una campagna che lui steso definisce «guerriglia», fatta di video senza filtri postati sui social di lui che cammina per le strade della capitale.

Non rimane che Javid. Altrimenti, vedremo presto un primo ministro criminale reo confesso alla guida di un Paese, il Regno Unito, in cui il possesso di droghe di classe A (come la cocaina) è punito fino a 14 anni di carcere, 5 in caso di stupefacenti di classe B (come la cannabis). Sono lontani i tempi di David Cameron, che pur furono contraddistinti dal «pig gate» (l’ex premier, secondo la biografia non autorizzata Call me Dave firmata da Michael Ashcroft e Isabel Oakeshott, avrebbe fumato marijuana e infilato il suo membro nella bocca di un maiale morto come rituale per entrare in un esclusivo club universitario, la Pier Gaveton society). Per quanto le recenti confessioni abbiano aperto un timido dibattito sulle politiche proibizionistiche, il consumo di droghe è stato uno dei pochissimi temi al centro di questa prima fase delle primarie. Come ha scritto Daniel Finkelstein, editorialista del Times di Londra, il prossimo leader conservatore «deve raccontare una storia». Ma all’orizzonte non ci sono né un Bill Clinton «the comeback kid», il ragazzo che trova sempre la maniera di rialzarsi e prendersi la rivincita, né una Margaret Thatcher, «rescuer of a nation», la salvatrice della nazione. Non c’è, insomma, un leader in grado di dettare l’agenda e capace con la forza della sua visione e di raccontare serenamente le sue debolezze da ragazzo.