Attualità

Ponte Alle Grazie

Terza puntata dell'inchiesta sulla piccola e media editoria. Oggi tocca alla creatura del gruppo GeMS

di Andrea di Gennaro

Continua l’inchiesta di Studio sullo stato dell’arte della piccola e media editoria italiana.


Il gruppo editoriale Mauri Spagnol (GeMS, peculiare anche nel nome) sembra far bene ai marchi che acquisisce, e d’altronde storia e provenienza inquadrano i due titolari Stefano Mauri e Luigi Spagnol come “gente del mestiere”. Figli d’arte a partire dai primi del Novecento hanno creato un colosso che oggi compete con i principali marchi editoriali del Paese, pur componendosi di case editrici dalla diversa pezzatura. Ponte alle Grazie è una di queste. Ha una nascita interessante, quantomeno come realtà nazionale, e deve al gruppo GeMS il suo carattere attuale: una casa editrice di medie dimensioni, con un catalogo piuttosto variegato e un profilo riconoscibile. Ponte alle Grazie nasce come una piccolissima realtà editoriale fiorentina, dedita alla filosofia politica e alla saggistica del territorio, legata quindi a filo doppio alla toscanità. Nel 1993 viene acquisita dal gruppo Longanesi, primo esempio di buona riuscita della coppia Mauri/Spagnol che nel 1977 acquistano un marchio storico ormai in netto declino, lo rimettono in piedi pubblicando libri di successo e poi lo rendono una holding editoriale cui fanno capo anche altre case editrici. Il successivo passaggio sarà l’entrata di Ponte alle Grazie nel gruppo GeMS, ufficialmente costituitosi nel 2004 ma a quel punto tanto era già stato fatto per la ex casa editrice fiorentina. Rimasta sempre sotto l’egida di Luigi Spagnol, che ancora oggi ne è direttore editoriale, Ponte alle Grazie venne rifondata. Perché prendere un marchio, pur piccolo ma dalla connotazione precisa, e stravolgerne l’identità? «In effetti il gruppo – ci dice Cristina Palomba, editor di Ponte dal 2000 – ha sempre seguito un binario rispettoso dell’identità di una casa editrice che decideva di acquisire. I casi di Guanda e Salani sono stati emblematici ma quei due marchi avevano un’identità più antica e più forte di Ponte alle Grazie (Salani compie 150 anni nel 2012 ed è la casa editrice più vecchia dall’unità d’Italia ancora in piena attività, ndr). Ponte invece non aveva una vera identità nazionale. Il forte regionalismo che la connotava era anche il suo limite principale. Guanda e Salani avevano cataloghi ben più significativi al momento della nostra acquisizione: Guanda con la poesia, Salani con i “classici” e una bellissima tradizione-bambini». Con Ponte non si trattava di violare un’identità pre-esistente, ma costruirne una che la connotasse nel nuovo contesto: aziendale, editoriale e di mercato. Negli oltre dieci anni in cui Palomba ha ricoperto il ruolo di editor la casa editrice è cresciuta molto: «A rigor di memoria siamo passati dai 35-40 libri l’anno di allora ai 70 di oggi. Io però sento la specificità della produzione, ancor più che i numeri perché se è vero che il numero dei titoli pubblicati è sicuramente un dato significativo delle dimensioni e delle capacità di un’azienda editoriale, è altrettanto vero che questo non si rispecchia proporzionalmente né nel fatturato né nella mole o nella complessità del lavoro». Oggi gli editor di Ponte sono due, a Cristina Palomba nel 2008 s’è affiancato Vincenzo Ostuni, un passato in minimum fax e Fazi, di base a Roma e che, pur non essendoci una divisione manichea delle attribuzioni, al momento si sta occupando principalmente di narrativa. In particolare dei nuovi autori italiani, su cui Ponte «da tre anni a questa parte ha deciso d’investire nuovamente».

 

Gli inizi, gli anni novanta e “Lo scafandro e la farfalla”

Luigi Spagnol cercò subito di offrire alla saggistica di Ponte una declinazione più da grande pubblìque. Uno dei primi titoli del nuovo corso fu “L’orrore economico” (1996) di Viviane Forrester, grande successo di vendite sospinto dal fermento con cui a fine novanta si dibatteva su pensiero unico e globalizzazione. Subito a ruota sotto il marchietto del ponte arrivò “Lo scafandro e la farfalla” di Jean-Dominque Bauby, altro best-long-seller tradotto sullo schermo dal regista Julian Schnabel con cui Spagnol iniziò a saggiare il terreno per la narrativa: si trattava infatti di saggistica ad ampio respiro e che, quantomeno nello stile, sfiorava i crismi della letteratura d’invenzione. Pronti quindi a dare la stura alla narrativa vera e propria. Palomba: «Poco prima che arrivassi io Luigi comprò il primo romanzo: “Il signor giardiniere” di Frédéric Richaud, la storia del giardiniere di Versailles. Ottenemmo una stampa straordinaria e a ruota il successo in libreria. L’abbiamo sempre tenuto in catalogo, perché lo intendemmo anche come una sorta di primo importante manifesto ecologista dei nostri anni». Da qui Ponte entra definitivamente anche nella narrativa. Puntando in larga parte su autori stranieri, nel 2000 pubblica quello che si rivelerà un best-seller mondiale, “L’assassino cieco” della scrittrice canadese Margaret Atwood, autrice già abbastanza nota e prolifica di cui per Ponte uscirà quasi un titolo l’anno. Facciamo un bilancio tra saggistica e narrativa oggi all’interno di Ponte alle Grazie a quasi vent’anni dalla sua (ri)nascita e a oltre dieci dal suo esordio nella fiction. «Sicuramente la saggistica – è ancora Palomba a parlare – si è affermata con più forza: con il tradizionale filone politico/filosofico prima e la collana Inchieste in continua crescita di numeri e visibilità poi (è quella di “A Milano comanda la ‘ndrangheta”, “Soldi rubati”, “Finanza cattolica” e “Partiti s.p.a”. dalla classica grafica bicolore, per intenderci, ndr)». E ancora Saggi di terapia breve di Giorgio Nardone, Il lettore goloso e Memoir. Inchieste è nata nel 2009 e in effetti sembra aver subito trovato una sua collocazione nel mercato sin dalla prima uscita: “Il segreto di piazza Fontana” fu un successo, forse anche in virtù del fatto che più che un segreto quegl’eventi continuano a essere un mistero. Altri ne hanno seguito il buon andamento e c’è da riconoscere che senza nulla togliere ai contenuti gli sforzi di titolazione hanno spesso partorito nomi sapidi. «Fino al risultato probabilmente migliore avuto nel 2011 con le 25 mila copie di “Soldi rubati” scritto da Nunzia Penelope», chiosa Palomba.

 

La narrativa

Passiamo alla narrativa: «L’area letteraria ha un’identità sicuramente meno forte degli altri segmenti, nonostante alcuni autori di grande successo pubblicati e la crescita complessiva che registriamo anno dopo anno anche grazie al buon lavoro di scuderia», è lo scenario dipinto da Cristina Palomba. Vincenzo Ostuni ci illustra un po’ più a fondo il segmento: «I titoli di narrativa italiana non sono molti, ma questo è il risultato di una nostra politica nelle scelte. Inseriamo opere di confine, narrativa cioè che non necessariamente risponde alla classica forma del romanzo, libri d’invenzione in cui compaia anche una porzione di non-fiction, parti di saggistica o elementi chiaramente autobiografici che rendano tanto il contenuto quanto lo stile degl’ibridi interessanti. Non si tratta esattamente di quelli che in Germania chiamano “libri di fatti”, direi che sono narrazioni con dei fatti. “Il toro non sbaglia mai” di Matteo Nucci è chiaramente un libro d’invenzione in cui sono inserite pagine importanti di saggistica sul fenomeno corrida». Fresco di stampa è invece “Qualcosa di scritto”, di Emanuele Trevi. Ostuni ce ne tratteggia il contenuto: «“Qualcosa di scritto” era il modo in cui Pasolini si riferiva a Petrolio; l’allocuzione che l’autore trovava più pertinente nel riferirsi al proprio manoscritto proprio perché si trattava di un testo che era romanzo ma anche saggio, memoria e pagine di diario…insomma uno zibaldone stilistico. Pasolini intendeva lasciarlo incompiuto; voleva che il manoscritto, anche una volta in mano all’editore, apparisse nella forma del romanzo incompiuto. A questo s’è aggiunto il mistero sulla scomparsa del capitolo riguardante l’Eni alimentando il dibattito sulla sua incompiutezza. Il libro copre un lasso di tempo che va dal 1992 al 2011. Inizia cioè con l’assunzione di Emanuele Trevi nel Fondo Pasolini diretto da Laura Betti, sorta di stimmate vivente di Pasolini e ragione per cui l’incontro di Trevi con lo scrittore nasce virtuale ma si materializza ben presto in tutta la sua carnalità. Per Trevi quel momento rappresenta una frattura storico/letteraria, la fine della modernità in letteratura. Trevi legge quindi Petrolio come una figura preistorica che emerge dagl’abissi, una sorta di mostruoso fuori-tempo a cui si lega il fascino che il mistero esercitò sul poeta negli ultimi anni di vita. Ecco quindi che nel libro trovano spazio due viaggi in Grecia alla scoperta dei misteri eleusini, nel ’92 e nel 2011 a inizio e chiusura del periodo narrato; oltre a Berlusconi che in quegli anni iniziava la sua ascesa». Insomma un testo decisamente pasoliniano, per forma e stile. Ma Trevi è un autore già piuttosto noto e pubblicato anche da altri marchi. Rimarrà in Ponte alle Grazie? «Abbiamo lavorato bene insieme, entrambi intendiamo il libro letterariamente importante e al tempo stesso un contributo alla discussione. Detto questo, abbiamo l’accordo per un altro libro, sebbene prima di pubblicarlo Trevi dovrà onorare un vecchio contratto con Einaudi».

 

Giovani e contemporanei: Viola, De Majo e i TQ

E la pura fiction dove finisce? «Pubblichiamo libri che sono più chiaramente romanzi, come quelli di Fabio Viola (“Gli intervistatori”) e Cristiano De Majo (“Vita e morte di un giovane impostore scritta da me, suo migliore amico”). Romanzi più tradizionali nella loro immagine complessiva, ma parte di quella ricerca letteraria che dicevamo», conclude Ostuni a cui chiediamo d’illustrarci anche la sua personale idea di letteratura: «Da editor la molla che mi fa balzare sulla sedia è l’ambizione di un manoscritto. A mio avviso la letteratura non deve essere rinunciataria, ombelicale. Ovviamente quest’ambizione la si deve poter rintracciare sia nella forma che nel contenuto di quel manoscritto. Io credo fortemente a un valore della letteratura che travalichi l’ambito artistico, rendendosi un utile strumento di conoscenza. La letteratura deve e può essere un mezzo importante nella ricerca della verità. È un po’ quello che descriveva Roland Barthes quando parlava di responsabilità formale dello scrittore». Ostuni è attivo anche nel circuito di TQ: per qualcuno un fuoco di paglia, per alcuni opportunismo malcelato, per altri un’iniziativa meritevole. «Sarà impopolare dirlo oggi ma io mi sto battendo – con TQ ma posso dire che anche il mio editore condivide queste posizioni – per un intervento pubblico a salvaguardia della letteratura». Perché lo Stato dovrebbe tutelare l’editoria, pur di qualità? «Perché oggi il sistema è avvitato e se assumiamo l’idea che la letteratura porti con sé un valore, allora lasciare che l’unico arbitro sia il mercato non garantisce affatto un innalzamento qualitativo dell’offerta. Rispetto a qualche decennio fa s’è spezzato ad esempio il legame recensione/vendita, in cui l’autorevolezza di un critico era la bussola del mercato. Oggi l’autorevolezza di molti s’è persa, a volte giustamente, ma sull’onda di un’idea pur positiva come quella secondo cui tutto è contestabile, a guidare la riuscita di un’iniziativa editoriale è rimasto solo il mercato. C’è insomma da ragionare su leve che possano bilanciare una tendenza mercantile del libro e della letteratura».

 

Appunti per il futuro

La narrativa straniera in Ponte alle Grazie fa sicuramente dei buoni numeri, non sono pochi i titoli che hanno raggiunto le decine di migliaia di copie vendute; ci sono però casi interessanti anche di narratori nostrani, spesso relegati in un angolo con tirature più basse e sforzi promozionali minori. Matteo Nucci prima di entrare in cinquina al premio Strega con “Sono comuni le cose degli amici” aveva pubblicato solo un saggio e con l’exploit del digestivo ha fatto registrare 10 mila copie al suo esordio letterario. “Il nome giusto” di Sergio Garufi è un altro titolo interessante di fine 2011. Esordio in forma di romanzo, peraltro eccellente, di un autore che in realtà scrive da una vita e a cui da una vita tanti illustri esponenti del mondo letterario chiedevano di dare alle stampe un’opera d’invenzione. Complice l’endorsement di Tiziano Scarpa si può sperare in un altro buon debutto per i tipi di Ponte. «Direi che lo è stato con le tremila copie vendute finora», esclama Ostuni felice di parlarne: «Fu un suggerimento Marco Rossari e quando il libro mi arrivò era già in una forma pressoché definitiva, il mio è stato davvero un lavoro di mera limatura. Il romanzo era scritto con una notevole maturità, curato con umiltà e dedizione: segno tangibile di come Garufi non avesse avuto fretta di esordire». Nelle parole di Ostuni si percepisce però un coinvolgimento emotivo particolare, difficile da rendere su carta: «Lo ammetto, oltre alla bellezza del manoscritto e alla sua compiutezza, l’ambientazione mi è familiare. Abito nella zona in cui si trova la libreria di cui parla il libro e la frequento spesso. Oltretutto l’immagine di copertina è reale. Ne raffigura l’entrata». Chiaro ora, anche gli editor hanno un’anima. E politiche di riservatezza da osservare: «Abbiamo l’accordo per un secondo libro di Garufi, ma non ci sono ancora i dettagli del contratto, quindi…». Quindi bocche cucite su titolo e contenuto.