Attualità | Libri

Storie straordinarie di piloti

A partire dal libro di Filippo Nassetti, una selezione di letture che raccontano com'è la vita delle persone a cui ci affidiamo quando voliamo.

di Davide Coppo

Quando, in quota, capita che l’aereo venga scosso dai primi tremori di turbolenza, mi affido ad alcuni semplici esercizi anti-panico. Uno di questi è ricordare, come un mantra orientale, un passaggio del libriccino La virata (Adelphi, 2006, a cura di Matteo Codignola) di William Langewiesche, un breve e felice trattato sul volo strumentale, senza istinto, più preciso e superiore di quello animale. Non paragonate gli aerei agli uccelli, dice in pratica Langewiesche, che è anche pilota, e figlio di piloti, come tutti i piloti: gli aerei funzionano molto meglio degli uccelli. «Gli uccelli obbediscono alle stesse leggi fisiche cui vanno soggetti gli aerei, solo che volano senza pensarci, senza preoccuparsi di capire se stanno sentendo di sbandare oppure no, e senza rimuginare sulla devastante eventualità di precipitare a spirale. Non è che volino meglio di noi – di fatto volano peggio –, ma possono aspettare che il tempo si rimetta al bello, e in genere lo fanno».

Leggere libri sul volo – ma non sui disastri aerei – è un ottimo metodo per combattere la comunissima ansia o paura chiamata, generalmente, aviofobia, e che colpisce, sembrerebbe, la metà o poco più della popolazione europea. Uno dei migliori testi, in questo senso, è firmato da un altro scrittore e pilota dal cognome complicato, Mark Vanhoenacker. Si chiama Skyfaring. A journey with a pilot, e il suo merito è quello di essere una specie di atlante. Non parla, insomma, tanto del volo, cioè della storia, del fascino, della magia o poesia dello staccarsi da terra per vedere le cose dall’alto, quanto piuttosto del mondo che il volo va a creare: il mondo vissuto dai piloti, che ha una sua cartografia, una sua legge, delle sue strade, dei suoi ritmi circadiani, tutto completamente diverso da quello che conosciamo quiggiù, fermi sul suolo terrestre. Lassù, gli aerei si muovono su strade che si diramano tra i vari waypoint, specie di checkpoint disseminati sopra le città con nomi diversi dal mondo terrestre. 

Come esseri che vivono non del tutto sulla terra, i piloti fanno molte cose al contrario. Parlano una lingua loro, ad esempio: un lessico al servizio di un alfabeto e non viceversa, fatto di Bravo per dire bi, Fox-trot per dire effe, e così via. Non soffrono di jet-lag come se fossero normali passeggeri (anche se «i piloti sono solo passeggeri più addestrati degli altri», scrive sempre Langewiesche in La virata) ma, abituati a sorvolare oceani e continenti più volte nel giro di una sola settimana, vivendo la maggior parte delle ore nella geografia sintetica della strumentazione – bussole magnetiche, giroscopi, orizzonti artificiali –, vengono piuttosto affetti da place-lag, la confusione generata dai repentini cambi di architettura, lingua, urbanistica.

Proprio i piloti sono un’altra figura a cui sono solito aggrapparmi, per levigare le schegge di paura prima di ogni decollo: me li immagino scherzare durante il taxi, approcciare serenamente, come un’azione di routine, l’appropinquarsi della velocità di rotazione, e perdere poi di vista l’orizzonte terrestre, fissare il cielo dal muso sollevato, e procedere con calma con le virate di rito. Cerco rassicurazioni nella voce che elenca i dettagli del meteo della città di destinazione, nel tono tranquillo con cui dicono: cabin crew, prepare to take off. A volte, a terra, mi lascio invece andare a un pensiero più inquietante: chi è la persona a cui stiamo affidando le nostre vite, per portarci a migliaia di metri da terra? Cosa conosciamo di lui? È un brav’uomo? Sa gestire la tensione? È violento? È qualcosa su cui riflette Daniele Del Giudice in Staccando l’ombra da terra, forse il miglior libro sul volare, gli aerei e i piloti scritto in Italia. Parlando del suo primo decollo in solitaria, il protagonista del libro pensa a Bruno, il suo istruttore, così: «E finalmente, mentre fai i controlli del sottovento, mentre togli l’antighiaccio e arricchisci la miscela e riduci motore e metti dieci gradi di flap, finalmente capisci che il primo decollo da solo è l’incontro di due paure, la tua, la sua, paure reciproche e concordi di due persone costrette a fronteggiare un evento avendo soltanto una conoscenza parziale. Che cosa conosce Bruno di te? Niente. Pura intuizione. Ti ha mai visto nelle tue scene isteriche? Nei momenti di distrazione assoluta? Ti ha mai visto quando t’incanti e ti perdi nel vuoto e te ne vai lasciando il tuo corpo come un giornale a occupare un posto nel quale non sei più? Nei momenti di rabbia fredda, sorda, gelida, di puro odio?».

Conoscere meglio i piloti, andare a cena con loro, in vacanza o in moto, è quello che sembra voler fare Filippo Nassetti nell’esordio Molte aquile ho visto in volo. Vite straordinarie di piloti (Baldini&Castoldi, 2020). Ci sono molte di queste vite che, con una lettera o un ricordo, attraversano le pagine di questo libriccino costruito perlopiù come ricordo del fratello Alberto, morto in un incidente aereo a Tolosa, nel giugno del ‘94. E sembrano anche dialogare, i libri di Nassetti e Del Giudice, tramite i loro protagonisti. Alla fine paiono, questi aviatori, esseri strani, quasi una lobby segreta, tutti attratti dal volo già da bambini, sempre, come se fosse un destino o una maledizione. Vengono di solito da famiglie di altri aviatori, hanno indizi genetici per la loro tensione al cielo. Come i ciechi di Ernesto Sabato in Sopra eroi e tombe, o come i vampiri di Jim Jarmusch che si conoscono tutti nei secoli dei secoli. Proprio il destino di Alberto Nassetti, sopravvissuto a un tumore al cervello, poi caduto con un aereo durante un volo che pareva innocuo, un semplice collaudo, ricorda quello di Carlo Emanuele Buscaglia, a cui è dedicato un lungo capitolo nel libro di Del Giudice, asso della Guerra del Mediterraneo, aerosilurante graziato dalle mitragliatrici inglesi durante le furiose battaglie e ucciso invece in un decollo difettoso senza neppure un nemico.

La guerra è un altro tema che torna, tra Nassetti e Del Giudice: seduti sui nostri sedili di economy, in attesa del carrello degli snack, ci dimentichiamo spesso che alcuni piloti di linea hanno anche esperienze belliche. Fa specie, poi, pensare che quel (o quella) comandante che in poche ore ci porterà placidamente a Berlino, Parigi o Madrid, saprebbe benissimo eseguire, proprio come un asso del cielo di un secolo scomparso, un tonneau (giro sull’asse orizzontale), un looping (giro della morte), o un imperiale («un mezzo giro della morte cui segue, quando l’aereo è capovolto, un mezzo tonneau che permette all’aereo di tornare nel giusto asse, ma con senso di marcia inverso a quello iniziale», per citare la chiarissima spiegazione di Nassetti). Certo, sono cose che si facevano già negli anni Venti, e in condizioni meccaniche ben più ostili, ma è un altro dettaglio che ci fa vedere quando siano diversi, antropologicamente, umanamente, i piloti da noi che facciamo mestieri non sospesi in aria. Anche nella guerra: pur combattendo per i cattivi, Del Giudice sembra perdonare gli aviatori che non passarono con Badoglio ma rimasero fedeli alla Rsi, come se la politica terrestre fosse una cosa che su per l’aria non arriva se non rarefatta, in forme indistinguibili, cose di un altro mondo.