Attualità

Perché nessuno ha fretta

di Anna Momigliano

Il tempo è una dimensione cruciale nel processo di pace tra palestinesi e israeliani. Mentre si discute tanto sullo spazio e sugli spazi (Israele è pronta a rinunciare agli insediamenti principali? Che cosa ne sarà di Gerusalemme Est?) vale la pena di soffermarsi anche sulla dimensione temporale.

Sul fattore tempo era stata impostata l’intera politica del fu governo guidato da Ariel Sharon (2001-2006) il generale entrato in politica che decise lo storico smantellamento delle colonie nella Striscia di Gaza. Consigliato dal demografo italo-israeliano Sergio della Pergola, Sharon era giunto a una semplice conclusione: il fluire del tempo, senza passi avanti verso una soluzione alla questione palestinese, gioca tutto a favore degli arabi, perché a loro favore gioca il fattore demografico.

La dottrina di della Pergola, adottata da Sharon, può essere così riassunta. Uno: l’obiettivo di Israele è mantenere uno Stato ebraico e democratico, stando alla tradizione sionista visionata da Theodor Herzl alla fine dell’Ottocento. Due: affinché Israele possa mantenere la sua natura di Stato ebraico e democratico è essenziale che venga mantenuta sul piano demografico la maggioranza ebraica, perché una minoranza non può governare in modo democratico. Tre: questo significa che il governo di Gerusalemme deve rinunciare al sogno di una “grande Israele”, perché in una Israele “allargata” la popolazione ebraica non potrebbe mai reggere la sfida demografica con la popolazione araba. Conclusione? Occorre restituire i Territori occupati (Striscia di Gaza e Cisgiordania) ai palestinesi. E prima è, meglio è, perché, si sa, il fattore demografico gioca tutto a favore degli arabi.

In base a questo ragionamento il primo ministro Sharon prese la storica decisione di effettuare un ritiro totale, nell’agosto del 2005, dalla Striscia di Gaza, smantellando gli insediamenti civili tanto quanto le basi militari, con l’obiettivo di portare avanti uno smantellamento analogo anche nella Cisgiordania, o almeno in parte di essa.
Con gli anni però, e con la scomparsa di Sharon, l’approccio israeliano al fattore tempo è cambiato radicalmente. A quanto pare, i governi successivi hanno dimostrato più volte di volere tentare di prendere tempo, anziché accelerare le cose come avrebbe voluto la dottrina Sharon. Che cosa è cambiato? Per qualche motivo, a torto o a ragione, i governanti di Israele si sono convinti che il fattore tempo giochi a loro favore.

Una possibile spiegazione può essere rintracciata nel dossier delle colonie che si stanno espandendo intorno a Gerusalemme Est, dove in questi mesi si registra una vera e propria frenesia delle costruzioni. Da notare, tra l’altro, che questo tipo di insediamenti non è toccato dalle varie “moratorie delle costruzioni” approvate talvolta dal governo, che si applicano solamente alla Cisgiordania, mentre le autorità israeliane considerano Gerusalemme Est parte integrante del proprio territorio. Per farla breve, parrebbe che l’interesse del governo israeliano – almeno di questo governo israeliano – sia prendere tempo in modo da espandere il più possibile questi insediamenti onde mettere i palestinesi e la comunità internazionale davanti al fatto compiuto al momento di trovare un accordo definitivo. In altre parole, si è passati da una corsa contro il tempo a un tentativo di prendere tempo.

La cosa interessante è che, sotto alcuni aspetti, anche l’Autorità nazionale palestinese sembra perseguire una strategia analoga. Alcuni osservatori sostengono che Salam Fayyad, l’ex economista della Banca Mondiale diventato primo ministro dell’Anp, abbia i mente uno schema ben preciso. E per nulla stupido. Ovvero costruire la Palestina dal basso, lavorando sulla creazione di istituzioni e di infrastrutture, sulla lotta alla corruzione, sull’educazione e sulla formazione del know how necessario alla creazione di posti di lavoro, sull’economia e in particolare sull’attrazione di capitali stranieri. In altre parole, su tutto quello che viene normalmente catalogato nell’insieme di nation building. Talvolta sembra quasi che l’obiettivo di Fayyad e del suo capo Abu Mazen sia quello di costruire dal basso uno Stato palestinese, che possa essere indipendente da quello israeliano, in modo da mettere la comunità internazionale davanti al fatto compiuto ed essere pronti, nel caso risultasse necessario, a dichiarare unilateralmente l’indipendenza. Non che Fayyad e Abu Mazen siano contrari al processo di pace. Ma hanno un piano B pronto nel caso questo fallisca. E da questo punto di vista, prendere tempo è cosa utile.

 

Dal numero 0 di Studio