Cultura | Letteratura

Patrizia Cavalli e la poesia per tutti

È morta il 21 giugno, a 75 anni, lasciando in eredità le raccolte di poesie che l'hanno resa famosa e le bellissime foto da giovane che nelle ultime ore hanno invaso i social.

di Clara Mazzoleni

Patrizia Cavalli è morta nel giorno del solstizio d’estate. Dopo aver appreso la notizia, abbiamo pubblicato sul profilo Instagram di Rivista Studio una sua foto. Sotto alla foto sono apparsi una valanga di cuori spezzati. L’ho ricondivisa nelle storie del mio account personale, e ho ricevuto una pioggia di faccine che piangono. Un’amica ha contestato il ritratto che ho scelto (mi sembrava così estivo e spontaneo, dietro di lei si intravedono la sdraio e l’ombrellone) in cui, secondo lei, Cavalli non è al massimo della sua bellezza. Ma come, non potevamo scegliere una foto migliore, tra tutte quelle che si trovano di lei da giovane? Neanche il tempo di rispondere, che su tutti i social era esploso un bombardamento di foto di Patrizia Cavalli da giovane (tra cui una, in effetti, altrettanto estiva, in cui, effettivamente, è davvero stupenda) pari soltanto a quello verificatosi dopo la morte di Joan Didion. Entrambe dotate di caschetto impeccabile per la maggior parte della loro vita, similmente instagrammabili (con la differenza che Didion si è vestita bene fino alla fine), ugualmente ossessionate dal rigore formale e dalla ricerca ossessiva delle parole perfette per esprimere cose complicate. Le poesie di Cavalli sembrano parlare una lingua semplicissima, quotidiana, ma nascondono una tecnica poetica complessa e misure metriche classiche. Rispetto a Didion, Cavalli è sicuramente più morbida, più romana (d’adozione: nata a Todi nel 1947, arriva a Roma a 21 anni e lì rimane fino alla fine). Più simpatica, insomma: un aggettivo che chissà quando ha smesso di essere un complimento, e invece lo è.

Le sue poesie piacciono a tutti perché sono brevi, facili e parlano delle cose normali. Quando ti svegli con le palle girate: «Oggi il mio cuore superbamente alberga / nel suo immenso malumore. Addio / Pazienza». La fine dell’estate (rivelatasi molto utile per salutare l’inizio dei vari lockdown): «Tra un po’ tutti all’inferno. Però per il momento è finita l’estate. Avanti, su, ai divani! Ai divani! Ai divani». Capodanno: «Non benedico certo l’anno nuovo / non voglio benedire proprio niente; / nuovo o vecchio che sia non mi commuovo / ma, cosa nuova, mi sono indifferente». La delusione: «Dopo anni tormenti e pentimenti / quello che scopro e quello che mi resta / è una banalità fresca e indigesta». C’è spesso un po’ di amarezza, ma insieme c’è il divertimento di costringere l’infelicità in un elenco di parole perfette, che la trasformino in qualcosa di piccolo e carino che si può tenere in mano, come se Cavalli avesse sempre scritto tutte le sue poesie con un sorrisino furbo. Scrive col sorrisino anche quando parla d’amore. Ama crogiolarsi nella malinconia, se la gode tutta: «Che tu ci sia o non ci sia / ormai è la stessa cosa / comunque sia io ho la nostalgia». Un po’ masochista, a volte. «Cerco l’amore per essere punita / così in anticipo vinco la partita», potrebbe benissimo essere il verso di una canzone di Lana Del Rey. «A me è maggio che mi rovina / e anche settembre, queste due sentinelle / dell’estate: promessa e nostalgia»: “Summertime Sadness“. Ma dall’inizio alla fine l’opera di Cavalli ruota intorno al rapporto più intenso e tormentato di tutti, quello con se stessa. L’evoluzione del legame fondamentale con il corpo («il corpo è tutto», ripeteva spesso, l’ha ripetuto fino alla fine) e quello ambivalente con la “nemica mente” e il suo sguardo su di sé: «Poco di me ricordo / io che a me ho sempre pensato. / Mi scompaio come l’oggetto / troppo a lungo guardato. / Ritornerò a dire / la mia luminosa scomparsa».

La sua prima raccolta di poesie si chiama Le mie poesie non cambieranno il mondo, esce nel 1974. L’ultima si chiama Vita meravigliosa ed è uscita nel 2020. Contiene una bellissima poesia su una delle più belle attività esistenti: ubriacarsi da soli e scrivere (se non sei Patrizia Cavalli o Raymond Carver produrrai soltanto immense schifezze, ma non importa, è molto divertente). C’è un’ode alla fluoxetina, meglio conosciuta come Prozac: «Gloria perpetua alla fluoxetina / la solerte messaggera dei neuroni. / Ora non più scialbi e soli, l’uno all’altro / forestieri. Ora c’è / l’allegra vivandiera che li scalda». Amen. Chissà quante persone hanno regalato a genitori e nonni la raccolta Vita meravigliosa pensando che fosse un libretto del tipo Momenti di trascurabile felicità. E invece è una raccolta di poesie sulla morte e la malattia.

La sue letture all’Auditorium di Roma erano sempre piene di gente che andava a sentirla leggere. Su YouTube c’è qualche video: «Salivo così bene le scale / possibile che io debba morire? Ma adesso / che cazzo vuole da me questo / dolore al petto quasi al centro! Che faccio, muoio? / O resto e mi lamento?». Il pubblico ridacchia. Con la sua bella voce un po’ da Mina e l’incedere sicuro, decanta i suoi versi «come buttandoli via» (lo scrive Mauro Bersani nel suo bel ricordo) senza enfatizzare eccessivamente i suoi buffi twist, in modo che risultino ancora più comici. Un po’ fanno ridere un po’ fanno tenerezza, come la famosa poesia degli occhiali sulla copertina di Poesie (1974-1992). In questo la collana bianca Einaudi ha certamente aiutato la sua fama: forse nessuno avrà mai il coraggio di dirlo, ma tante persone la apprezzano per la manciata di poesie lette sulle copertine. Cavalli è stata anche traduttrice (Sogno di una notte d’estate di Shakespeare, Anfitrione di Molière) e ha scritto un libro in prosa, Con passi giapponesi (2019) ma resta la poetessa italiana che conosce anche chi non legge poesia. Ha sempre pubblicato con Einaudi, che le ha riservato un trattamento speciale: non le ha mai messo fretta. Tra il secondo libro (Il cielo, 1981) e il terzo (la raccolta fino ad allora complessiva Poesie) passano undici anni. Tra le altre raccolte ci sono 7 anni di distanza, fino all’ultima.

Su Twitter, la sua casa editrice la saluta con un’immagine della poesia “Pigre divinità e pigra sorte” (certe sembrano fatte apposta per i social: stanno perfettamente in un quadrato o in un rettangolo e funzionano immediatamente, come pillole di ansiolitico). Pubblicando l’immagine, Einaudi twitta: «È morto un poeta». Nei commenti si scatena il putiferio: «È riconoscerle più merito chiamarla poeta e non poetessa? Deplorevole!», commenta qualcuno. Ma era lei stessa a voler essere definita così: «Non mi è mai passato per la testa l’idea di farmi chiamare poetessa. Sembra quasi una presa in giro». Era stata la sua adorata mentore Elsa Morante a dirle: «Patrizia, sei poeta, sono felice». Nelle interviste parlava sempre di lei, ricordava storie e aneddoti che la riguardavano: «Le devo tutto, avevamo un rapporto complesso, umorale, esattamente come la sua natura. Ma ricordo un episodio. Una volta eravamo a tavola io, lei e Sandro Penna. Penna c’aveva quella vocetta gne gne e diceva: “Elsa, Elsa, sei contenta di stare a pranzo con due poeti?”. Morante lo gelò: “Io sono più poeta di voi”».

Nella stessa intervista del 2020, confessa che l’unico maschio da cui si fosse mai sentita attratta era il suo vicino di casa a Todi («ma non era un’attrazione erotica», specifica). La sua prima poesia, scritta più o meno a dieci anni, era dedicata a Kim Novak e iniziava così: «Chi sei tu dunque Kim, Kim, Kim Novak?». Nell’ultima fase della sua vita, le cure per il cancro le avevano tolto l’energia e la memoria. Diceva che da anni non provava più amore. Forse Einaudi avrebbe dovuto scrivere “una poeta” e non “un poeta”, come dicono nei commenti, ma a lei sarebbe interessato soltanto essere chiamata come la definì la sua amatissima Morante. In Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf scriveva: «Chi mai potrà misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo di donna?»