Attualità

Paolo Virzì va in America

L'incontro con il regista mentre esce in Italia il suo primo film americano: Ella & John.

di Mattia Carzaniga

L’America è lontana, dall’altra parte della luna. Finché non ci arrivi. Paolo Virzì l’ha fatto nell’estate più calda della storia politica recente. «Eravamo in Georgia, South Carolina, Florida, gli Stati dove poi Donald Trump avrebbe trionfato, e sui ponti c’erano appesi gli striscioni con scritto “Hillary for Prison”, Hillary in galera. Non avevo mai visto una campagna di delegittimazione dell’avversario così violenta, nemmeno dalle nostre parti». L’America, sempre andando dietro a quei versi, a vederla mette quasi paura. Virzì, classe 1964, toscano di Livorno, ci è andato per girare il suo primo film americano, diciamo così. E cioè The Leisure Seeker, in Italia Ella & John, nelle sale dal 18 gennaio. «La parte locale della troupe era divisa in due. Tutti i capireparto dicevano: “È impossibile che Trump diventi presidente”. Lo scenografo, newyorkese, ridacchiava: “Ma ti pare, ma dai, è uno scherzo”. Dall’altro lato ci stavano quelli che avrebbero votato per il vincitore, i macchinisti, gli elettricisti, avevano il fucile nella macchina, perché, ti dicono, un fucile serve sempre. L’America è un territorio ostile, quando sei lì capisci perché è stata una frontiera. Quando fa caldo, fa caldissimo. L’umidità è umidissima, la pioggia è pioggia vera. E poi ci sono gli animali. Un mio amico che vive sulle colline di Los Angeles, casa molto upper class, ogni tanto si trova i puma in giardino, esce e gli spara, ha paura che gli mangino i nipotini. L’America conserva e rivela questa sua anima selvaggia, nonostante sia il posto delle libertà, la terra che ha cambiato i nostri costumi sessuali e culturali, il luogo in cui io, che sono insonne, posso andare in farmacia di notte a comprare confezioni enormi di narcotici: è tutto legale, una meraviglia».

«Dopo Il capitale umano, hanno iniziato a offrirmi di dirigere progetti negli Stati Uniti, commedie stupidissime, film d’azione»

La chiamata dall’America è arrivata nel momento in cui Paolo Virzì viveva la massima consacrazione qui da noi, prima con Il capitale umano (sette David di Donatello), poi con La pazza gioia (cinque David), tutti e due finiti pure in giro per il mondo, festival, applausi, sono piaciuti praticamente a chiunque. «Tutto era cominciato ancora prima, tra il 2011 e il 2012, con quella giostra insensata dei premi Oscar per finire nella cinquina Best Foreign Language Film (il film era La prima cosa bella, che poi non venne candidato, ndr). Vedi accadere cose del tutto illogiche, devi piacere a un comitato di sì e no venti persone, con una specie di Gian Luigi Rondi americano a supervisionarle tutte, ad aggiustare le loro reazioni. Quelli mi dicevano “Non sono riuscito a finirlo”, io come un piazzista ribattevo “Ma è un film meraviglioso!”. Dopo quel periodo, e soprattutto dopo Il capitale umano, hanno iniziato a offrirmi di dirigere progetti negli Stati Uniti, commedie stupidissime, film d’azione. A un certo punto c’era in ballo una specie di Ocean’s Eleven con inseguimenti in elicottero, un sacco di tecnologia, effetti speciali, io guardavo questi produttori e dicevo: “Veramente pensate che possa fare una cosa del genere?”. Loro portavano l’esempio di Ang Lee, gli avevano commissionato Hulk perché sapeva dirigere gli attori, alla fine liquidavano la questione: “Non preoccuparti per le scene d’azione, quella è second unit stuff”, ci pensa la seconda unità. Ho creduto di poterlo fare anche solo così, per scherzo, ma girare un film è faticoso, ti porta via anni di vita, è una roba per cui metti in gioco la salute, ma sul serio. Devi avere una motivazione forte per iniziare»

Paolo Virzi', Self assignment, September 4, 2017

«Donald Sutherland e Helen Mirren sono stati la mia prima scelta, pensavo di aver sparato troppo in alto, invece hanno accettato, ma erano liberi solo due mesi, ho fatto tutto di corsa pur di averli»

È spuntato questo romanzo, In viaggio contromano di Michael Zadoorian, «l’ho trovato in libreria, in Italia lo pubblica Marcos y Marcos, negli Stati Uniti aveva avuto un discreto successo, lo spunto era bello, ma mi sono comunque detto: ti pare che mi vado a mettere sulla Route 66? Francesco Piccolo e Francesca Archibugi, che poi hanno scritto con me e Stephen Amidon il copione, hanno insistito, facevano leva sul discorso dell’amore coniugale, mi dicevano tu e Micaela (Ramazzotti, sua moglie, ndr) tra trenta-quarant’anni sarete così, tu rincoglionito e prolisso, lei apparentemente frivola ma in realtà la parte forte della coppia». Al cinema quei due sono Donald Sutherland e Helen Mirren, «sono stati la mia prima scelta, pensavo di aver sparato troppo in alto, invece hanno accettato, ma erano liberi solo per un paio di mesi, ho fatto tutto di corsa pur di averli». Viaggiano in camper dalla loro villetta sulla East Coast, dintorni di Boston, a Key West, nel mare della Florida, inseguendo ricordi, giocando con il futuro, ne è rimasto così poco. «Abbiamo cambiato l’itinerario, nel libro si partiva da Detroit e la meta era Disneyland, un’America molto più profonda, ma se non sei nato e cresciuto lì corri il rischio del cliché, di fare l’europeo che vuole andare a prenderli in giro. Nel film lui è diventato un professore, sogna di vedere la casa di Hemingway prima di morire. E nel bisticcio amoroso tra i due abbiamo reso lui progressista e lei conservatrice, forse per avvicinarli alla nostra sensibilità».

C’è difatti quello stesso nervo che corre da sempre dentro il cinema di Virzì, la destra e la sinistra (o quel che rimane di entrambe), il centro e la periferia, i ricchi e i poveri, i ribelli e i conformisti, il comico e il tragico, l’umano e il grottesco. Adesso ci è entrata anche la strada, che era pure nella Pazza gioia. «È un caso ma sì, mi piaceva tornare a quel senso di apertura, all’on the road. E a un certo racconto di quello che succede nella nostra testa, qui c’è l’Alzheimer, là c’era la salute – anzi il disturbo – mentale. Quello della Pazza gioia lo chiamo il periodo psichiatrico della mia vita, pieno di storie indicibili, gli ospedali di Porta Capena alla periferia di Roma, la vita stravolta della ragazza che aveva ucciso la badante spingendola sui binari, un’altra che ha lanciato il figlio neonato di sua sorella giù dalla finestra, e quella che ha annegato il suo dal pattino alla Feniglia, al largo di Orbetello. Le incontri e sono creature amabili, la follia mica la vedi». Il cinema di Virzì è politico anche in questo, non soltanto nelle allusioni a Trump dell’ultimo film, dove Sutherland, democratico svanito, accetta una spilletta elettorale dai manifestanti reazionari: non capisce, o forse è già una rimozione e non lo sa. Si sente lo spettro di Berlusconi e del berlusconismo presente in quasi tutti i film passati, Ferie d’agosto e le sue tifoserie vacanziere, Caterina va in città e le sue conventicole, quella parola bellissima che forse definisce un’intera filmografia. «La borghesia colta guardava alla discesa in campo di Berlusconi con incredulità, con quelle stesse risatine che sentivo in America l’anno scorso: figurati se questo buzzurro ci potrà mai governare. Ora sembra pronto a tornare».

Paolo Virzi', Self assignment, September 4, 2017

Dico a Virzì che oggi è considerato un venerato maestro, lui ride, fa di no con la testa: «Sono il solito stronzo. Mi piace l’amore della gente, quello sì. A Venezia (dove The Leisure Seeker è stato presentato in concorso, ndr) non me l’aspettavo, la Mostra è stata la forca caudina per tanti film italiani. La notte prima della proiezione ufficiale non ho chiuso occhio, mi sono scoperto idiota, e pure un po’ vanitoso per esserci voluto andare. Quella mia angoscia mi ha stupito». Torno sul maestro, anche se lui non vuole. «Io sono figlio del cinema italiano, sono cresciuto con i maestri veri, ho iniziato come ragazzo di bottega da Furio Scarpelli. Lui e i suoi colleghi sceneggiatori consideravano l’Oscar una cosa stupida e volgare, era una generazione per cui l’America era sinonimo di maccartismo, di registi banditi perché comunisti. Sono cresciuto diviso in due. Da un lato avevo questa scuola, dall’altro il mito della New Hollywood anni settanta, il cinema che ha nutrito la mia adolescenza: Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, L’ultima corvée di Hal Ashby… Quando mi hanno chiesto di fare il direttore del festival di Torino, ho detto: va bene, così posso dedicare la retrospettiva alla New Hollywood». Ride.

«Ai registi più giovani succederà sempre più spesso di girare film all’estero, il mondo si è rimpicciolito. 

«Poi ho capito che la mia non era una contraddizione. Nei film di Robert Altman, per dire, c’è tantissimo cinema italiano, era dichiarato. Nei Protagonisti io ci vedo il grande produttore Sergio Amidei, Una domenica d’agosto, quei film lì, fatti di tante storie intrecciate. Noi lo facevamo così, un po’ per caso, gli americani lo hanno fatto diventare un modulo narrativo che seguivano rigorosamente, com’è nella loro natura». Quella non-contraddizione ha portato oggi a un esito che sembra naturale: l’erede della grande commedia all’italiana – è l’etichetta che non si leverà mai di dosso – va a girare un film in America. «Ai registi più giovani succederà sempre più spesso, il mondo si è già rimpicciolito, si rimescola per fisiologia naturale. Nel futuro non sarà più così anomalo, i confini delle storie si confonderanno, i cineasti della nuova generazione avranno molta più disinvoltura di me, che ancora mi sento un provinciale».

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Un frame da Ella & John, nei cinema italiani dal 18 gennaio.

 «A me interessava soprattutto l’idea che fosse una commedia di villeggiatura, il genere cechoviano per eccellenza, uno di quei film di conversazioni dove si parla e basta»

L’Italia resta sempre l’orizzonte mentale. Gli domando se ha mai immaginato un secondo capitolo di Ferie d’agosto, con la famiglia degli intellettuali di sinistra, capeggiata dal professore Sandro Molino/Silvio Orlando, contro quella dei proto-berlusconiani, con il capoclan Ruggero Mazzalupi/Ennio Fantastichini. «Nel computer ho una cartella di seguiti ideali, che viene costantemente aggiornata. Lo faccio alla fine di ogni film, per riprendermi prima di pensare a cose nuove. Ho sempre avuto in mente vari sviluppi possibili, ma negli ultimi anni l’Italia si è messa a correre in fretta, è molto difficile capire questo paese in questo momento. Ferie d’agosto l’ho scritto nell’estate del 1994, è uscito un anno dopo, era l’inizio di Forza Italia. Quel periodo è durato tantissimo, forse non è nemmeno finito. Nelle ultime stagioni c’è stato un sommovimento, che cos’è la politica adesso, boh, non ci si sta dietro. Mi sono immaginato Sandro Molino che torna a Ventotene vent’anni dopo, per dare, forse, l’addio alla sua vita. Nel frattempo nella famiglia Mazzalupi scoppia il conflitto tra un figlio tentato dalla speculazione edilizia e un altro che si è candidato con i Cinquestelle, inseguendo ideali di presunta purezza. Ma poi è successo molto altro ancora».

Si ritorna all’America, a Donald Trump. «Sta accadendo, davanti ai nostri occhi, la predicazione della paura, una cosa violentissima, quello dell’imprenditore della paura è diventato un mestiere. La paura dei musulmani. La paura dei negri, come si è tornato a dire. E allora forse quel file andrebbe riaggiornato ancora. Però c’è un altro motivo per cui farei un nuovo Ferie d’agosto. A tutti, di quel film, è rimasto il discorso politico, la destra e la sinistra». Le profezie di Virzì, dico io. Ride. «A me interessava soprattutto l’idea che fosse una commedia di villeggiatura, il genere cechoviano per eccellenza, uno di quei film di conversazioni dove si parla e basta, penso anche al cinema di Mike Leigh, hai presente Another Year?». Ce l’ho presente, è uno dei film più belli degli ultimi dieci anni, forse di più. «Ecco, è in quei film che mi trovi. Sono quelli i film che voglio fare».

 

Dal n°33 di Studio. Ritratti di Vittorio Zunino Celotto per Studio (Getty Images)