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Pamela Prati siamo noi

La virtual-sociologia del caso Prati ha a che fare con il filtro continuo che applichiamo alle nostre vite. Ed è per questo che ci ha appassionati tutti.

di Mattia Carzaniga

La chiave dell’arcano, goloso, spericolato caso Pamela Prati sta in una frase da lei pronunciata nel corso dell’intervista a Verissimo di sabato scorso: «I dubbi ti vengono, ma non ti vengono». Parlava della non-esistenza, finalmente confermata davanti alla confessora Silvia Toffanin, del magnifico e immaginifico Mark Caltagirone, già imprenditore nel ramo oleodotti in Siria, figura riservatissima dunque senza volto, suo promesso sposo e in più padre di due figli già in affido che poi la coppia avrebbe cresciuto insieme, probabilmente «in America». Parlava della non-esistenza del suo sogno d’amore, che però forse ancora esiste, o così lei vuole credere: esiste, non esiste, sarà mica questo l’amletico problema. Parlava soprattutto di noi. I dubbi, in quest’epoca in cui ci è toccato vivere, ci vengono a ogni post, a ogni like, a ogni story. Ma non ci vengono.

Ormai il caso lo conosce chiunque, tanto ha saputo affratellare le sciure di Barbara d’Urso e i radical chic cosiddetti, le sciampiste e i docenti della Normale. Ma, ahinoi, da poche ore pare giunto alla fine. Pamela Perricciolo, socia insieme all’ex corteggiatrice defilippica Eliana Michelazzo della Aicos Entertainment di cui l’altra Pamela era «direttrice onoraria» (l’ha detto Prati medesima, qualunque cosa significhi), ha rivelato a Selvaggia Lucarelli che sono tutte e tre responsabili della truffa, Perricciolo Michelazzo Prati, le ultime due per debiti da estinguere a colpi di ospitate ben pagate, la prima chissà perché, non si capisce, ma del resto la logica non fa parte di questa narrazione, altrimenti ci saremmo già stufati tutti quanti. Poco ci importa pure della presunta soluzione del caso, che resterà televisivamente aperto. Le protagoniste si stanno accusando a vicenda, c’è ancora spazio per approfondimenti chez Barbara o chez Silvia, dipende se si preferisce il tono più cafone da cena in piedi o il tête-à-tête placé. O forse l’affaire è stato forzatamente chiuso perché la stagione televisiva sta per concludersi: per i pomeriggi e le domeniche e i sabati verissimi è tempo di andare in vacanza, che senso ha mandare avanti la storia se non c’è più nessuno ad ascoltarla (e soprattutto nessuno a pagare).

L’altra chiave di questo teleromanzo trash, criminale, moralista, virtuale, forse lesbico (Perricciolo e Michelazzo sarebbero una coppia da anni), certamente patetico (uno dei due figli di Caltagirone/Prati stava per cominciare «la kemio», si legge in uno dei vecchi messaggi delle due agenti), vagamente erotico («Io sono un sex symbol», replicava Prati a Toffanin alla domanda sul cybersesso), tristemente burocratico («Sono pensionata», sempre Pamela a Silvia, con un po’ di imbarazzo), idealmente cristologico (Prati ora dice di trovare conforto solo in chiesa); ecco, l’altra chiave sta in una frase stavolta pronunciata da Eliana nella puntata capolavoro di Live – Non è la d’Urso di una settimana fa. Prima sono andati in onda gli stralci di una sua intervista registrata in albergo alle cinque del mattino: voce spenta, occhio semichiuso, presumibilmente tuta o pigiama indosso. Poi, è partita la confessione in diretta: voce improvvisamente tremante, tailleur bianco e onde nei capelli da diva anni Quaranta, una simil-Veronica Lake (le casalinghe più anziane ancora colgono certi riferimenti) che appunto amplificava l’impianto noir del copione. Michelazzo, con grande sprezzo del pericolo, era andata in studio in quanto vittima di un altro raggiro. Per dieci anni era stata pure lei corteggiata, amata, persino costretta al tatuaggio romantico da parte dell’inesistente Simone Coppi, nom de plume che si ritrova spesso, è lo stesso profilo che stuzzicava tanti anni fa Alfonso Signorini, oggi accusatore delle due agenti. Ma basta divagare, anche se è inevitabile: anzi, è il bello di questo caso. Dicevo: l’altra chiave di questo indiavolato feuilleton sta in una frase pronunciata da Eliana quella sera: «Mi sono sentita sposata». Che importa se quel Coppi era anche lui un fantasma o se quella di Michelazzo era solo una menzogna a onor di telecamera: uno certe cose se le sente, e basta.

E, soprattutto, uno certe cose le può camuffare, correggere, contraffare, se ciò serve ad esibire un dettaglio più interessante della sua vita. Della nostra vita. I meme “Instagram vs. Reality” non vi hanno insegnato niente? Da una parte c’è il selfie con sfondo di spiaggia tropicale che abbiamo postato da tre minuti e ha già raccolto quarantasette cuoricini; dall’altra il sole che quel pomeriggio non c’era (un amico ci faceva luce con la torcia del suo iPhone), la spiaggia che sì era tropicale ma per metà invasa dalle alghe, l’ecomostro di fronte a noi che restava giustamente fuori campo. Il «Mi sono sentita sposata» di Michelazzo vale nella misura in cui chiunque di noi «si è sentito» un formidabile opinionista per il suo brillante status capace di raccogliere ben trenta like; o per un gattò di patate messo su Instagram e commentato con immediate emoji di acquolina in bocca; o per una foto da invitati sorridenti alle nozze del collega dentro la cornice a mo’ di vecchia Polaroid. Poco importa se la battuta di quello status era copiata da un post che girava sulla bacheca di un amico; se quel gattò era stopposo oltre ogni dire; se quel matrimonio era noiosissimo, tirava vento anche se era metà giugno e ci è inutilmente costato cento euro bonificati sul conto corrente dell’inutile conoscente che ci aveva voluti giusto per fare numero e battere cassa. L’importante è l’«essersi sentiti»: fini elzeviristi, ottimi chef, divertitissimi amici, non fa differenza.

Dopotutto, siamo abituati da un pezzo alla dissimulazione, fa parte della vita pubblica, figuriamoci se non capita in quella privata altrimenti noiosissima. Veniamo da una campagna elettorale in cui le fidanzate dei ministri erano vere o finte?, chi lo sa, l’enigma resta e va bene così. Il segreto del caso Prati è avere unito, alla virtual-sociologia che racconta il nostro tempo, i codici dello sceneggiato Mediaset, e quale sennò. Teodosio Losito, il più grande showrunner che questo Paese abbia mai avuto, purtroppo è morto: ma forse perfino per lui, ideatore dell’Onore e il rispetto e del Peccato e la vergogna e del profetico film-tv So che ritornerai (un amore fantasma che torna dal passato: esiste o non esiste?), quest’epica kitsch sarebbe stata quasi eccessiva; o, più probabilmente, avrebbe rimpianto di non averla creata lui stesso. La Ares Film, la sua casa di produzione, è stata soppiantata in una stagione dalla Aicos Entertainment. In realtà il cocktail è ancor più micidiale: la fiction per casalinghe, appunto; più, si diceva, i film noir di Veronica Lake e Rita Hayworth e Barbara Stanwyck; più il reality show (Michelazzo, che si sentiva minacciata da fantomatici nemici, ha chiesto di essere protetta in un luogo sicuro: la casa del Grande Fratello); più i documentari sulle frodi e le truffe che ci piacciono tanto oggi, da The Imposter a The Jinx a Making a Murderer. Making a Wife, il format che hanno provato a confezionare addosso a Pamela Prati, sarà mica grave quanto la parabola di un presunto omicida, eddài.

Lo scenario reale (molte virgolette) di questa storia è romanissimo. C’è il cast che fa capo a quel generone televisivo immutabile nei decenni, le soubrette del Salone Margherita (nelle carte del processo barbaradursico sono finite pure Milena Miconi e Matilde Brandi) che oggi incontrano i tronisti del pomeriggio, le dive berlusconiane (la lositiana Manuela Arcuri, appunto, anche lei tampinata dal solito Simone Coppi) che siedono accanto ad ex gieffini promossi a opinionisti. C’è il ristorante elegante, così lo definisce Prati, dove s’incontra gente famosa e si fa il karaoke. Ma il luogo vero di questa storia è evanescente-e-però-reale proprio come il signor Caltagirone. È il luogo delle chat e delle foto condivise, il luogo degli annunci pubblici che raccolgono cuoricini e poi chi se ne importa se avranno un seguito reale: ciò che promettono ormai è successo. È il luogo che frequentiamo tutti i giorni più di casa nostra, quello dei messaggini privati e delle storie digitali che dopo ventiquattr’ore scompaiono, delle reaction e dei retweet. Lo spazio dell’effimero per definizione, non per niente l’inchiesta (molte virgolette) non è partita sui vecchi giornali di carta: l’ha avviata Dagospia. In quel luogo che abitiamo ogni giorno, tutto il giorno, decidiamo ogni minuto come autorappresentarci. Decidiamo quale foto mettere, quale filtro, quale tono. Decidiamo che cos’è e dove sta il vero delle nostre vite. E, se il racconto a volte è falso o falsato, è un patto che accettiamo: l’abbiamo sottoscritto molto tempo fa, sia da seguaci sia da seguiti, l’abbiamo accettato di fronte ai profili degli amici veri e con quelli degli sconosciuti. I dubbi ci vengono, tutte le volte: ma non ci vengono. Pamela Prati siamo noi. Siamo stati noi gli autori, insieme ottocenteschi e digitali, di questo romanzo che non vorremmo finisse mai. (Tranquilli: non finisce).