Attualità

Un rottamatore a Palazzo Ducale

Abbiamo incontrato a Mantova il direttore del museo, Peter Assmann, un modernizzatore che però, come altri direttori stranieri, ora rischia il posto.

di Diego Guido

Assman

La mattina in cui raggiungo l’ufficio di Peter Assmann, per le strade di Mantova noto due manifesti. Il primo riguarda una mostra alla Galleria di Palazzo Ducale Good Morning… Good Night. Cinque artiste e una curatrice dall’Iran. Il secondo un’altra mostra, ospitata all’Appartamento della Rustica, sempre a Palazzo Ducale, intitolata Da Cittadellarte alla Civiltà dell’Arte. Michelangelo Pistoletto. Dentro a quei due eventi è condensata gran parte dell’ideologia assmanniana. Donne iraniane, arte contemporanea, spazi fino ad oggi sconosciuti alla gran parte del pubblico: raramente Palazzo Ducale aveva accolto mostre tanto lontane dal contesto rinascimentale a cui è sempre rimasto perlopiù vincolato. Il merito (o, per alcuni, la colpa) di questo rinnovamento è del professore austriaco che dirige il museo.

In quasi tre anni, Assmann si è attirato molti plausi e altrettanti ostracismi. Nel 2015 la sua nomina a direttore di Palazzo Ducale fu conseguenza della riforma Franceschini che aveva reso indipendenti venti musei italiani tra cui la Galleria degli Uffizi e, appunto, la reggia di Mantova. Fu anche una riforma esterofila: sette dei venti nuovi direttori erano stranieri. Ora la nomina di Assmann e degli altri manager internazionali è accusata di illegittimità. È una faccenda che si trascina da un po’: il Tar li aveva confermati nel 2017, ma nelle prossime settimane il Consiglio di Stato potrebbe ribaltare quel verdetto. Un non-italiano non può dirigere un museo di proprietà dello Stato, questa l’accusa, che posa su cavilli normativi che, per quanto marginali, potrebbero risultare decisivi. La questione, un tema riconducibile al “prima gli italiani” sbraitato in campagna elettorale, supera il confine della cultura e apre a riflessioni politiche e sociali.

Mi siedo con Assmann a un grande tavolo del ‘700, il suo ufficio è illuminato dalle finestre affacciate sul Giardino dei Semplici. Ricorda il primo giorno di lavoro? «Non c’è stato un vero primo giorno, ma un approccio più graduale. Ricordo bene però il giorno della firma del contratto. Capii subito che sarebbe stata l’esperienza professionale più burocratizzata che avessi mai affrontato». Gli avevano detto che la firma andava obbligatoriamente siglata presso il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali. Lui viveva ancora a Linz, nel nord dell’Austria, a 1.067 chilometri da Roma. «Risposi: “Va bene, se non si può fare telematicamente, verrò. Così ne approfittiamo per scambiare due parole di persona su progettualità, numeri, obiettivi”. Mi dissero di no, che non c’era tempo. Avrei potuto solo firmare e poi fare ritorno a Linz, prima dell’effettivo insediamento a Mantova. Dopo qualche insistenza, mi concessero venti minuti. Non di più».

Assman

A Linz rimase giusto il tempo di organizzare il suo trasferimento. «Del mio arrivo qui ho due istantanee scolpite nella memoria. Alla mia prima visita al Cortile della Cavallerizza, capolavoro manierista di Giulio Romano, ho trovato un gatto morto. Doveva essere lì da un mese o due. “Possibile che nessuno se ne sia accorto?”, ho chiesto. Il secondo shock è stato di fronte a La famiglia Gonzaga in adorazione della Trinità, la meravigliosa opera di Rubens. La didascalia era completamente ingiallita, con un testo dattiloscritto negli anni novanta ed era appesa a sessanta centimetri da terra. Nemmeno chi fa yoga». C’era molto da fare, e in fretta. Priorità: aprire davvero il Palazzo. Tutto il Palazzo.

Storico dell’arte, critico e curatore di mostre da Santiago del Cile a Shanghai, fondatore di riviste, autore di romanzi, pittore, docente universitario, presidente del Museumsbund Österreich: la natura eclettica di Assmann («Per un breve periodo, quattro anni fa, ho voluto fare l’aiuto cuoco nella cucina di un ristorante di Venezia») cozza meravigliosamente con la sua placida apparenza da amministratore. «Non c’è nessuna contraddizione nell’essere sia artista che manager, nel mondo dell’arte. La regola fondamentale è che l’artista aiuti sempre il manager e che il manager non aiuti mai l’artista. Nel primo caso il lavoro si arricchisce di chiavi creative, di sensibilità e, perché no, di contatti utili. Nel secondo si sfocia nel conflitto d’interessi». Questo approccio trasversale tra arte e managerialità, racconta, non è raro, come dimostra un altro austriaco direttore di un museo. «Max Hollein è da poco stato nominato direttore del Met di New York. Lo conosco. Il padre è Hans Hollein, un artista e architetto. Il museo del vetro di Teheran è opera sua. Lui ha da sempre indirizzato il figlio sul doppio binario di economia e storia dell’arte».

L’approccio alla gestione di un museo statale come fosse un’azienda privata può spaventare, in Italia: «All’inizio c’era molto scetticismo. Mi ero dato un mese di tempo. Se avessi capito che non ero ben visto da colleghi e personale mi sarei fatto da parte. Poi ci siamo conosciuti meglio e le cose sono giorno dopo giorno migliorate». Dalla sua c’è stata anche la rapida crescita dei numeri. «Nei primi mesi c’erano ancora Renzi e Franceschini, sono arrivati fondi e sostegno. I numeri sono esplosi in breve tempo».

Non fosse stato per la riforma di Franceschini, Assmann non sarebbe ora alla guida di Palazzo Ducale. Eppure non per questo lesina analisi anche dure sulle ragioni per cui quel progetto, da qualche mese ormai, sembra essersi inceppato. «Credo che prima di avviare quel percorso andassero analizzati tutti i rischi normativi. Era evidente che la nomina di direttori stranieri avrebbe dato fastidio a qualcuno e che gli oppositori avrebbero cercato falle legislative per tentare di scardinarla. Prevenire la situazione attuale sarebbe stato un segno di maggiore responsabilità e competenza». L’altro peccato originale, dice, è la falsa autonomia dei Direttori: «Tra pochi giorni, un nostro funzionario dovrà lasciarci per ragioni personali. È un collaboratore stretto su cui ho investito molto e con cui ho avviato un rapporto splendido. Lo sto per perdere e non posso fare nulla. Non solo non posso selezionare il sostituto: non posso proprio averlo. Resteremo con quel buco in organigramma. Strana situazione, sei il il manager di un ente e ti ritrovi del tutto disarmato dell’autonomia in materia di risorse umane». Tutte le assunzioni dipendono dal MiBAC, dunque anche se il Museo ha le risorse non può investirle nell’assunzione di personale. «In Italia c’è uno strano approccio, del tipo Metto lì una persona e penserà lui a sistemare le cose, senza preoccuparsi di agire su tutto il resto della struttura, rendendola efficiente, permettendogli davvero di poter incidere con il suo lavoro». Per rendere l’idea, cita Star Wars: se il sistema non cambia «The empire will always strikes back». Le sue parole suonano ambiziose, talvolta aliene. «In questo settore io sono il volto dell’anti-burocrazia, di chi vuole scardinare ingranaggi arrugginiti». Si sente un rottamatore? Non conosceva l’espressione, risponde, ma può calzare.

palazzo ducale

Un’eventuale bocciatura di Assman e degli altri direttori stranieri può essere presentata in termini giuridici, ma resterebbe l’alone della scelta nazionalistica. Lui è sereno. «Sono venuto per cercare di fare qualcosa di buono. Ho comunque avuto una buona carriera e la fortuna di essere stimato da molti colleghi. Fossi costretto ad andarmene troverei un incarico senza grossi problemi». Poi aggiunge: «Decidere che io me ne debba andare perché non sono italiano è legittimo. Poi però non lamentatevi se l’Austria chiude il Brennero». Campanilismi e nazionalismi, del resto, si fanno sentire in tutta Europa: a suo parere viviamo una fase storica che non è ancora stata in grado di delineare per l’individuo identità chiare e, in assenza di quella sicurezza, il terreno è fertile per le gelosie ansiogene. «Prima o poi, in Italia il nodo dovrà venire al pettine. Bisognerà che vi chiariate su cosa sia l’italianità».

Questi tre anni, complici le accuse di illegittimità e i grandi numeri del museo, sono stati un crescendo di notorietà per Assmann e Palazzo Ducale. Una celebrità vissuta con qualche episodio eclatante come quello del 2 aprile scorso. Era un lunedì, il giorno di Pasquetta, e Palazzo Ducale è rimasto chiuso. Molti turisti si sono lamentati. Erano arrivati a Mantova solo per visitare la reggia gonzaghesca. C’è fu una polemica forte, su scala nazionale. In realtà il museo non aveva scelta: la normativa sui musei statali prevede che, nel caso caso di sovrapposizione tra giorno di riposo (il lunedì nel caso di Palazzo Ducale) e festività, l’apertura sia concessa soltanto se un numero minimo di dipendenti accetti di lavorare volontariamente (in quel caso non si trovarono i custodi). Secondo Assman la vicenda conferma, ancora una volta, quanto l’autonomia dei musei sia solo i formali. Quanto alla polemica: «Tre anni fa non ne avrebbe parlato nessuno. La polemica dimostra che abbiamo reso il Museo un luogo centrale sulla scena italiana».

Per sopravvivere al carrozzone burocratico, nel tempo Assman ha sviluppato dei meccanismi di difesa: «A volte leggo i testi normativi come fossero qualcosa di onirico. Le assicuro che ci si può trovare della poesia». Viene spesso a Milano, dove mantiene la cattedra di Curatorship of Cultural Projects and Institutions, uno dei corsi in lingua inglese del Politecnico tanto contestati. Gli iscritti sono giovani delle più varie nazionalità. «Sono somali, indiani, cinesi. Anche siriani. Mi piace molto quel corso perché ho di fronte la possibile classe dirigente che tra dieci anni, o magari venti, guiderà la cultura di quei paesi. Stanno scommettendo su un futuro più roseo per le loro nazioni, costruito anche sulla valorizzazione delle loro radici e dei loro patrimoni artistici».

Negli ultimi tre secoli, Mantova ha trascorso 157 anni come città italiana e 135 anni come città dell’Impero d’Austria. Su scala secolare, un cinquanta e cinquanta. Qui Assmann non è solo uno straniero; qui Assmann è soprattutto un austriaco. Qualcuno, al suo arrivo, provò a ironizzare su come la sua nazionalità fosse quasi un insulto al passato cittadino. Lui non si scompone: «Non mi sono mai accorto di fastidi di quel tipo. Sono anzi convinto che i mantovani ricordino con più simpatia Maria Teresa che non Napoleone». Per una quindicina d’anni, l’imperatore francese scippò Mantova proprio agli Asburgo. Fu in quel periodo che il tirolese Andreas Hofer, capo della guerriglia anti-napoleonica, una volta catturato dall’esercito transalpino, fu condotto nella Mantova francese per essere fucilato. L’evento è da sempre uno snodo cruciale per l’identità del Tirolo e tutt’ora l’inno del Land occidentale ricorda le ultime ore di vita del comandante incarcerato nella città virgiliana. Zu Mantua in Banden, Der treue Hofer war. A Mantova in catene, il fiero Hofer sta. Anche Assmann è tirolese.

Foto di Andy Masaccesi