Attualità

Paganini, Liszt e le popstar prima del pop

Vita, imprese e leggende su Niccolò Paganini e Franz Liszt, due autentiche popstar ottocentesche prima che nascessero le popstar come le conosciamo oggi.

di Edoardo Vitale

Esiste un secolo meraviglioso, ingiustamente bistrattato, schiacciato tra i moti caotici della Rivoluzione francese e le Guerre Mondiali. Un secolo spesso liquidato troppo velocemente al liceo dai professori in costante ritardo con il programma, e – soprattutto in Italia, per colpa di quel Risorgimento messo lì tra i piedi – di difficile collocamento nella divisione formale tra storia moderna e contemporanea, sul quale non c’è un accordo unanime: motivo per cui si fa fatica a trovare due manuali che concordino sulla fine di una e l’inizio dell’altra (per esempio nei paesi anglosassoni e in Germania si è risolto il problema distinguendo tra una early modern o frühe Neuzeit – che va dalla fine del Medioevo fino al 1789 – e una tarda età moderna che arriva fino allo scoppio della Prima guerra mondiale, con la quale ha inizio la storia contemporanea).

Insomma, questo secolo meraviglioso e ingiustamente bistrattato è l’Ottocento. Epoca ricchissima di geni in tutti i campi dell’arte e della cultura, tra i quali non può mancare la musica, anch’essa influenzata dai dettami e dall’estetica del Romanticismo, il movimento di maggior rilievo del secolo in questione. La musica romantica introdusse un numero considerevole di novità dal punto di vista della melodia, della dinamica e del timbro, ma soprattutto vide evolvere la posizione sociale del musicista: non più elemento subalterno alla corte, ma libero professionista in grado di provvedere alla propria carriera seguendo gusto e ispirazione, nonché unico responsabile delle scelte artistiche. In una sola parola: indipendente (fa un po’ ridere questa espressione rispetto all’uso che se ne fa oggi, ma ecco non dovete immaginarvi Chopin con i pantaloni stretti, no).

La musica romantica introdusse un numero considerevole di novità dal punto di vista della melodia, ma soprattutto vide evolvere la posizione sociale del musicista.

E se pensate che la figura del musicista-divo, idolo delle masse, ribelle e sregolato, sia una questione tutta novecentesca, vi sbagliate di grosso.
L’ascesa della borghesia, che fece dell’educazione musicale un elemento distintivo e fondamentale della propria formazione culturale, andò di pari passo con lo sviluppo del pianoforte a quattro mani, il quale rese la musica un mezzo di socialità e di compagnia domestica. Una conseguenza immediata fu lo sviluppo di un fiorente mercato editoriale: gli spartiti – spesso venduti, esattamente come oggi, accompagnati da targhette che ne sottolineavano la facilità d’apprendimento anche per un uso amatoriale – divennero una forma di guadagno per i compositori. La musica si arricchisce dunque di una componente commerciale ed economica: bisogna vendere, farsi pubblicità, riempire i teatri, far parlare di sé, scatenare dibattiti. In questo periodo è persino plausibile collocare le più arcaiche radici degli attuali talent show: non di rado i musicisti venivano chiamati a sfidarsi alla corte del re, ed è celebre lo scontro che avvenne tra Mozart e Clementi di fronte a Giuseppe II, dal quale fu l’italiano a spuntarla, a detta dei presenti.

Di lì a poco nascerà la figura del “virtuoso”, una specie di rockstar ante litteram, un musicista che si esibisce per esaltare il pubblico attraverso prodezze tecniche fuori dal comune e di difficile esecuzione. I due principali virtuosi della musica romantica furono Niccolò Paganini e Franz Liszt, due personaggi speculari sotto alcuni punti di vista, e con altrettanti aspetti in comune: uno su tutti fu l’enorme popolarità che raggiunsero in vita, accompagnata da innumerevoli leggende che si crearono attorno alla loro vita privata.

Paganini è senza ombra di dubbio il più grande violinista di tutti i tempi e non appena (già da giovanissimo) ebbe modo di fornire al mondo il suo straordinario talento, non ci volle molto prima che diventasse uno dei personaggi più oscuri e ambigui della sua epoca. Nonostante una biografia tutt’oggi lacunosa, gli aneddoti più o meno fittizi di cui si è a conoscenza bastano per rendere interessanti almeno una dozzina di vite di uomini comuni.

Paganini venne da subito considerato “il violinista posseduto dal demonio”, con largo anticipo sul blues di Robert Johnson.

A sei anni fu dato per morto a causa di una forte forma di morbillo e riprese conoscenza poco prima di essere sepolto vivo. Sopravvissuto all’inconveniente, studiò da autodidatta il violino (studiò e compose buone opere anche per chitarra a sei corde, una cosa non frequente all’epoca), per dieci o dodici ore al giorno, sotto la stretta sorveglianza del padre, che lo costringeva a un regime di pane, musica e acqua. Sin dalle prime esibizioni destò l’interesse di importanti letterati e intellettuali, tra cui J. W. Goethe, Heinrich Heine e Ludwig Rellstab, sensibili all’impeto e alla meraviglia della musica di Paganini, che di lì a poco inizio a essere considerato “il violinista posseduto dal demonio”, con largo anticipo sul blues di Robert Johnson e su tutte le derivate icone rock che in futuro si accostarono o furono accostate al demonio. Ve l’avevo detto che non era affatto una questione tutta novecentesca.

Bisogna dire che ancor prima di Paganini, verso la metà del XVIII secolo, Giuseppe Tartini compose il “Trillo del diavolo” (quello che suona sempre Dylan Dog con il clarinetto), a seguito di un sogno in cui il compositore sostenne di aver stretto un patto con il demonio. Ma, ancor più in generale, il violino, fu da sempre considerato uno strumento dai poteri soprannaturali e malvagi, al punto che fu messo al bando dalla Chiesa e alcuni editti ne ordinarono addirittura la distruzione. La differenza sostanziale, è che la vita e l’estetica di Paganini elevarono all’ennesima potenza il rincorrersi di voci esoteriche sul suo conto. Innanzitutto Paganini era molto brutto (a tal proposito, tra i film biografici su Paganini, vale la pena segnalare Kinski Paganini, diretto e interpretato da Klaus Kinski nel 1989, molto più che Il violinista del diavolo del 2013, in cui Paganini è più che altro un belloccio donnaiolo). Questo aspetto emaciato ed esangue era accentuato dall’abuso di oppio e dalla sifilide, che gli costò la perdita di tutti i denti e di una parte della mandibola. Nonostante questo non smise mai di essere circondato da parecchie amanti, tra cui la principessa Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, relazione che causò anche qualche grana diplomatica. Giocatore d’azzardo dal carattere aspro, secondo la voce popolare avrebbe imparato a suonare così bene esercitandosi in carcere, dove finì a seguito di un delitto passionale (in realtà Paganini trascorse un periodo in carcere per aver messo incinta una sua allieva).

E poi ancora: Paganini avvistato di notte a suonare nei cimiteri, con quelle mani innaturali, in grado di coprire tre ottave, probabilmente a causa della sindrome di Marfan, che permette un’anomala estensione delle ossa e dei legamenti. C’è chi giura di aver visto degli spettri aggirarsi sul palco durante un suo concerto o chi ha sentito puzza di zolfo nel teatro, quel che è certo è che si trattava di spettacoli unici e irripetibili. Paganini, avvolto in uno spettrale frac nero, tendeva a improvvisare buona parte del repertorio (e soprattutto a non ripeterlo, come noto), e tutto era finemente studiato per impressionare gli avventori: man mano che il concerto andava avanti, Paganini faceva in modo di far saltare le corde del suo strumento fino a concludere suonando sull’unica rimasta intatta – il Sol – riuscendo tuttavia a mantenere un suono sublime. All’indomani di ogni spettacolo, i giornali non parlavano d’altro, in prima pagina campeggiavano ritratti del violinista e, proprio come una popstar, furono persino commercializzate le “Caramelle Paganini”.

Su questa scia si colloca l’ungherese Franz Liszt, nato nel 1811, una trentina d’anni dopo Paganini, del quale sarà grande estimatore e di cui rielaborò parte del repertorio, oltre ad aver adattato per il pianoforte alcune tecniche innovative sperimentate sul violino dal suo virtuoso predecessore. Anche Liszt si distinse nei primi anni di vita per le sue doti tecniche, ed è forse da considerare il virtuoso per eccellenza. La sua bravura gli permise di suonare e insegnare in tutta Europa, e strinse rapporti con i maggiori esponenti della musica e dell’intellighenzia di quel periodo, tra cui Fryderyk Chopin, Richard Wagner (di cui divenne suocero), Marie Catherine Sophie, il pittore Ingres, Gioachino Rossini e George Sand. Suonò inoltre per Napoleone III e mantenne per tutta la vita degli ottimi rapporti con la Chiesa Cattolica, al punto che nel 1865 ricevette in Vaticano gli ordini minori. È proprio questa la differenza con Paganini, reietto e sbandato e al quale fu impedita la sepoltura in terra consacrata.

Al contrario Liszt, fu invece un dandy benvisto e benvoluto, oltreché di bell’aspetto. Il comune denominatore resta il riconoscimento tra le masse, tant’è che a partire dal 1841 si parlò di “Lisztomania”, per indicare i veri e propri fenomeni di isteria che caratterizzeranno i fan del pianista e che, con le dovute proporzioni, possono essere accostati a quelli a cui si assistette più di un secolo dopo per i Beatles o per Elvis. A Liszt è intitolato un asteroide, furono coniate monete con il suo profilo, in numerose città si trovano statue del suo busto e le sue opere sono state utilizzate per la colonna sonora di una serie infinita di film (quasi 200) tra cui Eyes wide shut di Kubrick e Eva contro Eva di Mankiewicz. Anche Liszt fu avvicinato a suo modo alla figura del demonio, soprattutto per via dei quattro valzer composti tra il 1859 e il 1885, intitolati Mefisto Valzer e ispirati dal personaggio del Faust dei racconti di Nikolaus Leneau. Queste opere si presentano come un’ode se non addirittura un’invocazione di Lucifero e nel corso degli anni si sono sviluppate numerose credenze e accostamenti (un po’ forzati, in realtà).

Sia Paganini che Liszt furono abili a cavalcare e a non smentire mai completamente maldicenze o fantasie sul loro conto, alimentando quell’interesse misterioso che è il principale viatico del successo. E chissà quanto avrebbero potuto fare di più se a quei tempi si fosse potuto far girare un vinile al contrario o mandare un tweet.

 

Nell’immagine in evidenza, “Il sogno di Tartini”, illustrazione di Louis-Léopold Boilly (1761-1845)