Attualità

Non sparate su Zlatan

L'ambizione, l'ossessione, le beffe del destino: Ibra, più Don Chisciotte che Macbeth, non è un mercenario

di Davide Coppo

L’ultimo capitolo di una straordinaria vita all’insegna della superbia è stato scritto pochi giorni fa, quando il sarcasmo di chi sa (meglio, crede fermamente) di essere superiore a tutto e tutti si è abbattuto sull’imbarazzata dirigenza milanista, che per una manciata di euro che difficilmente sarà di nuovo investita nel mercato l’ha pregato di andare a farsi un giro sui Campi Elisi. «Avete bisogno di soldi? Se volete vi faccio un assegno» è stato il commiato (telefonico) di quello che poteva essere l’erede di Marco Van Basten.

Avrebbe potuto incarnare, come spesso capita per gli uomini illustri che dall’umiltà delle origini ascendono alla Gloria nella più tradizionale declinazione calcistica dell’epopea borghese, la metafora e il frutto dell’unione tra un Bosniaco (il padre, Sefik Ibrahimovic) e una Croata (Jurka Gravic, la madre), che si conobbero e si amarono nella Svezia modello d’integrazione e welfare (in realtà fu un matrimonio disastroso. Ma la retorica, immaginiamo, avrebbe addolcito). Avrebbe potuto, sì, essere l’ennesima storia da raccontare ai piccoli per farli sognare e dar loro un appiglio per ricordare che i sacrifici sono solo una faccia dei successi futuri. Come l’algerino Zizou, come il Maradona di Baires, come tanti altri Grandi, i protagonisti del Romanzo Retorico Globale. Ibra ha voluto essere diverso. Ha voluto essere l’unico – e ha fatto proteggere il suo nome, Zlatan, dal copyright. Ha voluto essere il cattivo.

Perché Ibra è per tutti “lo zingaro”, “il mercenario” e “il traditore”, il giocatore borioso e pieno di sé che, puntualmente, fallisce gli appuntamenti che la Storia gli riserva nelle famose partite che contano. Eppure Ibra, per una manciata di mesi, è riuscito a far godere come (quasi) nessuno mai le tre più importanti squadre italiane e persino il Barcellona, dove all’inizio, e ci tiene a sottolinearlo, segnava più di Messi (ed è per questo, dice, che è stato in seguito fatto giocare fuori posizione: non poteva rubare la scena al pupillo del Camp Nou e di Pep Guardiola). Amato, incensato, innalzato, adorato. Poi additato a nemico pubblico, e privato, numero uno. Anche prima di “tradire”. Accadde all’Ajax, quando si mise contro l’intoccabile Van Der Vaart e venne fischiato da tutta l’Amsterdam Arena, lo svedese iconoclasta, prima di realizzare un goal straordinario e tramutare l’odio in euforia.
Accadde all’Inter, mentre lui segnava e vinceva il terzo scudetto consecutivo, ma iniziava a capire che quella non sarebbe stata la squadra migliore per vincere la sua ossessione (con il destino a giocargli il tiro più classico e beffardo l’anno successivo). Inter – Lazio, un goal costruito da solo e il dito che va alle labbra, la mano che si muove poi più in basso, oscena e offensiva. Con più rabbia di quella contenuta nel missile che ha appena abbattuto Muslera. Per zittire i suoi tifosi. In parte è accaduto anche al Milan, in cui le sue eclissi dal gioco, braccia appoggiate ai fianchi, statuario ma immobile su un fallo laterale, hanno fatto rumoreggiare più di una volta il San Siro rossonero.

Ibra non mancherà al Milan come gli mancherà Thiago Silva. Si dirà che si sapeva, che è un mercenario, un nomade, uno zingaro. Cosa ti aspettavi da lui. Da uno che è passato anche da Juventus e Inter. Uno che i colori non li ha nel cuore, ma tra le cosce come una puttana. Eppure questa volta Zlatan è stato accomodato alla porta. Questa volta hanno tradito lui. Gli avevano promesso un numero, il 10, che gli hanno negato poi. Forse lo avrà al Paris Saint Germain, se Nené glielo cederà. Ieri ha fatto le viste mediche, e non sembrava sorridere. Chissà cosa dirà del modesto calcio francese, lui che amava la polemica italiana, la vivisezione della moviola sette giorni su sette, la continua provocazione verbale con giocatori e giornalisti. Ibra adorava l’Italia, e adorava quello che dell’Italia calcistica è spesso indicato come il tarlo: l’amore per il pallone che diventa patologia. Gli allenatori duri, sergenti di ferro.

Come Fabio Capello. Quello che alla Juventus trasformò il ragazzo sfrontato e funambolico dell’Ajax in un aspirante eroe assetato di successo. Troppo. «Capello non mi levò solo l’Ajax dal corpo a legnate. Fece anche di me il giocatore che arriva in un club e pretende che si vinca il campionato, a prescindere», scrive nella sua autobiografia. Fu Capello a insinuare per primo nella mente di Zlatan quell’Ossessione. Vincere. Vincere la coppa più importante. Ibra non è cattivo. Non è “infame”. È schiavo dell’ambizione, e come il più ambizioso degli anti-eroi, Macbeth, anche Ibra ha la sua Lady Macbeth che lo muove al delitto. Assetato di potere, è Mino Raiola, «Mino, quel meraviglioso ciccione idiota». Mino Raiola è stato l’agente di Pavel Nedved, lo è di Robinho e di tanti altri, ma è con Ibrahimovic che riesce a “girare” al massimo. Perché Zlatan è inquieto, in perenne tensione. Conscio della caducità della propria condizione di calciatore prima che di uomo. Nelle pagine delle sue memorie lo ripete spesso: mi restano pochi anni. Voglio prendere tutto. Non fosse un calciatore, sarebbe un modello di self-made man, incontentabile, mai formica, mai ignavo. Ma quando ci sono di mezzo i soldi, e quando in mezzo ai soldi c’è il cuore, i falchi non piacciono a nessuno.

Il suo peccato, Zlatan sembra scontarlo già in vita. Nella sua vita più importante, quella iniziata nel 1996 con il primo contratto da professionista, che terminerà tra non molti anni, non molti anni, con il pensionamento e un oblio a cui in pochi sfuggono – gli immortali, appunto. Il contrappasso è quella vittoria che arriva sempre (Inter prima, Barcellona poi) quando lui se ne va, mancando puntualmente l’appuntamento più importante. Ridono, i nemici, crudeli. Ma non sparate su Ibra: ammiratelo. Lui non demorde e non rinuncia, e dietro all’arroganza del ghetto di Rosengård c’è un Don Chisciotte che combatte da solo anche contro se stesso. Un Achille che insegue una tartaruga che sembra davvero paradosso, la cui rabbia si placherà solo alla conquista di quell’ossessione. A Ibra non basta la fama, non interessa l’amore, è per questo che se ne va ancora, e non sarà l’ultima volta di certo: Ibra vuole l’immortalità. La vetta dell’Olimpo. L’ha detto: vuole collezionare coppe. Quella, la insegue da 31 anni.

Non stupisce allora che il suo modello, il suo mito sia Mohammed Ali. Il più grande guerriero di sempre. Fino a vent’anni Zlatan non vide un solo film. Soltanto videocassette di incontri di boxe, vincere o perdere, senza appello, senza complimenti. «Non avevo la minima conoscenza degli eroi o dei campioni sportivi, tipo Ingemar Stenmark o i grandi tennisti. Ma Ali, lui sì che lo conoscevo!». Si capisce tanto, allora.

 

Foto: Giuseppe Cacace/AFP/Getty Images