Attualità

Non muoiono mai

Gli zombie sono sempre tra noi, il nuovo World War Z lo conferma. Storia di un genere immortale che dall'horror è arrivato fino alla comedy rosa.

di Federico Bernocchi

Il box office americano è ancora oggi in grado di regalarci delle belle sorprese. Questo fine settimana è stato dominato dall’uscita di Monster University, prequel targato Pixar del suo capolavoro Monster Inc, che ha incassato la bellezza di 82,4 milioni di dollari. Al secondo posto s’è classificato con grossa sorpresa di tutti (e staccando di ben 25 milioni di dollari Man of Steel, che rimane al terzo posto) la pellicola di Marc Foster World War Z. Addirittura dopo questo esaltante esordio al botteghino il protagonista (e produttore della pellicola) Brad Pitt s’è affrettato a dire alla stampa che il sequel è già in programmazione. Suona un po’ come una rivincita, una vendetta per un film che era stato dato per morto ancora prima che uscisse. E che invece, proprio come un morto vivente, è riuscito a trascinarsi fino al raggiungimento del suo scopo. Ma per quale motivo World War Z era un flop annunciato? Su quello torneremo domani sempre qui, ma permetteteci una riflessione a margine. Gli zombie, i morti viventi, dovrebbero ormai aver stancato. Eppure ce li ritroviamo ancora tra i piedi. Perché? Per quale motivo questa figura, nella finzione cinematografica come nella vita reale, è così tenace e resistente?

Zombi o morto vivente. La stessa cosa? Potremmo dire di sì e tagliare dritto per la nostra strada, ma ragioniamoci un secondo. Pensiamo ai titoli dei film: Ho Camminato con uno Zombie (I Walked with a Zombie), diretto da Jacques Tourneur nel 1943. Il secondo titolo horror prodotto dal grande Val Lewton dopo Il Bacio della Pantera, è ambientato nelle Indie Occidentali. Qui c’è una donna, che vive insieme al proprio marito, che sembra essere malata di mente. Scopriremo poi che dietro a questa sua malattia in realtà c’è qualcosa di ben diverso. Lo zombie è un termine legato alla magia nera haitiana; la tradizione vuole che uno stregone (bokor) sia in grado di rapire tramite un rito una parte dell’anima di una persona, trasformandolo in una sorta di schiavo. Lo zombie perde parte della sua umanità e, anche se sepolto vivo, rimane in uno stato letargico da cui può essere risvegliato dal proprio padrone. Prendiamo La Notte dei Morti Viventi (Night of The Living Dead o precedentemente, durante la lavorazione del film, Night of the Flesh Eaters) diretto da George Romero nel 1968: un gruppo di uomini si trova assediato all’interno di una casa da un manipolo di persone morte poi risvegliate da delle non meglio radiazioni provenienti dalla Luna e che ora non vedono l’ora di cibarsi della nostra carne. Questa è la differenza tra zombie e morto vivente. I termini sono andati poi a mescolarsi e spesso si dice zombie per indicare un morto vivente, ma parliamo di cose differenti. Il secondo capitolo dei film sui morti viventi di Romero da noi è uscito, grazie alla produzione di Dario Argento, con il titolo di Zombie mentre in originale è Dawn of The Dead. L’anno successivo, nel 1979, quel genio di Lucio Fulci rincarò la dose girando il suo bellissimo Zombie 2 che parte sì da un’immaginaria isola dei Caraibi, ma parla essenzialmente di morti viventi. Detto questo, chiediamoci per quale motivo la figura del morto vivente, dal 1968 ad oggi, è ancora una delle più amate dal pubblico.

Il villain stereotipico del western, quell’indiano incapace di parlare o di farsi capire, mosso da una cieca sete di sangue, non scompare ma si trasforma in qualcosa di differente, il morto vivente

Il piccolo film di George A. Romero, girato con il ridicolo budget di 6000 dollari dell’epoca e che ad oggi ha incassato cifre assolutamente impensabili entrando di diritto nella Storia del Cinema, è stato il primo. Come abbiamo detto poco sopra non c’è una vera e propria ragione per cui da un momento all’altro i morti ritornino in vita tentando mangiarci vivi. C’è una piccola sequenza in cui si dice qualcosa di estremamente confuso su delle onde provenienti dalla Luna, ma ci si ferma qui con le spiegazioni scientifiche. Semplicemente i morti viventi ci sono, arrivano. In molti all’epoca hanno voluto dare una lettura politica della figura, parlando del Vietnam e degli scontri che in quel periodo animavano le Università americane. La cosa non è da escludere anche perché, se guardiamo alla produzione successiva del regista, è chiaro che il suo è un approccio profondamente politico. Resta da capire quanto questa sua vena sia, soprattutto negli ultimi titoli, spontanea o motivata da letture di critici che nel tempo hanno rivalutato e analizzato quella che un tempo veniva chiamata la Trilogia dei Morti Viventi (Night of the Living DeadDawn of the DeadDay of the Dead). Ma forse c’è anche qualcos’altro. Nel 1968, per una serie di motivazioni diverse, storiche e culturali, il genere western era quasi definitivamente scomparso dagli schermi. L’anno successivo uscirà il dirty western Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah, ovvero quello che viene comunemente inteso come l’ultimo chiodo sulla bara del genere. Eppure qualcosa rimane: l’idea è che temi e figure del genere western, essendo le basi del cinema popolare statunitense, siano migrate in un’altra forma. Mettendola nel più semplice dei modi possibili, Il villain stereotipico del western, quell’indiano incapace di parlare o di farsi capire, mosso da una cieca sete di sangue che lo porta a fare lo scalpo a tutti quelli che incontra, non scompare ma si trasforma in qualcosa di differente, il morto vivente. Non solo: proprio per la sua natura di morto vivente, questa nuova figura rappresenta perfettamente il senso di colpa da parte dell’americano nei confronti dello sterminio del popolo indiano.

Da allora, a fasi alterne, il morto vivente è diventato una delle maschere più famose all’interno del cinema horror. Al pari dei vecchi Dracula, Frankenestein o Uomo Lupo, o dei personaggi del “new new-horror” come Freddy Kruger, Jason Voorhees o Michael Myers, il morto vivente è diventato una figura cardine e immortale del genere. Ma a differenza dei suoi colleghi, il morto vivente è andato incontro a diverse evoluzioni che hanno anche modificato il genere di film in cui compare. Potremmo azzardarci a dire che il morto vivente è diventato nel corso del tempo un macrogenere all’interno del quale poi hanno trovato spazio altro sottogeneri. Uno dei punti di svolta è stato 28 Giorni Dopo di Danny Boyle del 2002. Qui per la prima volta (anche se in realtà i più appassionati si ricorderanno di Incubo Sulla Città Contaminata di Umberto Lenzi del 1980) i morti viventi corrono e non sono più quella minaccia statica e immobile – e per questo forse molto più spaventosa – che erano stati fino a quel momento. Oltre a questo il film di Danny Boyle, soprattutto nel potentissimo incipit, si immerge in una dimensione stilisticamente inedita: 28 Giorni Dopo anticipa tutta la moda dei finti documentari che ha poi influenzato tutto il genere. Pensiamo a Diary of the Dead dello stesso Romero o al caso iberico [REC] di Jaume Balagueró e Paco Plaza entrambi del 2007.

Shaun of the Dead riesce a far capire a sceneggiatori e registi che quella struttura può venire meno, che la figura del morto vivente può essere presa come un elemento singolo di un film capace poi di parlare d’altro

Ma la vera svolta è datata 2004. In quell’anno arriva dall’Inghilterra un curioso film destinato a cambiare le regole del gioco. Il titolo è Shaun of the Dead, tradotto in italiano come La Notte dei Morti Dementi. Il regista è Edgard Wright che l’ha scritto insieme al sodale Simon Pegg, protagonista della pellicola insieme al corpulento Nick Frost. Shaun of the Dead è in parole semplici una commedia romantica con i morti viventi. Shaun è uno ragazzo sui trenta che tenta di mettere a posto la sua vita amorosa e personale mentre Londra viene presa d’assalto dai morti viventi. Il cambio è radicale: la classica struttura del film d’assedio, che fino a quel momento aveva condizionato la stragrande maggioranza dei prodotti del genere, viene meno. Anzi, il film riesce a far capire a sceneggiatori e registi che quella struttura può venire meno, che la figura del morto vivente può essere presa come un elemento singolo di un film capace poi di parlare d’altro. In men che non si dica il mercato si satura di film comici che hanno a che fare con i morti viventi. Alcuni sono passabili (Zombieland di Ruben Fleischer, Fido di Andrew Currie o il curioso Dead Snow del norvegese Tommy Wirkola), altri, moltissimi, sono francamente inguardabili (Zombie Stripper di Jay Lee, Maial Zombie – Anche i Morti lo Fanno di Mathias Dinter, Cockneys vs Zombies di Matthias Hoene o ancora Juan De Los Muertos di Alejandro Brugués). Dopo il ciclone Shaun of the Dead le cose sono decisamente cambiate e per un lungo periodo s’è fatto fatica a prendere sul serio la figura del morto vivente. Ci ha messo del suo anche la letteratura che ha lanciato il talento di Seth Grahame-Smith, autore del fortunatissimo Orgoglio, Pregiudizio e Zombie. Fortunatamente però, poi è arrivata la televisione.

Ma la vera svolta del morto vivente è un’altra ancora: nel 2004 esce un piccolissimo film dal titolo Zombie Honeymoon: due sposini sono in luna di miele, quando lui si trasforma in un morto vivente

Nel 2008, Charlie Brooker, autore del giustamente osannato Black Mirror, scrive la serie Dead Set. La storia è semplicemente geniale: nel momento in cui i morti viventi prendono il potere, l’ultimo avamposto dell’umanità è il luogo più protetto e inaccessibile d’Inghilterra, ovvero la casa del Grande Fratello. Le classiche dinamiche da reality trovano una nuova dimensione nel momento in cui il timore dei partecipanti alla trasmissione non è solo quello di dover lasciare la casa, ma anche quello di rimetterci la vita. Dead Set è un potentissimo saggio sul potere della televisione e dei reality in cui i morti viventi riacquistano una loro orribile e terrificante dignità. Gli Stati Uniti rispondono con The Walking Dead, serie televisiva tratta dal famoso fumetto scritto da Robert Kirkman e illustrato da Tony Moore e Charlie Adlard. La serie è un successo globale che, se è vero che rilancia in modo estremamente serio una tipologia di morto vivente classica, sembra troppo spesso concentrarsi sui rapporti interpersonali tra i protagonisti che non sul pericolo esterno. Ma la vera svolta del morto vivente è un’altra ancora: nel 2004 esce un piccolissimo film dal titolo Zombie Honeymoon: due sposini sono in luna di miele, quando lui si trasforma in un morto vivente. La storia è quella del rapporto tra i due nel momento in cui lei è una ragazza normale e lui è un mostro in decomposizione che si ciba di carne umana. Il tono è spesso leggero o comico, la tecnica è totalmente assente, ma verso il finale il film assume una sua bizzarra profondità. Nel 2008 è la volta del francese Mutants: un ragazzo e una ragazza, entrambi infermieri e fidanzati tra di loro, scappano dalla città ormai invasa dai morti viventi. Troveranno rifugio in un gigantesco casolare perso tra le montagne. Il problema è che lui è infetto e prima della fine si trasformerà in un morto vivente. Mutants segue proprio questa lenta evoluzione, quel passaggio in cui un uomo si dimentica della sua forma umana, e si interroga se l’amore è un sentimento che può resistere. Uno dei luoghi comuni del genere è quella sequenza in cui uno dei personaggi entra in contatto con una persona che prima conosceva e che ora s’è invece trasformata in morto vivente. Il malcapitato si fida, si avvicina a quello che credeva essere un suo amico e inevitabilmente fa una brutta fine. Questo perché nel momento in cui si diventa un morto vivente il nostro cervello è quasi del tutto morto e ogni nostro ricordo scompare. Non siamo più le stesse persone di un tempo; siamo solo dei vuoti involucri, svuotati da ogni possibile forma di umanità. Ma se l’amore riuscisse a resistere? Ultima evoluzione di questo discorso è Warm Bodies diretto dal promettente Jonathan Levine e tratto dal romanzo di Isaac Marion. Il film è arrivato subito dopo la conclusione del fenomeno Twilight ed ovviamente non è un caso. Se in quel caso si raccontava di una storia d’amore impossibile tra una ragazza e un vampiro, questa volta si racconta di un morto vivente che si innamora di una ragazza. La motivazione è piuttosto interessante: il morto vivente s’è cibato del cervello del fidanzato della ragazza in questione e così facendo, oltre ad aver eliminato in modo drastico la concorrenza, ne ha assimilato e digerito i ricordi e i sentimenti. Peccato che dopo questo presupposto curioso, il film diventi un’imbarazzante comedy rosa incapace di trovare un modo di raccontare una storia che fa acqua da tutte le parti. A questo punto staremo a vedere se World War Z potrà segnare un nuovo stadio evolutivo di una figura che di morire sembra proprio non averne voglia.

 

Immagine: una scena de La notte dei morti viventi (1968)