Attualità

Zombification

Gli zombie prima (e dopo) Romero. Storia di una metafora che sta riacquistando il suo significato originale, radicato nell'esperienza della schiavitù.

di Anna Momigliano

«Mi piaceva l’idea che il mostro fosse dentro di noi», diceva George Romero. «Gli zombie siamo noi». A Romero è stato spesso attribuito il merito di avere introdotto nell’immaginario occidentale la figura degli zombie, cadaveri rianimati da un’aggressività cannibale ma privi di raziocinio o volontà, che si cibano dei vivi, contagiandoli. E questo nonostante nel suo primo film, La Notte dei Morti Viventi, che nel 1968 inaugurò un genere cinematografico oggi tornato in auge, di “zombie” non si parlasse affatto (nel film le creature antropofaghe restano per lo più senza nome, fatta eccezione per una battuta in cui sono definiti “ghoul”, spiriti dei cimiteri, mentre la parola “zombie” comparirà nel sequel del 1978).

In compenso il termine ricorre nel cinema americano degli anni Quaranta, che ha portato sugli schermi un’altra tipologia di zombie, solo lontanamente imparentati con i più noti mostri horror: gli zombie di Haiti (una storpiatura della parola “ndzumbi,” lo spirito dei morti per alcune tribù del Congo). Secondo la tradizione Vudù, si tratta di uomini e donne uccisi da uno stregone e poi risuscitati, ridotti a schiavi incapaci di intendere e di volere, mantenuti in uno stato di semi-catatonia soprannaturale.

La credenza negli zombie poteva solo essere figlia di una cultura nata dall’esperienza della schiavitù (gli storici ritengono che il Vudù abbia svolto un ruolo determinante nella ribellione degli schiavi di Haiti, l’unica ad avere portato alla nascita di una nazione indipendente) e dove lo spettro della prigionia si è trasformato nel tempo in un’ansia collettiva. Gli zombie movie degli anni Quaranta invece erano figli di uno Zeitgeist, assai lontano dal politicamente corretto dei giorni nostri, per cui appropriarsi delle tradizioni altrui e tramutarle in fantasie macchiettistiche era del tutto accettabile.

Gli zombie di Haiti non sono morti che risuscitano, bensì vivi ridotti in uno stato di rimbambimento vegetativo (una quasi-morte) con l’ausilio di agenti chimici.

Uno di questi, la commedia horror Zombies on Broadway (1945, con Bela Lugosi) racconta le disavventure di due impresari americani che vanno nei Caraibi alla ricerca di “un vero zombie” da esibire all’inaugurazione di un night club: finiranno vittima di uno scienziato che ha scoperto la formula chimica per “zombificare” le persone e inietta loro un veleno che induce, seppure temporaneamente, in uno stato di catatonia “zombesca” – giusto in tempo per trasformarli nell’attrazione del loro stesso spettacolo.Umorismo a parte, Zombies on Broadway ha una buona intuizione – suggerisce cioè che gli zombie di Haiti non siano tanto morti che risuscitano (il che, ovviamente, le renderebbe figure di pura fantasia), bensì vivi ridotti in uno stato di rimbambimento vegetativo (una quasi-morte) da agenti chimici. E che dunque la loro esistenza nel mondo reale sia se non altro contemplabile.

Contemplato era, del resto, il reato di “zombificazione” nel vecchio codice penale di Haiti. Recita l’articolo 249: «È da considerarsi tentato omicidio l’utilizzo contro un individuo di sostanze che, senza causare una vera morte, inducano un coma letargico prolungato. Se dopo la somministrazione di tali sostanze la persona viene sepolta, l’azione sarà considerata omicidio indipendentemente dal risultato che ne consegue». Avete letto bene, indipendentemente dal risultato che ne consegue. Non solo il codice penale partiva dal presupposto che avvelenare qualcuno in modo tale da creare una morte apparente fosse un reato relativamente comune, al punto di meritare un articolo a sé, ma prendeva in considerazione l’ipotesi che un individuo in stato di morte apparente potesse sopravvivere alla sepoltura per poi rianimarsi – da cui la necessità di mettere le mani avanti: guarda che conta come omicidio anche se il tuo “morto” poi “risuscita”.

L’antropologo Wade Davis è convinto di avere identificato l’ingrediente principale del “veleno zombie”: la tetrodotossina.

L’antropologo canadese Wade Davis ritiene che in questo consista la zombificazione: il sacerdote Vudù – l’houngan, che da tradizione è anche un esperto di veleni – somministra di nascosto alla vittima prescelta una pozione che, nel giro di qualche giorno, provoca un acuto malessere. Segue una morte apparente – una paralisi totale, i parametri vitali ridotti al punto da ingannare anche l’occhio di un medico. La vittima a questo punto viene sepolta e lasciata nella tomba per alcune ore: con un po’ di fortuna, sopravvive, proprio grazie al metabolismo ridotto, anche se la mancanza d’ossigeno lascia gravi danni al cervello. Poi l’houngan e i suoi uomini aprono la tomba, estraggono il “morto,” lo risvegliano malmenandolo e recitano le formule magiche: a questo punto il poveretto, inebetito dalla pozione e dall’anossia, traumatizzato dall’esperienza, sotto la suggestione del rito e delle proprie stesse credenze, ha perso ogni capacità di resistenza e di giudizio, è uno schiavo in completa balìa del suo padrone – in altre parole, uno zombie.

Davis è convinto di avere identificato l’ingrediente principale del “veleno zombie”: la tetrodotossina, una potente neurotossina rintracciabile in alcuni pesci palla. L’antropologo, che oggi lavora per il National Geographic, ha condotto una ricerca ad Haiti quando era un dottorando e pubblicato i risultati nel saggio Passage of Darkness, the Ethnobiology of the Haitian Zombie (University of North Carolina Press, 1988). Ha osservato la preparazione della pozione da parte di alcuni houngan, consultato gli archivi storici dei casi precedenti di “zombificazione” e intervistato un uomo, piuttosto noto ad Haiti, che sosteneva di essere “sopravvissuto” all’esperienza: Clairvius Narcisse, nato nel 1922, dichiarato morto nel 1962 all’ospedale di Deschapelles, sepolto, e infine ricomparso dal nulla nel 1980 (racconterà di essere stato ridotto in schiavitù da uno stregone, ma di essere riuscito a fuggire dopo 18 anni di lavori forzati). Narcisse era solo un impostore? «Alla domanda “gli zombie esistono” non sono in grado di rispondere, quello che ho potuto fare è formulare un’ipotesi scientifica che spieghi il processo», racconta Davis a Studio.

La letteratura medica sulla tetrodotossina non manca, perché in Giappone il pesce palla è considerato una prelibatezza (e casi di morte apparente in effetti si sono verificati), ma lo stesso antropologo tiene a precisare che la zombificazione è soprattutto un fenomeno psicogenico: si può diventare zombie perché la fede nell’esistenza degli zombie è molto radicata. «Non è una semplice superstizione, è parte integrante di un meccanismo per la preservazione delle regole sociali e morali ad Haiti», sostiene l’antropologo.

«I seguaci del Vudù non hanno paura degli zombie, hanno paura di diventare zombie», dice Davis.

Nelle società rurali dall’isola, che vivono ancora secondo codici d’onore ancestrali importati dall’Africa, la zombieficazione è la punizione suprema, ancora più temibile della morte, uno spauracchio che cementa il legame di ogni membro della comunità alla legge non scritta. «I seguaci del Vudù non hanno paura degli zombie, hanno paura di diventare zombie», spiega Davis. Diventare uno zombie significa perdere una parte assai specifica dell’anima, la ti-bon-ange, che in Occidente potremmo chiamare “personalità” e che è destinata a ricongiungersi con Dio; significa «divenire un corpo vuoto alla mercé di una forza aliena», perdere «memorie, volontà ed emozioni», vivere in una dimensione in cui «il passato è morto e il futuro è fatto di paura e desideri impossibili» – in altre parole, perdere il controllo sulla propria esistenza. Una paura particolarmente radicata in una civiltà di ex-schiavi, ma comune a tutto il genere umano.

Quando è nato negli anni Sessanta, il cinema zombie – che si era appropriato indebitamente del linguaggio Vudù – era l’ennesimo sottogenere horror, roba da matinée nelle sale di provincia. Adesso che sta conoscendo una seconda giovinezza, che dal cinema ha raggiunto la televisione e la letteratura, lo storytelling degli zombie si è trasformato in una metafora (The Atlantic l’aveva definita «la metafora del decennio»): di un ordine prossimo al collasso, come nella narrazione delle zombie-apocalypse; di un sistema finanziario “tossico” come nelle proteste che Jacopo Iacoboni descriveva sul numero 12 di Studio e più in generale dell’esperienza umana, del terrore (o della consapevolezza?) di non avere il controllo sulla nostra esistenza. La parola “zombie” è tornata, almeno in parte, al suo significato originario: non mostro cannibale, o morto vivente, bensì uomo vivo ma derubato della sua volontà. Si è chiuso il cerchio.

 

Illustrazione di Giorgio Di Salvo

Tratto dal n.12 di Studio