Attualità

Milano da bere #1

In occasione di "Tempo di Libri" abbiamo chiesto a sei autori di scrivere un testo sul loro rapporto con Milano e il bere: si inizia con Veronica Raimo.

di Veronica Raimo

Per festeggiare Tempo di Libri, la nuova fiera del libro di Milano che si terrà da mercoledì 19 aprile a domenica 23, Studio ha commissionato a sei autori altrettanti testi che raccontassero il loro rapporto con la città e il bere, un aspetto che coinvolge la nostra vita sociale e le nostre abitudini, e uno dei modi migliori, a nostro avviso, per descrivere le atmosfere di Milano. La collaborazione tra la rivista e la fiera culminerà giovedì 20 aprile al Bar Basso, dove dalle 19 in poi si terrà un cocktail party in cui i racconti pubblicati sul sito saranno presentati in un’edizione speciale su carta insieme all’ultimo numero di Studio.

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«Di tutte le calunnie, la peggiore è quella che prende di mira la nostra pigrizia, che ne contesta l’autenticità». Nel prontuario di aforismi di Cioran, è quello a cui sono più affezionata. Credo però che un gradino sotto la peggiore delle calunnie, ci sia quella che mette in dubbio l’autenticità del nostro alcolismo. Sindacare sulla taratura etilica degli altri o rivendicare sbronze epiche, collassi, lavande gastriche mi sembra una pratica odiosa quasi quanto accalorarsi intorno alla ricetta del ragù perfetto. Di base non me ne frega niente se sminuzzate o no la carne, la cipolla, se ci ficcate dentro un pezzo di lardo, se sfumate con il vino, non contesterò mai il vostro ragù, così come non contesterò mai il vostro alcolismo, a prescindere dal numero di cocktail che siete in grado di ingerire in una serata o delle cazzate che sparerete in quella serata. Va bene tutto. Non capisco perché uno si sforzi contro se stesso per accettare la natura rigidamente anti-competitiva dello yoga e poi stia lì a cavillare su questioni di rilevanza ancora più oscura. L’autenticità non è negoziabile.

Questo per dire che non ci tenevo a un patentino da alcolista quando, nella mia breve esperienza di emigrante romana a Milano, ho cercato di bere prima dell’ora dell’aperitivo. In dieci giorni ho pranzato otto volte fuori in compagnia di qualcuno: pranzi di lavoro, di amicizia, di cortesia, pranzi che arrischiavano un’incerta intersezione tra le tre varietà. Ho notato spesso del sano compiacimento nella scelta del posto («Ti porto dal miglior cinese di Milano») e una nordica apertura mentale («Sei vegetariana?» «No»), ma l’idea di ordinare una bottiglia di vino a pranzo non solleticava né compiacimento né apertura mentale («No, scusa, ma io dopo devo rientrare a lavoro». «Embè?»).  Non avendo mai avuto orari di lavoro, sono poco incline a contemplarne la struttura o l’urgenza, ma mi rendevo conto che la ieraticità di un “embè” poteva essere scambiata per la manifestazione di un’indole passivo-aggressiva. Nel caso – non così improbabile – che si trattasse effettivamente di tale manifestazione, sono stata tenuta a bada con il compromesso di una birretta a testa. Di fronte al tentativo di passare a una seconda birretta, di solito il mio commensale preferiva cambiare argomento: «Lo sai che fumi in maniera diversa dall’ultima volta?». Non che ci fosse bisogno di trovare una frase spiazzante per dirottare la complicità di una seconda birra verso la connivenza del disagio (e comunque fumo da sempre nella stessa maniera), quando bastava chiedermi: «Ma che sei venuta a fare a Milano?».  Mi ero preparata solo l’incipit: «Hai presente i dj che partono per Berlino con la loro valigetta di vinili?», però poi mi mancava il termine di paragone. Se uno beve – e questo è uno dei vantaggi principali – le frasi possono andare allegramente in fade out. Da sobri resta un’ansia interlocutoria che per fortuna si risolveva col mio commensale che doveva tornare in ufficio. A quel punto, il pomeriggio era pronto a srotolarsi davanti a me come una lussureggiante distesa di niente.

La mia idea approssimativa – e non del tutto in buona fede – rispetto al soggiorno milanese era quella di provare a capire se davvero ci si vivesse bene, quindi da un punto di vista empirico non dovevo applicarmi granché se non testando appunto l’esistenza. Avendo uno scarso interesse per indagini topografiche o per una flânerie sognante, nonché impossibilitata per colpa dell’efficienza dell’Atm a una delle esperienze insieme più dense e ascetiche della vita romana come l’aspettare i mezzi pubblici, ho finito per passare il mio tempo dentro ai bar. Non ero completamente disarmata. Avevo sempre con me un paio di libri e un quaderno. Nessuno poteva confutare il fatto che fossi immersa in una qualche attività, come appuntare sul quaderno 27.852, il numero di sms spediti nella mia vita da quando ho l’attuale sim (diciamo 10 anni), moltiplicarli per 70 (una media molto a ribasso dei caratteri comprensivi di spazi contenuti in un sms), dividerlo per 2000 e ottenere 974,82, ovvero un numero di cartelle che equivale a 3 romanzi di una certa mole. Nel pieno di simili attività mi capitava di ordinare un bicchiere di vino, che poi si trasformava in due bicchieri di vino, fino a un 4-5 bicchieri, ossia una bottiglia, ma il gestore del bar – al posto di apprezzare il proprio guadagno extra per aver venduto una bottiglia con un rincaro del 30 per cento grazie alla ripartizione per bicchieri – in generale cercava di decifrare quale fosse il mio problema. Se non mi chiedeva esplicitamente: «Ehi, va tutto bene?», mi osservava con l’apprensione segreta di chi cerca disturbi borderline, cicatrici impegnative sulle braccia o la presenza di buchi neri nell’apparato dentale, una qualsiasi forma di ortodossia degradante che facesse di me un soggetto instabile. Questo per non parlare di quando, ispirata da una giornata di sole, ho voluto pagare il mio tributo al bel tempo con un Bloody Mary a mezzogiorno. Ho avuto proprio la brutta sensazione che Milano disprezzasse la mia offerta votiva di sangue e vodka.

 

Foto: Delfino Sisto Legnani.