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Milano Contemporanea

Arriva a Milano la Grande Madre, la mostra enciclopedica di Fondazione Trussardi a Palazzo Reale. Chiacchierata a tutto tondo con Beatrice Trussardi e Massimiliano Gioni.

di Redazione

È un anno importante per gli attori culturali della città di Milano. All’appello non poteva mancare la Fondazione Trussardi, che da più di dieci anni, attraverso una modalità peculiare, riscopre luoghi sconosciuti della città abitandoli col meglio dell’arte contemporanea mondiale. Quest’anno i progetti per cui sentiamo parlare di loro sono fondamentalmente due: Wheatfield, il campo di grano dell’artista americana Agnes Denes, cresciuto fra i grattacieli di Porta Nuova fra aprile e luglio, e soprattutto La Grande Madre, la mostra con più di centoventi artisti che inaugura il 25 agosto a Palazzo Reale (visitabile da mercoledì 26).
Milano è pronta? Com’è cambiato in questi anni il rapporto della città col contemporaneo? Ce lo raccontano Beatrice Trussardi Massimiliano Gioni, rispettivamente presidente e direttore artistico della Fondazione.

Milano e la Fondazione Trussardi – Il rapporto con la città, col pubblico, con le istituzioni. Cos’è cambiato in questi quindici anni.

Beatrice Trussardi – I risultati di tutto quello che abbiamo fatto sono stati decisamente inaspettati: a ogni mostra cresce il numero dei visitatori, mentre quelli che ci portiamo dietro dall’inizio ci continuano a seguire e attendono con trepidazione la mostra successiva con tutto quel che si porta: quale sarà il luogo della città che riapriremo, quale il contenuto realizzato. Non ho dubbi: la reazione del pubblico è stata la sorpresa più bella. Per quanto riguarda l’accoglienza della città a livello di istituzioni, possiamo dire che siamo stati visti all’inizio con un po’ di distanza e scetticismo, soprattutto perché non ci conoscevano e non avevamo ancora dimostrato l’efficacia di ciò che volevamo fare; mano a mano la fiducia è poi salita. In generale, siamo stati degli attori solitari in quel che abbiamo fatto, se si escludono i patrocini e i rapporti burocratici, legati soprattutto alla richiesta di permessi di occupazione di determinati spazi o del suolo pubblico. Il 2015 è un anno di svolta in questo senso: stiamo producendo infatti una mostra, La Grande Madre, insieme con il Comune di Milano, collaborazione che si espliciterà soprattutto nell’utilizzo di Palazzo Reale come location. Anche il progetto Wheatfield, il campo di grano dell’artista Agnes Denes a Porta Nuova, ci ha visto partner di altre due realtà in un bell’esempio di unione di competenze: noi siamo il partner culturale, abbiamo identificato il progetto artistico e lo curiamo; la fondazione Catella si occupa di tutta la parte urbanistica, e Confagricoltura è il partner tecnico, trattandosi in questo caso specifico di un vero e proprio progetto agricolo.

Massimiliano Gioni – La conferma che quel che stiamo facendo ha un senso ed è giusto, l’abbiamo avuta dalla risposta del pubblico: sia come numeri che come percezione dell’istituzione Fondazione Trussardi abbiamo avvertito un forte cambiamento negli anni, che se vuoi è l’aspetto più eccitante. Mi ricordo la primissima mostra all’ottagono in Galleria Vittorio Emanuele: era una scelta strategica, come a dire “prendiamoci il palcoscenico principale da subito”. Alla mostra successiva abbiamo avuto fra i seimila e gli ottomila spettatori, adesso le nostre mostre ne contano fra trenta e quarantamila. E poi gli opening con la fila alla porta. È un cambiamento che ha riguardato l’approccio della città all’arte contemporanea e che non abbiamo solo creato noi, anche se abbiamo introdotto un’innovazione nello stile e una dedizione verso il pubblico che altre istituzioni non avevano, e quindi sono certo che sia stato un contributo anche nostro; però poi c’è stata tutta una concomitanza di fattori, di arte che diventava sempre più nota, se vuoi anche di un certo tipo di mercato dell’arte che ha portato visibilità. Per cepisco che qualcosa è cambiato radicalmente da quando io da ragazzino andavo in giro e a Milano le gallerie erano in appartamenti privati, il museo era il Cimac, un posto nascosto e segreto e non c’era una nozione di arte come fatto sociale, come partecipazione e anche se vuoi come fatto di moda.
Tutto ciò, ripeto, non l’abbiamo creato solo noi, però c’è stato un rapporto di scambio molto forte: la nascita della Fondazione ha coinciso con una trasformazione del rapporto del pubblico più allargato verso l’arte e così in un certo senso ne siamo diventati l’espressione.

La Grande Madre – La mostra d’arte contemporanea con la M maiuscola per la Milano dell’Expo. La Fondazione a Palazzo Reale.

MG — C’è un aspetto distintivo della Fondazione, per cui va assoluto dato credito a Beatrice, che la distingue molto dalle altre istituzioni dell’arte, e cioè il fatto che sia in continua evoluzione. Quest’anno con Expo e con il conseguente cambiamento nel paesaggio della città, nel momento in cui tutti si affannano nel riempire gli spazi, nuovi o da far rivivere, cosa che noi abbiamo fatto fino a oggi, abbiamo scelto di presentare La Grande Madre in una sede più comune e nota a tutti, Palazzo Reale. È un fatto quindi che questa mostra rappresenti un’altra modalità di lavoro che credo espanda ulteriormente le ottave della Fondazione. Con Beatrice, in maniera più o meno istintiva, abbiamo sempre pensato alla Fondazione come a uno strumento che può suonare diverse note; questa di Palazzo Reale lo è, e in un certo senso è bello che questa tastiera continui a espandersi. Quindi c’è sicuramente un aspetto di innovazione e di posizionamento nella strategia. Poi c’è un cambiamento anche dal punto di vista artistico, perché non è una personale di un solo artista bensì una mostra mostra a tema con aspirazioni da grande museo o da biennale, con circa centoventi artisti. Ci sono molti pezzi storici di artisti come Salvador Dalí, Frida Kahlo, Max Ernst, Duchamp, ciascuno presente con grandi capolavori. Con un po’ d’orgoglio, che spero non suoni strafottente, ci viene da dire che questa è una mostra che una città come Milano merita di vedere e siamo felici di farla noi. Andando poi nel merito del tema, Beatrice pensava a una mostra o una serie di eventi che in un certo senso ricollocassero la donna in una centralità diversa. È nata così l’idea de La Grande Madre, che in fondo racconterà la storia del ‘900 dal punto di vista del ruolo della donna nella cultura europea.

BT — Il tema de La Grande Madre, il ruolo femminile appunto, lo sento fortemente. In tutto il mio periodo di responsabilità nelle aziende di famiglia ho rappresentato un’anomalia sia per genere che per età, e infatti mi sono state fatte domande a riguardo per anni. Io ho sempre detto che non mi ritenevo tale, che per me contava più il contenuto dell’etichetta, e quindi in qualche modo ho rifiutato quest’approccio al mio ruolo. Devo dire che, a fronte di tante esperienze, mi sono resa conto di come in realtà sia fondamentale continuare a parlare di questo in Italia. Quindi quando ci hanno sollecitato a pensare alla mostra d’arte contemporanea per Expo, abbiamo pensato che questo fosse il tema idoneo.

Milano e la contemporaneità –  Cosa manca alla città, nel caso manchi qualcosa, per essere considerata una capitale culturale globale del tempo in cui viviamo.

Beatrice-Trussardi-e-Massimiliano-Gioni_image_ini_620x465_downonlyBT — In questi anni ho notato un miglioramento dell’offerta del contemporaneo, in termini sia di qualità che di quantità, anche se mancano ancora alcuni punti fermi: un museo dell’arte contemporanea non c’è, manca il museo della moda. Però sia dal punto di vista del lavoro degli operatori privati, le fondazioni appunto, sia da quello del lavoro di realtà più giovani e di nuove gallerie, c’è stato sicuramente un miglioramento notevole. Quello che continua forse a mancare sono una regia istituzionale e pubblica e una comunicazione integrata, del marketing di un certo livello, che sono assolutamente fondamentali. Expo in città è un primo tentativo; c’è ancora molto da fare, ma forse incominciamo ad andare nella direzione giusta. Certo, c’è poi il grande tema di come si comunica tutto ciò ai più giovani, per far sì che i talenti che abbiamo venga-no attratti da questi progetti, per fare in modo di invertire il moto per cui quelli bravi a un certo punto vanno altrove. Come, sostanzialmente, si trasforma l’entusiasmo in fiducia.

MG — Indubbiamente Milano, grazie soprattutto alla moda e un po’ al design, resta di gran lunga la città più contemporanea d’Italia. Io credo che le potenzialità siano tante ma che manchi una cosa fondamentale: la scelta di diventare una capitale culturale contemporanea. Cos’hanno fatto Londra, Parigi, New York, Berlino, solo per citarne alcune, per affermarsi come capitali internazionali culturali contemporanee? Hanno investito denaro, hanno facilitato lo sviluppo di idee e progetti, anche con politiche fiscali; e con molta efficienza hanno incoraggiato un certo tipo di persone e di business a stabilirsi da loro. Questa pianificazione secondo me è mancata in maniera drammatica a Milano; la scelta di pensarsi in un altro modo. Berlino, piaccia o meno, è una delle tre capitali più visitate d’Europa al momento, non lo era nel ‘99 ovviamente. Quella trasformazione è successa perché si sono incrociati una serie di fattori, ma anche perché c’è stata una volontà di reinventarsi come la città della creatività giovane mondiale. Io su Milano non ho mai avvertito un progetto chiaro, non ho mai sentito dire ci serve questo e quell’altro per provare a essere all’avanguardia in quel determinato settore. Non ho mai percepito una vocazione precisa.

A ciascuno il suo –  L’importanza del rispetto dei ruoli, del saper delegare e del saper valorizzare il talento dei diversi protagonisti di un progetto.

MG — Non amo parlar male dell’Italia, ma credo che qui resista una confusione che non so neanche se è di ruoli o di interessi. C’è una concezione del potere che è un po’ fuori tempo massimo: il potere non come efficacia e efficienza ma come demarcazione di un territorio, che magari rincuora l’ego ma non migliora la situazione. Ovviamente sto generalizzando ma mi sembra un po’ questa la radice del problema: c’è questa voglia diffusa di rivendicare il proprio status piuttosto che pensare a come ottenere risultati. Poi per fortuna ci sono anche tante si tuazioni e altrettante persone che lavorano in modo diverso e che condividono l’importanza di un progetto, piuttosto che il bisogno di conferme al proprio ego. Credo si debba ripartire da qui.

BT – Per me è semplice: o faccio io la curatrice, o lo fa qualcun altro. Non si fa a quattro mani. Ma dev’essere così sempre, anche nella moda: i ruoli vanno rispettati. Poi ovviamente ci sono dei percorsi di condivisione, di attinenza agli obiettivi e alla visione. Non esiste però un regolamento scritto fra me e Massimiliano ad esempio, ci sono semplicemente valori e contenuti artistici che condividiamo, e questo porta unità di intenti, dà forza ai progetti, ai contenuti e al messaggio. Siamo stati anche fortunati, non sempre è così: ci sono molti esempi di rapporti che non funzionano, di deleghe mai date fino in fondo, casi in cui si assegna un progetto e però poi subentra la voglia di parte di chi commissiona di mettersi lì a correggere il compito. È una delle cose che trovo più antipatiche e meno efficaci: io ho sempre rispettato i ruoli dei creativi, nell’arte come nella moda. O ti va bene o non ti va bene quello che fanno, o deleghi o non deleghi. Non esiste la via di mezzo. Anche nelle istituzioni, spesso il rapporto col creativo e col portatore di contenuti non è lineare. E credo che il problema sia che il più delle volte non è mediato da nessun tipo di management culturale. Il vero tema che adesso credo sia sul tavolo in ambito culturale è proprio questo: la creazione di figure manageriali competenti che vadano a formare un coordinamento in grado di filtrare e organizzare il lavoro.

 

Una versione precedente di questo articolo è uscita sul  numero 23 di Studio col titolo “Milano Contemporanea”.

Nell’immagine in evidenza, un’opera della mostra. Anna Maria Maiolino, Por um Fio (serie fotopoemação), dalla serie Photo-poem-action, 1976. Fotografia in bianco e nero 52 × 79 cm. Collezione Finzi, Bologna. Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano