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Mein Copyright

Royalties e tabù: passato e futuro editoriale del longseller mondiale di Adolf Hitler, Mein Kampf

di Pietro Minto

Prima di prendere potere in Germania e trascinare il mondo verso il baratro della Seconda guerra mondiale (55 milioni di morti) e dell’Olocausto (9 milioni di morti), Adolf Hitler ha partecipato come soldato alla Prima guerra mondiale, si è dilettato con la pittura impressionista e ha scritto un libro il cui titolo risuona a 70 anni di distanza come una macumba da incubo,  Mein Kampf. De  La mia battaglia si parla sempre per i suoi contenuti politici e per il suo essere il testo sacro del Partito Nazionalsocialista, oltreché la Bibbia dell’antisemitismo (al pari con i Protocolli dei savi di Sion); in realtà l’opera è stata anche un longseller degno di nota, al centro di una guerra economico-editoriale sfrenata, fatta di critiche, censure, tabù. E royalties.

Dalla fine della Seconda guerra mondiale i diritti d’autore di Hitler sono posseduti dalla Baviera (uno dei 16 stati federati detti Land di cui è composta la Germania) che ha proibito la pubblicazione del Kampf in Germania e fatto il possibile per limitarla all’estero. Tali diritti scadranno nel 2015 e le autorità tedesche hanno recentemente deciso di stampare un’edizione commentata dell’opera, per evitare che l’aura censorea del tabù e la fine del diritto d’autore (che scade a 70 anni dalla morte dello stesso) la renda un’esclusiva dei neonazisti. La decisione ha fatto ovviamente discutere ma è solo l’ultimo capitolo di una battaglia sotterranea tutta incentrata sul diritto d’autore che dura da quasi novanta anni.

Il libro
Mein Kampf consta di due parti (“Eine Abrechnung”, “Un racconto” e “Die National-Sozialistische Bewegung”, “Il partito nazional-socialista”) scritte e inizialmente pubblicate separatamente tra il 1925 e il 1926. La prima fu in realtà dettata dal futuro führer a Rudolf Hess, suo compagno di carcere dall’aprile al dicembre del 1924, quando Hitler fu arrestato per aver tentato il colpo di stato a Monaco l’anno precedente. I manoscritti furono poi pesantemente editati da un prete, Bernhard Staempfle, che li ripulì dalle verbosità e da alcune “banalità infantili” – come le definì il politico nazista Otto Strasser – che la appesantivano. Il prelato fu una delle vittime della pulizia interna al partito messa in atto dalle Ss il 30 giugno 1934, un repulisti passato alla storia come la “notte dei lunghi coltelli“. Secondo lo stesso Strasser, a costare la vita a Padre Bernhard fu proprio la sua conoscenza della prima debole versione del testo nazista.

Ibrido tra manifesto politico, libero delirio antisemita e autobiografia, l’opera doveva intitolarsi  Quattro anni e mezzo di lotta contro menzogna, stupidità e codardia, e finì col diventare il testo obbligatorio per la famiglia tedesca, dato in regalo alle coppie sposate e ai giovani neolaureati. Eppure Mein Kampf non riscosse subito il successo che potremmo aspettarci: nel 1925 se ne vendettero circa 9 mila copie; entro il 1930 le vendite toccarono quota 54 mila copie; alla fine del 1933, anno delle elezioni vinte dal suo Nsdap (acronimo di  National Sozialistische Deutsche Arbeitspartei, Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori), se ne erano vendute 850 mila. La propaganda, i comizi e il successo elettorale avevano creato un caso editoriale – non solo in Germania. E la guerra doveva ancora cominciare.

Preso il potere, Hitler ordinò di acquistare sei milioni di copie del suo libro, che divenne così la lettura prima del buon ariano e del buon cittadino. Alla fine del 1945 in Germania si contavano 8 milioni di Mein Kampf. Così il giro d’affari delleroyalties di Adolf Hitler divenne milionario. Ma usciamo dal Terzo Reich, e vediamo come anche all’estero la curiosità morbosa, la politica e la guerra fecero dell’opera un bestseller mondiale.

L’estero
In Italia le cose andarono per le spicce: il libro fu stampato da Bompiani nel 1934 con il titolo La mia battaglia, rendendo Benito Mussolini contento e l’alleato tedesco soddisfatto. L’editore non pagò direttamente le royalties all’autore del testo e dietro questa scelta si cela un sotterfugio politico svelato nel 2004 dal giornalista Giorgio Fabre ne Il Contratto. Mussolini editore di Hitler (Dedalo): secondo la tesi del libro, i lavori per portare il Kampf in Italia cominciarono prima delle elezioni del 1933, vinte poi dai nazisti. Al tempo, scrive Fabre, Hitler e i suoi avevano bisogno di soldi per la campagna elettorale, ma erano restii a chiederli ai fascisti per non minare l’”indipendenza” politica del movimento. L’offerta dello Stato fascista (250 mila lire del tempo come anticipo, pari a 53.625 marchi tedeschi) fu accettata dopo un breve tira e molla; e fu notevole messa a confronto con quella fatta per l’edizione inglese (pari a circa 2000 lire) o quella statunitense (500 lire). Un accordo politico più che editoriale. Un preludio al Patto d’acciaio che legherà i due Paesi – e le due dittature – a partire dal 1939.

Altrove la pubblicazione del testo nazista scatenò ben altre reazioni. Negli Stati Uniti fu l’editore Houghton Mifflin ad annunciarne la stampa nel 1933, col titolo di  My Battle. Seguì una raccolta firme pubblica presso il New York City Board of Education per bloccare l’operazione e vietare a Mifflin la vendita di qualsiasi altro testo. La petizione, come ha raccontato la rivista Cabinet, fu bocciata dal Board con una nota pubblica in cui si dichiarava: «Il più grande servigio che si può rendere all’umanità in generale e in particolare alla Germania è mettere My Battle a disposizione di tutti in modo che ciascuno possa decidere se il libro sia degno di nota o sia un’esibizione di ignoranza, stupidità e arretratezza». Nel 1938 la stessa casa editrice concesse i diritti dell’opera alla Reynald & Hitchcock che ne stampò una versione “commentata” – con una sezione glosse di 80 mila parole per un’opera di 320 mila.

E qui si apre la questione legata al copyright: nel 1925, infatti, Adolf Hitler rinunciò alla cittadinanza austriaca dichiarandosi un “tedesco senza stato”, e diventando a tutti gli effetti un cittadino della Germania solo nel 1933. In questo lasso di tempo, rimase quindi escluso dal Copyright Act del 1909 (la legge Usa sul diritto d’autore), che fu estesa anche agli autori apolidi (senza stato) solo nel 1941. In quell’anno, però, Usa e Germania erano in guerra e nessun editore pagò Hitler (come prevedeva la legge Trading with the Enemy Act). Le royalties che avrebbe dovuto ricevere il dittatore nazista furono invece date in beneficenza a enti dedicati alla cura dei reduci o alla Croce Rossa Internazionale.  My battle fu comunque un successo: l’edizione di Reynold & Hitchcock vendette 30 mila copie solo nel primo mese e nel 1945 si calcolò che le royalties hitleriane avevano fruttato al fondo bellico Usa circa 20 mila dollari.

Con la fine della guerra, tutte le proprietà del dittatore nazista passarono alla Baviera. Nel 1960 la sorella di Hitler, Paula, tentò di riprendere possesso di quelle immobiliari mentre il figlio della sorellastra del führer Leo Raubal, avviò un’azione legale per tornare in possesso delle royalties di Mein Kampf ottenendo solamente una copia del poco conosciuto “sequel” dell’opera, Zweites Buch (Il secondo libro). Nessun diritto d’autore, quindi, è mai andato alla famiglia di Adolf Hitler – e ciò riguarda anche quelli legati alla vendita all’asta dei suoi quadri avvenuta nel 2009.

Leggi e vomita
Mein Kampf è uno dei libri più noti (“famigerati” suona meglio) della storia. La guerra attorno a questi diritti così-odiosi-ma-così-remunerativi è continuata anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando tutti i diritti sull’opera di Hitler passarono al Land bavarese, che da allora ha tentato spesso di “regolare” la pubblicazione del libro all’estero. Per questo, dall’ottobre del 1945 l’opera è stata bandita in Germania dove però la curiosità morbosa, l’interesse storico o l’estremismo politico crearono presto un mercato nero del libro “maledetto” col risultato che copie usate del Kampf fecero presto capolino e nel 1951, ad Amburgo, fu sequestrato un intero stock di copie “pirata”.

È molto probabile, d’altronde, che la decisione della Baviera di rendere finalmente libera la stampa dell’opera sia quella giusta, o quantomeno quella migliore in tempi in cui la più grande libreria del mondo si chiama Amazon.com ed è virtuale, senza confini, in grado di arrivare in qualunque parte del mondo aggirando divieti e tabù – cosa che spiega anche il successo di Mein Kampf sul sito, dove è stato spesso tra le opere più acquistate. Con ereader come Kindle o Nook, poi, è sparito anche il timore di essere visto in tram mentre si legge l’opera di Adolf Hitler: oggi la si può comprare in ebook, senza che nessuno ne veda la copertina. Tutti penseranno che tu stia leggendo The Hunger Games, e invece… La “liberalizzazione” dell’opera ricorda l’approccio al Mein Kampf scelto in Gran Bretagna, detto “guarda, leggi e vomita”. Ovvero: libertà di stampa e vendita, nella convinzione che la semplice lettura del delirio hitleriano sia il modo migliore di allontanare i lettori dall’ideologia nazista e antisemita.

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Il fascino mostruoso del Mein Kampf è destinato a rimanere, forse in eterno,e ogni tentativo di censura è destinato ad acuirlo. Non solo: è anche ingiusto, perché la società in cui viviamo (la società che ha sconfitto i nazifascisti e vinto la guerra) si basa su libertà che Hitler e il suo testo ostacolavano. Tanto vale farne uso, rendendo disponibile a tutti il pensiero alla base di un evento tragico. D’altronde un nazista è nazista, con o senza Kampf sul comodino. E non lo diciamo noi: lo ha raccontato il nazistissimo Otto Strasser al processo di Norimberga, che un giorno domandò a Goebbels e Goering (altri due nazistissimi, membri del “cerchio magico” hitleriano) se avessero davvero letto il libro: «Goebbels scosse la testa colpevole, Goering scoppiò a ridere», ricordò il nazista.

Fermare il nazismo bloccando la diffusione del Mein Kampf? Troppo facile. Non funziona così, purtroppo. Ben vengano le edizioni commentate e le ristampe se servono a far capire a tutti da che cosa è nata la catastrofe nazista. E per aiutarci a evitare spiacevoli repliche.