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L’urlo di Cacciari terrorizza l’Occidente

Da settimane il filosofo è al centro del dibattito su vaccini e green pass. E, nonostante parli sempre di più, di quello che dice si capisce sempre di meno.

di Francesco Gerardi

Lilli Gruber è una donna che ne ha viste di tutti i colori. Mentre i tedeschi facevano a pezzi il Muro di Berlino, lei era lì a raccontarlo, microfono in mano e sguardo in camera, sconvolta il giusto da un secolo che finiva e concentrata al massimo sul lavoro da finire. Ha visto le nazioni della Jugoslavia aggredirsi l’un l’altra come le cellule rese pazze dal tumore. È stata a New York a raccontare quel che rimaneva dopo l’11 settembre e in Iraq a vedere la fine del regime di Saddam Hussein. È stata parlamentare europea ed è una delle pochissime persone sul pianeta Terra a sapere cosa diavolo faccia davvero il Gruppo Bilderberg. Tutte le sere trova il modo di riempire mezz’ora dell’access prime time di La7 discutendo le minuzie e le inezie della politica italiana. Da che ho memoria dei suoi capelli rossi, non l’ho mai vista scomporsi o andare in difficoltà. Negli anni ho imparato a riconoscere i discretissimi tic che ne segnalano il disagio: un impercettibile saltello all’indietro sulla sedia, la mano sinistra e quella destra – penna sempre stretta tra il medio e l’anulare della mano forte – che risistemano dietro le orecchie ciocche di capelli che stavano bene dove stavano. Non ho mai visto Lilli Gruber in difficoltà o nel panico. Poi è arrivata la pandemia, e gli squarci nel tessuto della realtà che essa ha aperto hanno inghiottito anche il mito dell’invulnerabilità della giornalista bolzanina. Da quegli squarci è emerso un avversario contro il quale a nulla è servita un’armatura spessa quarant’anni di giornalismo: quell’avversario è Massimo Cacciari, o il doppelgänger che ne ha preso il posto approfittando di quel momento di distrazione collettiva che è stato la pandemia.

Dieci anni fa, mosso da una ragione evidentemente invecchiata male, partecipai a un incontro organizzato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Ci andai perché il mio coinquilino dell’epoca, iscritto a Filosofia, mi disse che ci sarebbe stato Massimo Cacciari. Avevo vent’anni e trovavo Cacciari – non so quale altra parola usare per dire quello che voglio dire – fico. Ero attratto da un’intelligenza della cui superiorità avevo trovato prova dentro libri letti senza capirli (e che tutt’ora non capisco). Ma di Cacciari ammiravo anche l’estetica: quella magrezza che ho sempre immaginato inevitabile per le menti troppo prese dalla raffinata sete di sapere per preoccuparsi del banalissimo bisogno del corpo di sfamarsi; la chioma folta, indifferente al passare del tempo e ai cicli della moda, un miraggio per me che la genetica ha condannato a ereditare le calvizie; la barba e la sua capacità di rendere teatrali i gesti banali, dal grattarsi le guance allo sbuffare per la noia.

Di quell’incontro non capii nulla e non ricordo niente, tranne Cacciari che si incazza moltissimo con un malcapitato che aveva avuto la sciagurata idea di fargli una domanda e non essere poi soddisfatto della risposta: Cacciari cominciò a sbraitare perché quello non capiva che l’Ohr Ein Sof (la Luce Infinita dell’ebraismo) non si limita a irradiare luce ma è capace anche di ispirare gioia. Osservandolo mentre si arrabbiava, ricordo di aver pensato che le persone come lui sono fortunate: chi è capace di accedere allo stesso tempo a un sapere così vasto e a una passione così profonda avrà sempre dalla sua parte almeno un pezzo, quantomeno una forma di ragione. Anche nella vanità, un tratto innegabile della personalità di Cacciari: partendo dalla sua catch phrase «Ma lo dico da vent’anni!», nel 2018 Fulvio Abbate scrisse su Linkiesta un meraviglioso ritratto di Cacciari il vanitoso.

E adesso penso, citando Bart Simpson: «Cos’è successo, Massimo Cacciari? Una volta eri ganzo!». Cacciari è stato il proto-blastatore italiano, l’Iggy Pop della risposta piccata: padroneggiava questo particolarissimo strumento retorico quando Roberto Burioni ancora doveva inviare il primo tweet ed Enrico Mentana a farsi un profilo Facebook nemmeno ci pensava. La storia del talk show politico italiano è anche storia della sua esasperazione: contro Roberto Formigoni quando questo era ancora il Celeste, contro mezzo governo gialloverde (Giulia Bongiorno, Alfonso Bonafede, Giuseppe Conte) e in difesa dei migranti – «esiste la legge ed esiste la Giustizia!» – contro Mario Giordano e Maurizio Belpietro, l’esasperazione di Cacciari è sempre stata al servizio degli angeli migliori della società. E adesso penso a cosa farmene dell’esasperazione che sento io quando lo vedo in tv dire che la conferma del fatto che quelli anticovid non sono vaccini ma sieri genici (qualsiasi cosa voglia dire questa filastrocca ripetuta ormai da mesi dai no-vax più o meno cripto) si trova facilmente «in web». Lo avrebbe detto pure l’amministratore delegato di Pfizer.

«Io mi sto informando sul web, navigando dalla mattina alla sera», una frase che sta diventando red flag infallibile in questi tempi disgraziati: “segnale o avvertimento di pericolo, disastro o catastrofe imminente”, dice Urban Dictionary. L’ho sentita dire anche a Carlo Freccero, a Enrico Montesano e a tutto lo star system di cui si è dotata la micro-società dei no green pass, a tutti i saggi e i santoni a cui è stata affidata la responsabilità superiore della legittimazione del movimento. A fare ageism – quella forma di discriminazione ai danni degli anziani – si fa peccato ma spesso ci si azzecca: sarà mica una questione di età, di vecchiaia, di una generazione addestrata a sopravvivere in un’epoca e che ora si trova a combattere in un’altra? Qualche giorno fa ho letto sul Washington Post un pezzo stupendo su Eric Clapton: ma che gli è preso, si chiedeva Geoff Edgers, perché da due anni va dicendo assurdità su pandemia, lockdown, vaccini (Clapton è arrivato a paragonare gli americani in lockdown agli afroamericani in schiavitù). Senza neanche pensarci sono andato a controllare l’anno di nascita di Clapton: è del ‘45. Freccero è del ‘47. Montesano è del ‘45. Cacciari è del ‘44.

«Io mi sto informando sul web, navigando dalla mattina alla sera». Cacciari la urla, questa frase, in mezzo al bisticcio con Lilli Gruber di cui sopra: era un tentativo di anticipo sull’attaccante, di riappropriazione linguistica. In un precedente scazzo, sempre a Otto e Mezzo ma in quell’occasione con il direttore di Domani Stefano Feltri, a Cacciari era stata rivolta l’accusa di non sapersi (più?) informare e di fare ormai alla maniera di Internet: «Cercare nell’universo-mondo fino a quando uno non trova una cosa che conferma la sua tesi». Cherry picking, diceva Feltri. Cacciari, risentito, aveva proseguito a scegliersi le ciliegie: d’altronde «basta navigare un po’ per essere informati, l’ho fatto io e quindi lo potrà fare anche il direttore di Domani», che magari scoprirà così la verità sui vaccini grazie a «il virologo importantissimo di Harvard, Kulldorf». È un altro dei disturbi comportamentali della nostra epoca, il cherry picking: per chi ne è affetto non c’è nessuna differenza tra l’opinione di uno scienziato e l’opinione degli scienziati. Anzi: lo scienziato assume i tratti eroici del dissidente e quelli tragici del perseguitato, mentre gli scienziati sono conformisti e prezzolati come tutti i villain del folklore complottista. «Ma perché mi invita se non mi lascia parlare!» è stato l’urlo di dolore con il quale Cacciari ha rivendicato per sé e per i suoi esclusi («mi mandano messaggi e mi dicono “almeno tu dillo, tu che in televisione ci vai”») lo spazio negato da un nemico che in quel momento aveva il volto attonito di Lilli Gruber.

Non voglio credere che il problema di Cacciari sia l’età, ma allo stesso tempo so che non è l’intelligenza con cui è nato o la cultura che si è dato. Che spiegazione resta, allora? Forse l’unica spiegazione accettabile, ma non per questo meno terribile, sta in un pezzo del Time che ribadisce una verità banale ma non per questo meno terribile: commentando una ricerca pubblicata su Personality and Individual Differences sul perché così tante persone intelligenti credono alle teorie del complotto, Jeffrey Kluger scrive che in certi casi «le persone sono coinvolte – emotivamente, ideologicamente – in queste teorie e usano le loro considerevoli capacità cognitive per autoconvincersi che ciò che non è vero in realtà lo è. Se uno vuol credere che i vaccini fanno male o che il partito che odia sta complottando per distruggere l’America (ci sta bene anche l’Italia, ndr), farà di tutto per costruirsi una storia credibile»