Cultura | Moda

Fare cultura con la moda secondo Maria Luisa Frisa

La pandemia, il pregiudizio culturale tutto italiano nei confronti della moda, il ruolo del direttore creativo e quello degli influencer: conversazione con la critica e curatrice sui temi più attuali dell’industria a partire dal suo ultimo libro.

di Silvia Schirinzi

Maria Luisa Frisa. Ph by Jacopo Benassi

Le forme della moda (Il Mulino) è una raccolta di saggi che si interrogano sulle questioni dell’industria della moda oggi, dalle caratteristiche che definiscono un direttore creativo a come vengono costruiti gli immaginari dei marchi, dalle pratiche di produzione, materiali e immateriali, di quegli stessi immaginari al rapporto ambivalente che la moda instaura con l’arte, dalla mancanza, tutta italiana, di una letteratura accademica sui grandi temi della moda fino allo storico ritardo con cui il nostro Paese, e le sue istituzioni, tutelano e amplificano il patrimonio della moda italiana. Maria Luisa Frisa, critica, curatrice e fondatrice del corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali allo Iuav di Venezia, ha rimesso mano a quelle riflessioni, inizialmente pubblicate nel 2015, aggiornandole alla luce di quanto successo negli ultimi anni: con lei abbiamo parlato di cosa significa riflettere e scrivere di moda e delle tante ramificazioni con il contemporaneo che questa industria, e disciplina, riesce ad avere.

In questa edizione aggiornata de Le forme della moda, riprendi in mano le tue riflessioni del 2015 e le sviluppi a partire da tutto ciò che è successo nel frattempo all’interno dell’industria. Quali sono, a tuo parere, i più grandi cambiamenti avvenuti?
Mi è stato chiesto più volte, dal 2015, di rimetterci mano, ma mi ero sempre rifiutata di farlo. Poi, soprattutto durante il primo periodo della pandemia, mi sono resa conto che forse era arrivato il momento di scrivere le cose su cui stavo riflettendo, perché scriverle significava metterle in ordine. La moda, e non mi stancherò mai di ripeterlo, è un sistema complesso che si relaziona con tutte le discipline della contemporaneità, dall’ecologia alla filosofia fino agli studi sul genere, e allo stesso tempo è un sistema superficiale, perché riesce a transitare attraverso tutto quello che viene prodotto dal pensiero umano. Durante la pandemia abbiamo tutti vissuto una sorta di rinuncia al nostro corpo: questa negazione è stata, in qualche modo, anche la negazione di un desiderio, e in quel periodo si sono fatti molti discorsi su come la moda avrebbe dovuto rallentare, se non fermarsi, ma oggi vediamo che tutto sembra essere ricominciato come prima, le sfilate, le feste, i red carpet. Credo però che questo fosse prevedibile: la moda deve produrre immaginari, proprio come fanno i romanzi, ma la pandemia ha messo in luce la necessità di operare con il sistema, e con il sistema produttivo soprattutto, in maniera diversa. Basta guardare alle ripercussioni che certi eventi hanno sul settore, dalla guerra in Ucraina ai nuovi lockdown in Cina, tutte cose che che ci hanno fatto capire come bisogna lavorare su una rete produttiva non solo articolata, ma soprattutto controllata meglio. La pandemia ha dato una spinta incredibile all’e-commerce, e questo è stato utile, ma allo stesso tempo ha messo l’accento sulla questione della sostenibilità. Il sistema italiano ha retto nonostante le difficoltà e anche se spesso ci sentiamo in imbarazzo a parlare di moda in determinate situazioni, dovremmo superare questo atteggiamento e ricordarci cos’è la moda, un settore che dà lavoro a tantissime persone. Cosa sarebbe Milano senza la moda? Se ci pensi qualcosa di molto simile avviene anche nell’arte, che è ormai sempre più simile alla moda. I grandi eventi dell’arte sono frequentati da mercanti, galleristi, collezionisti e non, di altissimo livello.

È una domanda che mi sono fatta spesso, tanto più negli ultimi mesi: partecipare alla fashion week di febbraio quando è scoppiata la guerra è stato surreale. A Milano non c’è stato il tempo per una risposta “istituzionale”, mentre a Parigi il primo giorno di sfilate la Fédération de la Haute Couture et de la Mode invitava gli addetti ai lavori a fare esperienza degli show «con sobrietà e riflettendo sui tempi oscuri». Una frase che faceva ridere e piangere allo stesso tempo, ma che racconta bene l’atteggiamento dei francesi nei confronti della moda, molto diverso dal nostro. Come scrivi a pagina 69, «la difficoltà a portare avanti una riflessione sulla cultura e sulla moda italiana è da ricondurre anche a un ritardo rispetto alla formazione accademica storica e critica». Da dove viene questo pregiudizio culturale?
Dopo le sfilate, Macron riceve all’Eliseo tutti i designer francesi, riconoscendo il valore che hanno nell’identità di un Paese. In Italia, quando si tratta di moda, si tende sempre a semplificare, pensa a quanta poca letteratura accademica esiste sul tema. Si pubblicano libri senza citare le fonti, pieni di errori, dove le storie di quest’industria sono ridotte a favolette salaci: il problema è questo, la leggerezza con cui si parla di quest’argomento. Certamente c’è una parte che si può affrontare con leggerezza, per quella superficialità di cui parlavamo prima, ma non vale per tutto. Ed è un problema anche politico: non abbiamo lo spazio necessario alla moda nelle università pubbliche, non abbiamo un grande museo della moda che sia catalizzatore di studi ed eventi, non abbiamo formato abbastanza le persone che possono lavorare sul patrimonio relativo alla moda. La maggior parte dei marchi italiani non è più italiano nella proprietà e nel futuro sarà sempre più così: è un problema bello grosso.

Le forme della moda. Cultura, industria, mercato, comunicazione (Il Mulino)

Assolutamente. Nel libro definisci il direttore creativo di oggi «un curatore»: come è cambiato e quali sono le caratteristiche che definiscono questo ruolo rispetto agli “stilisti”, parola genuinamente italiana, ma anche rispetto ai designer star degli anni Novanta?
Lo stilista è una figura quasi pionieristica: quando diciamo che Walter Albini è il primo stilista della moda italiana, perché in quel periodo gli altri erano ancora sarti o couturier, è perché lo stilista è quella figura che crea questo incredibile connubio tra l’artigianato, l’industria e i media. È la figura che ha dato vita al prodotto di qualità fatto in serie. Quindi figure come Albini, come Giorgio Armani, come Gianfranco Ferré, sono la perfetta incarnazione di questo nuovo protagonista della moda. Il direttore creativo è invece colui che rappresenta la grande sfida globale della moda e si affianca all’arrivo dei manager nei marchi di moda, quando ci si è resi conto che questo settore poteva trasformarsi in un gigantesco business. In queste nuove galassie, i direttori creativi devono costruire un mondo, una visione che rappresenti il marchio che guidano, creando un equilibrio tra l’heritage di quel marchio e il contemporaneo. Poi c’è la loro identità personale. Si avvalgono degli uffici stile, non è che stanno lì a disegnare per intenderci, ma esprimono una loro poetica. Per alcuni è giusto, a mio parere, parlare di poetica, come nel caso di Alessandro Michele che attraverso il suo sguardo ci ha aperto una visione che ha a che fare con tutte le trasformazioni che stiamo vivendo oggi, a cominciare quella delle identità sessuali. Michele ha lavorato moltissimo sull’identità erotica di Gucci, a partire da quello che ne aveva fatto Tom Ford, e ha costruito una certa idea di bellezza, che non è più unica: lavorare con Silvia Calderoni, citare Walter Benjamin o Donna Haraway nelle note di una sfilata [Benjamin era citato per la Resort 2023 che ha sfilato a Castel del Monte lo scorso 16 maggio, Haraway nella collezione Autunno Inverno 2018-2019, nda] magari obbligando le persone a cercare più informazioni su queste personalità, secondo me è un atto coraggioso. Certo c’è tanta comunicazione in queste operazioni, ma è quello che la moda fa: far transitare l’idea del post umano in una collezione è un gesto interessante. E lui ci riesce perché parte da cose che sente sue, di cui è appassionato. Ora non voglio sembrare troppo entusiasta della moda, perché ho molte posizioni critiche che argomento anche nel libro, ma vorrei che le venisse riconosciuta questa capacità di far transitare i linguaggi e far conoscere le cose. Ed è interessante che alcuni dei direttori creativi più interessanti al momento siano italiani, come Pierpaolo Piccioli, Maria Grazia Chiuri, Riccardo Tisci, Francesco Risso, tutte persone che hanno fatto una lunga gavetta, che hanno una sensibilità tipicamente italiana sul prodotto di qualità e che sono anche dei visionari, ognuno a modo suo. Il direttore creativo è una figura che rispecchia perfettamente il nostro tempo ed è colui che tiene insieme le persone, le idee, le cose. 

Sono d’accordo. Nel capitolo dedicato alle professioni della moda, scrivi del cortocircuito deflagrante che esiste tra i valori culturali espressi dalla moda e le sue pratiche di produzione. Il fruitore/consumatore non ha mai avuto così tanti strumenti di intervento nel condizionare le strategie dei marchi, anche tramite figure intermedie come gli influencer che, come scrivi tu, sono una specie di evoluzione dei fashion editor dei giornali. Trovi che questa sia stata la tanto agognata democratizzazione della moda?
Secondo me va fatta una distinzione: innanzitutto la moda italiana, che nasce come produzione in serie di oggetti di qualità, ha in sé un elemento democratico molto simile a quello del design. Un’altra parte della questione è poi l’accessibilità degli immaginari della moda e probabilmente è quello che fanno gli influencer oggi, rendere accessibili una determinata visione della moda. Certo è difficile trovare degli immaginari ricchi come potevano essere quelli di Manuela Pavesi o Anna Piaggi, ma penso anche che vedere, essere esposti a immagini di qualità stimoli la ricerca, anche personale. Tutti abbiamo imparato a vestirci guardando come si vestivano gli altri, l’emulazione è un sentimento che può servire a migliorarsi, nella sua forma più sana. Nel suo Dizionario del successo dell’insuccesso e dei luoghi comuni (Sellerio) Irene Brin aiutava le persone a vestirsi nell’immediato dopoguerra, un periodo in cui tutta una nuova fetta della società aveva accesso a tutta una serie di cose nuove. Ora, sto semplificando, ma quello che intendo dire è che Instagram non crea la democratizzazione, anzi, ma rende comune un certo patrimonio visivo della moda. E poi sta poi a ciascuno di noi scegliere quali discorsi portare avanti.