Attualità

Mamma a chi?

Sedici scrittori senza prole rivendicano il diritto di non fare figli. Ma forse non è mai stato messo in discussione.

di Anna Momigliano

Come recentemente notava Emily Shire a proposito di Betty Draper, i personaggi più idiosincratici delle serie TV sono quasi sempre cattive madri. Generalmente è di cattive madri che si parla, quando si parla di persone che non sono tagliate per fare i genitori: se la maternità (o la paternità) non fa per te, deve essere perché saresti un pessimo genitore, e di riflesso sei una brutta persona.

Quando Jeanne Sefer scrive «la maternità non fa per me» intende tutta un’altra cosa. Saggista e psicoterapeuta newyorchese di mezza età, Sefer ama i bambini ed è convinta che, probabilmente, sarebbe stata una buona madre. Una delle cose che ama di più del suo lavoro è proprio aiutare i suoi pazienti ad essere buoni genitori. Semplicemente, ha scelto di non avere figli perché ha preferito fare altro: scrivere, per esempio, ma anche concentrarsi sul lavoro e sulla relazione col marito. Sefer è uno dei sedici autori – tutti “writers” nell’accezione anglosassone del termine, tutte persone cioè che hanno fatto della scrittura una forma di reddito: romanzieri, saggisti, giornalisti – che hanno contribuito alla raccolta di saggi Selfish, Shallow and Self Absorbed: sixteen writers on the decision not to have kids, curata da Meghan Daum e da poco pubblicata negli Stati Uniti da Picador. È «un libro sul decidere di non avere figli», spiega Daum nell’introduzione, dove «il punto è che l’essere genitori non fa per tutti».

static1.squarespaceTredici autrici e tre autori spiegano perché non fa per loro. La proporzione non è casuale perché, sostiene Sefer nel suo saggio, «la maternità è un’esperienza più totalizzante della paternità» e ancora di più perché «il non essere madri è per sempre» cosa che non si può dire del non essere padri: un uomo può cambiare idea e fare figli nella mezza età. Ognuno adduce ragioni diverse: c’è chi, come Geoff Dyer, confessa di non potere sopportare i ragazzini (più che altro: i ragazzini viziati), e chi, come Laura Kipnis, vede la maternità nemica dell’emancipazione femminile. Molti sono convinti di essere in qualche modo discriminati, in quanto non genitori, da un mondo governato da adulti con prole. Quasi tutti partono dal presupposto che avere o non avere figli sia prima di tutto una questione di scelta. Qualcuno ammette che gli scrittori, categoria «che ha particolarmente bisogno di tempo per sé» non siano un campione rappresentativo. Sul tema, tra l’altro, s’era già scatenato un acceso dibattito nel 2013, quando la saggista Lauren Sandler aveva lanciato sull’Atlantic un appello alle sue colleghe – ragazze, se volete avere successo, fate un figlio al massimo, come Susan Sontag, o non fatene affatto, come Harper Lee – e Zadie Smith, che di figli ne ha tre, le rispose per le rime.

Qui però il messaggio non è: meglio non avere figli (questa era invece la tesi sostenuta dalla psicoanalista francese Corinne Maier nel suo pamphlet No kid. Quaranta ragioni per non avere figli, uscito in Italia per Bompiani nel 2008). E non è neppure che la vita dei senza figli è necessariamente più agiata, tanto che gli autori evitano come la peste la parola “child-free”, libero dalla prole, termine popolarizzato da una copertina di Time del 2013 che dipingeva le coppie senza figli come spensierate e gaudenti (il sottotesto oscillava tra “loro sì che hanno capito tutto” e “guardate ‘sti vitelloni”). Piuttosto il messaggio è che non avere figli è non soltanto un diritto, ma anche un diritto che va rivendicato contro una società che ci vorrebbe tutti – e soprattutto tutte – genitori.

Perché non hai fatto figli? Cosa c’è che non va in te? Sono domande a cui gli autori si sono trovati spesso a rispondere.

Non è una posizione isolata. Su questa falsariga era uscito a gennaio Lunàdigas, web-doc di Nicoletta Nesler e Marilisa Piga dedicato alle donne italiane che scelgono di non avere figli e alle pressioni sociali che subiscono (il titolo deriva da un’espressione sarda per indicare le capre che non figliavano). Tra le intervistate, Margherita Hack, che spiega di essersi sempre sentita più a suo agio tra i gatti che con i bambini, e Veronica Pivetti: «Perché non ho avuto figli? Molto semplice: non ne avevo voglia», racconta, e aggiunge: «È essenziale fare capire che una donna è importante anche se non fa figli». A un certo punto compaiono tre giovani ostetriche: certo ognuno è libero di fare le sue scelte, dicono, ma le donne che non figliano «sono incomplete». Nessuna delle tre ostetriche, che sono giovani ma non propriamente ragazzine, ha figli, nessuno si sente in dovere di fare notare loro la contraddizione: in Italia la cosa è normale, come gli impiegati che vanno al lavoro in macchina e poi di sera bloccano le auto con il critical mass. Sono tutte madri con l’utero delle altre.

Lunàdigas, il documentario italiano, e Selfish, Shallow and Self Absorbed, la raccolta di saggi statunitense toccano molti punti in comune e, in parte, soffrono delle stesse debolezze. Tanto per cominciare, in entrambi i casi si parte dal presupposto che figliare o non figliare sia squisitamente una questione di scelta: esistono persone che vogliono figli e persone che non ne vogliono, tutt’al più esistono pure le coppie sterili. L’idea che qualcuno possa desiderare un figlio ma che non riesca ad averlo per ragioni non strettamente biologiche – fattori economici, mancanza del partner giusto, eccetera – non è presa in considerazione. Eppure in Italia una donna su quattro arriva alla conclusione dell’età fertile senza figli (in America, una donna su cinque): saranno tutte non madri per vocazione oppure sterili? Secondo gli ultimi dati Istat, in Italia quasi il 40 per cento delle lavoratrici rischia di perdere il posto in caso di gravidanza: a un anno dal parto il 23,8% viene licenziata, al 15,6% non viene rinnovato il contratto. E queste cifre non tengono conto di chi lascia il lavoro più o meno volontariamente, per fattori culturali (“preferisco stare a casa col bimbo”) ma anche per cause di forza maggiore (“l’asilo e la baby sitter costano troppo”). Non è assurdo ipotizzare che, come suggerisce Laura Preite su La Stampa, esistano molte donne che «rinunciano al lavoro per la maternità e che rinunciano alla maternità per il lavoro».

Poi c’è la questione della pressione sociale. Primo: nessuno mette in dubbio che esista una discreta pressione sociale a fare figli, né che questa pressione sia probabilmente più molesta nei confronti delle donne; ma siamo sicuri che i genitori non siano sottoposti ad altri tipi di pressioni? Secondo: ammesso che i non genitori rappresentino un soggetto discriminato, siamo sicuri che siano i genitori a discriminarli?

Una costante in molti dei saggi pubblicati nella raccolta Selfish, Shallow and Self Absorbed è la sensazione continua di essere giudicati: perché non hai fatto figli? Cosa c’è che non va in te? Sono domande a cui gli autori si sono trovati spesso a rispondere. Similmente, anche le donne interpellate in Lunàdigas dichiarano di essersi spesso sentite giudicate per la loro scelta. Tutti sembrano dare per scontato che questi giudizi negativi provengano da persone che invece i figli li hanno, ma la cosa resta tutta da provare. A ben vedere, le tre ostetriche sputa-sentenze intervistate nel web-doc non avevano figli. Forse il dibattito sulla genitorialità non è poi così diverso da quello sui gas serra: sono sempre gli altri a inquinare, io prendo la macchina perché devo; se gli altri non fanno figli sono egoisti o «incompleti», se non faccio figli io tutt’al più «è andata così».

mammaononmammaViviamo in una società dove riprodursi è un dovere, lamentano gli scrittori anglofoni. Viviamo in una società dove il valore di una femmina si misura nella sua capacità di essere madre, fanno notare le donne del web-doc. Quello che sfugge, forse, è che in questo contesto di genitorialità come dovere e di riduzione della donna a madre… forse chi ci rimette di più sono proprio i genitori, specie le madri.

«È vero che c’è una diffusa aspettativa secondo cui se sei donna devi fare figli. Il fatto però è che questa stessa aspettativa diventa altrettanto violenta anche per le donne che fanno figli, che in quanto madri rischiano di scomparire in quanto individuo e si trovano legate a una visione sclerotizzata della maternità», sostiene per esempio Carola Susani, co-autrice insieme a Elena Stancanelli di Mamma o Non Mamma.

Uscito nel 2009 per Feltrinelli, Mamma o non mamma è in libro dove le due scrittrici – Susani è madre, Stancanelli no – si confrontano sulle rispettive scelte. «Il libro è partito dall’idea di un’opposizione che non è reale. Nessuna di noi due ha mai avuto una posizione ideologica: la maternità è una scelta assolutamente individuale, non c’è un giusto un sbagliato, né una vittoria o una sconfitta», racconta Susani in un’intervista telefonica. «C’è un giudizio pesante su chi sceglie di non fare figli, ma c’è anche un giudizio pesante e costante sul come fare la madre. Per esempio è assurdo che si debba combattere col coltello su questioni come l’allattamento al seno: non c’è libertà di muoverti, devi seguire uno schema rigido», prosegue Susani. «Secondo me sono due facce della stessa medaglia. In entrambi i casi l’origine è il modello, tutto ideale e inventato, di madre identificata soprattutto con la pazienza e il sacrificio. Questo modello è usato per criticare le donne che non hanno figli tanto quanto le madri: alle prime viene imputato di non volere neppure entrare in questo modello, alle seconde di non conformarsi ad esso».

Questa sacralizzazione della maternità, per paradosso, rischia di sortire l’effetto opposto: non a caso l’Italia, paese dove il culto della maternità è particolarmente radicato, detiene anche il record di donne che non hanno figli. Mettere la Mamma sul piedistallo fa passare la voglia di essere mamma.

 

Nell’immagine: una giostra a Chennai, India. (Foto di Mark Kolbe/Getty Images)