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In Cina Wong Kar-wai è al centro di uno scandalo perché il suo assistente personale lo ha accusato di trattarlo male Gu Er (pseudonimo di Cheng Junnian) ha detto che Kar-wai lo pagava poco, lo faceva lavorare tantissimo e lo insultava anche, in maniera del tutto gratuita.
In Giappone un’azienda si è inventata i macho caregiver, dei culturisti che fanno da badanti agli anziani Un'iniziativa che dovrebbe attrarre giovani lavoratori verso una professione in forte crisi: in Giappone ci sono infatti troppi anziani e troppi pochi caregiver.
Rosalía ha condiviso su Instagram un meme buongiornissimo in cui ci sono lei e Valeria Marini  Cielo azzurro, nuvole, candele, tazza di caffè, Rosalia suora e Valeria Marini estasiata: «Non sono una santa, però sono blessed», si legge nel meme.
Hideo Kojima si è “giustificato” per la sua foto al Lucca Comics con Zerocalcare dicendo che l’ha fatta senza sapere chi fosse Zerocalcare Non c’era alcuna «intenzione di esprimere sostegno a nessuna opinione o posizione» da parte di Kojima, si legge nel comunicato stampa della Kojima Productions.
Anche Charli XCX si è messa a scrivere su Substack Il suo primo post si intitola "Running on the spot of a dream" e parla di blocco della scrittrice/musicista/artista.
A poche ore dalla vittoria al Booker Prize è stato annunciato che Nella carne di David Szalay diventerà un film Ad acquisire i diritti di trasposizione del romanzo sono stati i produttori di Conclave, noti per il loro fiuto in fatto di adattamenti letterari.
Il nuovo film di Tom Ford è già uno dei più attesi del 2026, per tantissime e buonissime ragioni Un progetto che sembra quasi troppo bello per essere vero: l'adattamento di uno dei più amati romanzi di Ann Rice, un cast incredibile, Adele che fa l'esordio da attrice.
Nel primo teaser del Diavolo veste Prada 2 si vede già la reunion di Miranda e Andy Le protagoniste salgono insieme sull’ascensore che porta alla redazione di Runway, riprendendo una scena cult del film originale.

Luke Perry e la morte del liceo

L'attore è scomparso a cinquantadue anni a causa di un ictus. Idolo teen per eccellenza, era ritornato in auge grazie a Riverdale.

05 Marzo 2019

I più fighi del liceo sono quelli che poi, nella vita, non possono che peggiorare. Pensate ai fighi del liceo vostro. Se li avete incontrati molti anni dopo, li avrete certamente ritrovati con la camicia che tira sulla pancetta, i capelli radi, il borsello a tracolla. Essere i più fighi negli anni in cui essere fighi è pressoché impossibile non è un vantaggio, ma l’esatto contrario. L’adolescenza è l’età, fisica e non, da cui tutti non vedono l’ora di affrancarsi. E dunque di migliorare, fisicamente e non. Chi è stato figo (il più figo) da teenager ha un futuro in salita.

Luke Perry era il prototipo del più figo del liceo. Letteralmente: in Beverly Hills 90120 il liceo era la West Beverly High School, e il più figo era il suo Dylan McKay. Era il più figo del liceo come ci immaginiamo e sempre ci immagineremo i più fighi del liceo, anche i nostri che venivano da Rogoredo: il gel, il chiodo, la moto. E lo era come lo sono iconograficamente sempre stati i più fighi nei libri e nei film, con quel loro mucchietto di tratti essenziali che resteranno immutabili nei secoli dei secoli amen. Il futuro di Luke Perry non è stato in salita, e già questo denota una qual certa unicità. È rimasto, pure da adulto, un discreto figo del genere stropicciato e rugoso, camicia di flanella e scorte di Bud in cantina. Ma certo l’immagine di lui ventiquattrenne – gli anni che aveva quando gli è stata assegnata la parte del figo minorenne – è rimasta cristallizzata, e probabilmente ineguagliata, fino ad oggi. «Lo ricorderemo per sempre giovane sul suo surf» ha scritto ieri sera Maria Elena Boschi su Twitter. Il più figo del liceo potrà anche peggiorare, ma ha già avuto l’eternità.

Luke Perry è morto ieri a cinquantadue anni, dopo l’ictus della settimana scorsa. Ai tempi nostri, nessuno voleva essere Dylan. Era troppo figo per poterci competere. Eravamo marmocchi e già ci sentivamo grandi, ma non così grandi. Non troppi giorni fa, parlando con un’amica che ha la mia età, è venuto fuori che entrambi in quinta elementare avevamo scritto lo stesso tema: «Beverly Hills 90210 è il mio programma preferito perché parla dei problemi di noi giovani». Ci sentivamo non decenni: giovani. Ci immedesimavamo nelle questioni di quei californiani lì, il sesso, la droga, la morte per arma da fuoco (Scotty), eccetera eccetera. Ci sentivamo già grandi, ma non volevamo essere Dylan. Dylan era di più. Dylan era l’anello di congiunzione ideale tra i ragazzini che ci sembravano nonostante tutto simili a noi (il mio modello aspirazionale era Brandon Walsh: per il ruolo di direttore del giornalino della scuola e per il ciuffo, che mi feci fare uguale dal barbiere) e il mondo di quelli grandi per davvero (cioè i torbidoni di Melrose Place, che alla maggior parte di noi era vietato: a me no, e ancora ringrazio i miei genitori).

Dylan era conteso dalle più belle della scuola, come grande amore sceglierà Brenda in quanto ragazza piena d’ombre come lui, ma, a differenza di lui, protetta dalla middle class. Dylan era l’amico fedele ma anche il rebel without a cause che si faceva gli affari suoi, il buono che però finiva nei giri brutti. Nelle stagioni successive del telefilm (una volta si chiamavano così) gli capitavano robe trucissime, derive mafiose, addirittura mogli mortammazzate in esplosioni choc. L’unico prezzo da pagare per aver osato essere il più figo negli anni in cui nessuno poteva esserlo era quello: una vita difficile.

Qui da noi Dylan stava agli album di figurine di allora, l’unico che io abbia mai finito, come Cristiano Ronaldo sta alle raccolte Panini di oggi. Qui da noi Dylan ha posato (con il Telegatto!) per una copertina di Tv Sorrisi e Canzoni, la risposta italiana alla sua cover di Vanity Fair America. Qui da noi Dylan è stato la lussuosissima guest star di un cinepanettone, cioè Vacanze di Natale ’95. Una gigantesca Cristiana Capotondi lo vede finalmente in una discoteca di Aspen, dove papà l’ha portata proprio per farle incontrare l’idolo suo e di tutte quante, e sospira: «Guardalo: è pazzesco!», e poi «Quanto è bono!», e già lo chiama «Amore mio». È la scena che racconta una generazione. Ironia della sorte, l’ultimo ingaggio di Luke Perry è stato altrettanto generazionale, però dentro una serie per gli adolescenti d’oggi: Riverdale. Quello che per noi era il più figo di tutti, per i quindicenni di adesso era un papà come tanti. È giusto così.

«Ormai uso il tuo profilo Facebook solo per vedere chi è morto» mi diceva un’altra amica di recente. Siamo quella generazione di passaggio tra l’analogico e il digitale, sappiamo smanettare sui social ma in fondo li usiamo principalmente come luogo della nostalgia, come un Techetechetè degli anni ’90. Ecco, gli anni ’90. La morte di Luke Perry è una delle tante, simboliche, sempre più frequenti morti di quegli anni lì: sono ormai più lontani di quanto siamo disposti ad accettare. Ieri si è suicidato, così si crede, Keith Flint, il cantante ossigenato dei Prodigy, pure lui quasi cinquantenne. Flint forse non era il più figo del liceo, ma era il frontman del gruppo che il più figo del liceo avrebbe ascoltato. La band inglese e Beverly Hills 90210 condividono l’anno di nascita: il 1990. L’inizio di quegli anni lì, l’inizio del nostro sentirci grandi. Dylan McKay, tra una surfata e l’altra, i Prodigy li avrebbe sicuramente sentiti.

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