Attualità

Lo Spielberg che non era

M. Night Shyamalan, dal successo del Sesto Senso al ritorno odierno con Wayward Pines. In mezzo, una lenta deriva di colpi di scena forzati.

di Federico Bernocchi

the-next-spielberg-16502-1313730216-27Era il luglio del 2002 e l’allora seguitissimo settimanale statunitense Newsweek arrivava in tutte le edicole del mondo con una copertina destinata a suscitare scalpore. Immerso in un campo di grano, di tre quarti, con un’espressione enigmatica, si stagliava il regista di quello che doveva essere il titolo caldo del botteghino estivo, Signs. Più sotto, il titolo: «’The Next Spielberg’ From Sixth Sense to Signs, M. Night Shyamalan is Hollywood’s Hottest New Storyteller». Come vogliamo tradurre «storyteller»? Narratore, creatore di storie, di mondi? Si vuole intendere qualcosa che vada al di là del semplice regista e sceneggiatore. Uno storyteller è qualcuno con una visione personale del mondo. Qualcuno che grazie alla sua arte è in grado di influenzare intere generazioni di fruitori, modificando in modo definitivo la propria disciplina di riferimento, sia questa la musica, il cinema o la letteratura. Il riferimento a Spielberg – all’epoca alle prese con quella che potremmo identificare la seconda parte della sua carriera, quella post Jurassic Park, per intenderci – era quindi chiaro: chi è il nuovo grande narratore del cinema statunitense? Chi è l’uomo che ci farà sognare, spaventare, emozionare nei prossimi anni nel buio delle sale cinematografiche? Lui! M. Night Shyamalan. Ok, ma chi era all’epoca M. Night Shyamalan?

Laureato presso la Tisch School of Arts, università privata di New York, esordisce al cinema nel 1992 con la commedia autobiografica Praying With Anger, storia di un adolescente problematico che dagli States torna nella natia India per scoprire qualcosa di più sulla sua famiglia e su se stesso. Comincia a lavorare per la televisione canadese e dopo qualche anno, nel 1998, i suoi genitori gli producono il secondo lungometraggio Ad Occhi Aperti con Rosie O’Donnell. La storia è quella di un ragazzino odioso che dopo la morte del nonno si mette alla ricerca di Dio. Anche questa seconda opera non lascia un segno indelebile nel panorama cinematografico come sperato e M. Night Shyamalan rischia di rimanere un signor Nessuno della settima arte, uno di quei nomi persi nei cestoni dei DVD a 4,90 euro nei grandi mercatoni. Ma mentre finisce la sceneggiatura di Stuart Little, il film con un topo parlante simpatico, succede l’impensabile. Il nostro ha un’altra sceneggiatura nel cassetto, una storia a cui tiene molto e che prima o poi vorrebbe far leggere a qualcuno. Quel qualcuno capita che sia addirittura David Vogel, allora presidente della The Walt Disney Studios. Impressionato dalla sceneggiatura di questo giovane pressoché sconosciuto, la acquista per la considerevole cifra di 3 milioni di dollari con la clausola che qualora il film dovesse entrare realmente in produzione sarà proprio Shyamalan a dirigerlo. Per tutta risposta la Walt Disney allontana Vogel dalla sua posizione e cede i diritti del film alla Spyglass Entertainment. Nessuno sembra fidarsi fino in fondo. Poi il film esce.

A fronte di un budget di 40 milioni di dollari ne incassa quasi 673, diventando uno dei titoli più caldi di tutto il 1999, anno di colossi come Matrix, Star Wars: La Minaccia Fantasma, American Beauty e Fight Club. Shyamalan diventa per la stampa il nuovo Hitchcock e il colpo di scena che chiude il suo film diventa qualcosa di più di un semplice twist. Viene subito parodiato dall’allora nascente corrente degli spoof alla Scary Movie, diventa un tormentone, qualcosa da citare in altri film. Ancora di più: si trasforma nel marchio di fabbrica del suo regista. Quasi nessuno si accorge di una regia e di una direzione degli attori molto particolari, quasi in antitesi con la prassi hollywoodiana del periodo (confrontate Il Sesto Senso con i titoli sopracitati: sembrano appartenere a epoche differenti), ma tutti vanno matti per il colpo di scena finale. E Shyamalan decide di battere il ferro finché è caldo. L’anno successivo esce a mio avviso quello che è il suo capolavoro, o per lo meno il suo film più complesso: Unbreakable. Un film di supereroi in anticipo sui tempi ma senza i supereroi che vuole o immagina il pubblico. Un dramma, un racconto di solitudini e pazzie, raccontato con grande classe registica e tempi volutamente dilatati. Con quello che sembra essere il suo attore feticcio, Bruce Willis, e un Samuel L. Jackson in stato di grazia. Basta? No, c’è anche il colpo di scena.

A fronte di un budget di 40 milioni di dollari ne incassa quasi 673, diventando uno dei titoli più caldi di tutto il 1999

Il film incassa, ma non quanto Il Sesto Senso. Anzi, direi più o meno un terzo. Ma non c’è tempo da perdere: bisogna scrivere, produrre e dirigere. E arriviamo al 2002, all’anno di Signs. Newsweek lo ha incoronato nuovo Spielberg e tutti attendono il nuovo colpo di scena targato “il regista de Il Sesto Senso”. Il film incassa piuttosto bene, riceve qualche ottima critica e qualche timida stroncatura, ma ha il merito (o la colpa) di far nascere il dubbio nel pubblico: “Ma questo non è che ci sta prendendo in giro?”. Chi va a vedere i suoi film sa già cosa aspettarsi e ogni volte le aspettative non vengono frustrate. Anche questa volta il colpo di scena c’è, ma è quanto di più macchinoso e meno spontaneo ci si possa immaginare. L’impressione è che da Signs Shyamalan non solo sia convinto di essere un grande regista ma anche l’unico in grado di scrivere interessanti o, ancora peggio, intelligenti. E la paura è che il suo metodo di scrittura sia ormai incentrato solo sul twist finale, quasi che si cominci da quello e che poi si vada a ritroso, per poter giustificare il tutto coerentemente. “Siccome abbiamo fatto vedere che la bambina ha l’asma, poi diciamo che i germi degli alieni non potevano raggiungerla proprio a causa della sua malattia, no? Perfetto!”.

Il film successivo a Signs è The Village. Ormai nel mondo esistono due gang, quella pro e quella contro M. Night Shyamalan. Come ogni fenomeno di culto nato alla fine dei Novanta, il regista ha un credito pressoché infinto nei confronti dei suoi fan duri e puri, che andrebbero a vedere anche una sua versione di Ok, Il Prezzo e Giusto (con colpo di scena finale, sia chiaro), ma in molti ormai si dicono stanchi di questa inutile ricerca della sorpresa a tutti i costi. Va detto che The Village è meno peggio di come in molti se lo vogliono ricordare e che – se escludiamo un’accusa non proprio leggera di plagio da parte della casa editrice del libro Running Out of Time scritto nel 1995 da Margaret Peterson Haddix – forse parliamo dell’ultimo film realmente personale di Shyamalan. Dal 2004 in avanti sembra che qualcosa si sia definitivamente rotto: l’ostinazione con cui vuole continuamente produrre, scrivere e dirigere i suoi film lo porta a far uscire pasticci come Lady in The Water o l’incredibile E Venne il Giorno. Parliamo di titoli che scontentano sia il pubblico che la critica, che rendono evidente che la magia delle prime sceneggiature è ormai lontana e che anche la tecnica registica sembra essersi ormai appannata. Se è vero che i colpi di scena sono ormai talmente forzati e pretestuosi da risultare ridicoli, quell’incedere misterioso e soffuso degli esordi appare oggi quasi come goffo.

Evidentemente deve averlo intuito anche Shyamalan che, dopo la delusione di E Venne il Giorno, si butta in un progetto sulla carta folle ma molto stimolante. Convinto da suo figlio, decide di portare su grande schermo e in versione live action Avatar: The Last Airbender, una serie animata destinata ad un pubblico di adolescenti piena di arti marziali, fantasy e superpoteri. Ragazzini in un mondo fatato che combattono a colpi di Kung Fu e bolle d’energia contro perfidi principi. Ma come? Niente twist inattesi, niente thriller, mistery o horror? No, nulla di tutto questo. Anzi, un tentativo schietto e palese di inserirsi nell’allora nascente filone delle trilogie young adult. Risultato? Un flop micidiale. Al cinema, nel mondo intero, andiamo a vederlo solo io e l’amico Matteo Bordone. Usciamo dicendo: “Mah, alla fine contando che forse ha rinunciato a fare per forza di cose i film alla Shyamalan, Shyamalan ha fatto un film normale, guardabile, a tratti divertente!”. Torniamo a casa e ci accorgiamo che, oltre ad essere gli unici ad essere andati al cinema vedere il film, siamo anche gli unici a trovare la mancanza del colpo di scena obbligatorio un plus e non un difetto imperdonabile. The Last Airbender esordisce malissimo negli Stati Uniti, viene letteralmente distrutto dalla critica, ma poi riesce a raccogliere un discreto gruzzoletto in giro per il mondo. Alla fine, anche se la saga viene interrotta e Shyamalan rinuncia per sempre al progetto di diventare l’eroe per suo figlio, un po’ di credibilità nei confronti dei produttori continua ad averla. Questo lo porta a impegnarsi in un progetto molto interessante, The Night Chronicles: una trilogia di film soprannaturali tratti da sue storie poi sceneggiati e diretti da altri.

Nel 2010 esce Devil, diretto dal mestierante John Erick Dowdle (suo Quarantine, remake a stelle e strisce di REC di Jaume Balaguerò), sceneggiato da Brian Nelson, prodotto e tratto da una storia originale di M. Night Shyamalan. Dieci milioni di dollari di budget, un bel po’ di coraggio per una storia tutta ambientata in un ascensore e tanta voglia di tornare a fare quello che si faceva così bene un tempo: paura. Peccato però che ormai la confezione sia, come suggerisce la durata di 80 minuti, quella televisiva e che il tutto risulti privo di mordente. Le limitazioni autoimposte – i pochi soldi e il set claustrofobico – giocano a sfavore della godibilità del film che si lascia guardare ma si dimentica alla velocità della luce. La produzione della trilogia subisce uno stop forzato a causa degli scarsi incassi del film e Devil rimane ad oggi l’unico capitolo della The Night Chronicles. Meglio tacere del passo successivo, ovvero il goffo tentativo di recuperare credibilità su grande schermo grazie alla passeggera amicizia con Will e il figlio Jaden Smith, colpevoli entrambi della realizzazione di uno dei film più noiosi, presuntuosi e sbagliati degli ultimi anni: After Heart. Fortunatamente nel frattempo è arrivata in soccorso la televisione che ha dato la possibilità a M. Night Shyamalan di produrre, fare da nume tutelare e dirigere il primo episodio di Wayward Pines, miniserie di Fox tratta dai tre omonimi libri di Blake Crouch e al momento in corso. A metà strada tra Il Prigioniero, Lost e Twin Peaks, è una piacevole serie tv estiva, di quelle che si guardano quasi sperando che “salti lo squalo” da un momento all’altro. L’aria, le atmosfere, l’aspettativa per una risoluzione che evidentemente è celata da un colpo di scena, in qualche modo ricordano il vecchio cinema di Shyamalan. Ma è questo il destino di chi solo pochi anni fa era indicato come il nuovo Spielberg?

Nell’immagine in evidenza: M. Night Shyamalan al Comic Con di San Diego. 9 luglio 2015 (John Sciulli/Getty Images)